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xviii | il secolo di dante. |
sonno, veduto il padre, vestito di candidissimi vestimenti, e d’una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui per mostrargli, dietro una stuoia al muro confitta in una finestretta da nessuno giammai più veduta,» i tredici canti, cercati indarno, del compiuto poema. Questa è lode invidiabile d’un poeta, quando un secolo imbevuto di poesia lo comprende e l’ammira. Ed era non solo poetico, ma veramente poeta quel secolo; al par di Dante, nutrito di franchi sdegni e di schietti amori; infaticabile, coraggioso, addolorato, credente.
Chi dubitasse de’ vincoli i quali congiungono le sorti dell’uomo alle sorti d’Italia, rammenti l’anno in cui Dante nacque. Era la primavera del MCCLXV, quando Carlo d’Angiò, chiamato in Italia da papa Clemente IV, e trionfalmente ricevuto entro le mura di Roma, veniva a fondare in sede omai certa le speranze de’ Guelfi, a schiantare l’ancor giovane tronco dell’arbore ghibellina, ad aprire il duello che dovevasi per tanti secoli sui campi d’Italia combattere tra Francia e Alemagna. Quali benefizj apportasse l’avvenimento francese all’Italia, lo dicono i saccheggiamenti e le disonestà dei novelli liberatori, lo dicono gli eccidii e gli stupri di Benevento; lo dicono le nuove gravezze al regno di Napoli imposte per voler d’un Francese, e per consiglio scellerato d’un Italiano; lo ripete la vostra squilla tuttavia risonante, o Vespri di sangue.
In quell’anno nasce all’Italia un ordine nuovo di cose: la causa che a Dante doveva, trentasei anni poi, costar tanto dolore e tant’ira, fin dall’anno ch’egli nacque era vinta. I quattrocento Guelfi fiorentini che, armati di splendide armi, capitanati da Guidoguerra, accorrono in aiuto di Carlo, portano un peso non leggero sulla straniera bilancia che pesa le sorti d’ Italia. Trentamila crociati scendevano per la Savoja, e trovavano alleati il Monferrato, i Torriani, il principe estense, i cittadini di Mantova; trovavano contraria Piacenza, Cremona, Pavia, Brescia, la bellicosa Brescia dal furor loro saettata, non presa. Un tradimento, se a Dante crediamo, dava ad essi il passo del Po, un tradimento il passo del Garigliano; e fin d’allora eran peste d’Italia quelle perfidie che sì largo luogo dovevano tenere nell’inferno della sua ira. La fame dell’oro, tante volte da lui maledetta, anche qui cospirava alla vittoria di Carlo. E la fazione ghibellina morì nel febbraio del seguente anno sul campo ove cadde Manfredi. E, al par della sua, fu lungo tempo ignorata la morte di lei; e le speranze di Dante stavano già fin d’allora sepolte sotto quel mucchio di sassi che la pietà de’ soldati pose, unico monumento al re sventurato. Tanto erano antichi i mali d’Italia, e tanto simili a ambascia le