Colombi e sparvieri/Parte II/V

Parte II - Capitolo V

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V.


Quando Pretu rientrò il padrone rileggeva ancora le letterine misteriose, ma per non farsi scorgere dal servetto lo chiuse fra le pagine del libriccino e si mise a leggere i salmi.

Qualcosa d’insolito rendeva meno triste la stamberga. L’odore dei canditi che usciva dalla cassa, l’alito primaverile che entrava dalla porticina, scacciavano il tanfo dell’umido e della miseria. Il malato, la cui testa delicata aveva sul candore delle foderette inviate dalla misteriosa donatrice un’aria quasi angelica, cominciò a leggere a voce alta i versetti del suo libriccino.

«Non lasciar l’anima tua in preda alla tristezza e non opprimere te stesso coi tuoi pensieri.

«Abbi compassione dell’anima tua, per piacere a Dio, e manda lungi da te la tristezza. Perocchè dessa ne ha uccisi molti e non è buona a nulla, e la letizia allunga i giorni dell’uomo».

Con l’arancia dentro la berretta che gli scivolava dalla testa, Pretu intanto preparava la cena e chiacchierava.

— La Pasqua dunque è passata, sia lodato Dio. A mia madre han regalato una coscia di capra; voleva darmene da portar qui, ma io le dissi: noi non vogliamo nulla da nessuno! Sì, zia Giuseppa Fiore ha ammazzato una vacca, per dar la carne ai poveri; però il filetto e le parti migliori se le li è tenute lei, che una palla le trapassi il garetto! A mia madre, poi, mio padre ha regalato cinque arance; ma aveva, una sbornia, una sbornia come non s’è visto mai. Egli [p. 188 modifica]però ha il vino buono; ride e dorme; dorme e ride. Ecco una delle arance: ve ne darò la metà; due spicchi li porterò a Bore, fratellino mio. Se vedete come succhia l’arancia: sembra un’ape sopra un fiore.

Egli trasse l’arancia e cominciò a spaccarla, mettendo a parte la buccia per portarla a sua madre.

— Essa farà l’aranciata, ve ne serberò un pezzetto. Intanto, volete assaggiare?

Porse timidamente la metà dell’arancia, sospettoso che Jorgj ne indovinasse la provenienza, ma il malato, il cui pensiero vagava nell’infinito spazio dei sogni, prese appena uno spicchio succhiandolo senza smetter la sua lettura. Solo più tardi mentre sorbiva la minestra di latte preparata dal ragazzo si guardò attorno e disse:

— Son sporche, sì, le pareti; bisogna far imbiancare; poi tu laverai bene il tavolo, la cassa, la porta....

Sulle prime il servetto non rispose; ma a un tratto sorrise malizioso e disse d’un fiato:

— Lo so chi aspettate. Il Commissario e sua sorella. A me non dite nulla, ma io lo so, e lo sanno tutti, e zia Grazia diceva, là fuori, che i regali ve li manda quella ragazza.

Jorgj palpitava; tuttavia disse:

— Di chi parli, scimunito?

— Bè, voi lo sapete! Di quella ragazza! Si chiama donna Mariana; è bella, ma sembra un fungo bianco perchè è bassotta ed ha il cappello grande come un canestro: anche le scarpe ha, bianche. L’ho vista a passeggiare col prete e il Segretario e mi ha sorriso; ha gli occhi grandi come due mandorle fresche. E dev’essere ricca, malanno colga i diavoli! Io dico che il suo vestito costa venti lire. E le scarpe? Almeno [p. 189 modifica]sette lire. Il Segretario faceva gli occhi grossi come due rotelle di fuso, guardandola; ma lei certo non lo vuole. Anche zia Giuseppa Fiore ha detto: per quella lì ci vuole un dottore. Ma se voi guarite, zio Jò, voi diventate dottore....

La conclusione inattesa fece sorridere il malato, ma dopo un momento egli sgridò il servetto imponendogli d’accendere il lume e di andarsene.

— Lascio la porta del cortile aperta?

— Lasciala pure.

I tempi erano mutati. Il padrone non era più selvatico e intrattabile come nei giorni passati: di nuovo aspettava qualcuno; ma tranne il dottore, il mendicante e zio Arras, nessuno più andava a cercarlo.

Rimasto solo Jorgj fissò a lungo la candela; gli pareva che la fiammella gli tenesse compagnia, che piegandosi mossa dall’aria gli accennasse il libriccino deposto sul tavolo e fra le cui pagine stavano le due letterine. Piano piano tese quindi il braccio, riprese il libro, rilesse.

Del resto le sapeva a memoria. Erano tutte e due scritte su foglietti giallognoli profumati alla violetta, con caratteri lunghi e angolari.

«La ringrazio vivamente di non aver respinto il mio modesto regalo. So che lei è fiero. È inutile che io finga oltre d’esser lontana. Sono vicina a lei, sebbene per poco tempo, e conosco tutta la sua storia, il suo lungo martirio. So che la sua porta è chiusa agli indifferenti ed ai curiosi; ma io non sono come gli altri, e oso pregarla di lasciarmi venire a visitarla. Se vuole che io venga mi scriva per mezzo dell’amico vetturale».

L’altra diceva:

«Non mi ringrazi! Son io che devo ringraziar lei di permettermi di farle un po’ di bene. Verrò. [p. 190 modifica]Potessi farle renderò giustizia, dirlo come Cristo a Lazzaro: sorgi e cammina!»

— Sorgi e cammina, sorgi e cammina! — egli ripetè dieci, cento volte, fissando di nuovo la fiammella: poscia cercò nel libriccino la parabola di Lazzaro.

Nella tiepida sera vibravano in lontananza i canti dei giovani pastori innamorati; egli aspettava ancora, e l’inquietudine e la speranza con cui per settimane e mesi aveva atteso Columba erano nulla in paragone dell’attesa presente. La donna che doveva irradiare con la sua presenza la stamberga rappresentava per lui la civiltà lontana, la giustizia, la pietà, tutte le cose più grandi della vita. Già dalle chiacchiere del servetto quando gli riferiva i discorsi delle donne nella strada capiva che la sua riabilitazione era cominciata e gli aforismi del vecchio bandito gli tornavano in mente. «Il tempo è il solo giudice. Pazienza e coraggio i soli incorruttibili testimoni». E le parole della sua nuova amica gli vibravano oramai nel sangue. «Sorgi e cammina; sorgi e cammina!»

Preso da un folle impeto di speranza tentò di sollevarsi, ma ricadde vinto dalla vertigine. In quel momento, attraverso una specie di vapore che roteava attorno a lui come un velo spinto dal vento, gli sembrò di veder la porta aprirsi e l’orlo giallo della gonna di Columba apparire nella fissura; poi tutto sparve, egli credette ad un’allucinazione e come gli avveniva sempre dopo un accesso di vertigine cadde in un sonno profondo.

L’indomani mattina fece pulir bene la casa ed il cortile.

Dopo mezzogiorno, sebbene Pretu suonasse le sue «leoneddas» d’avena seduto all’ombra fuor della porta, e a quel ronzìo dolce monotono [p. 191 modifica]come il rumore di un piccolo zampillo anche le mosche s’addormentassero, egli non potè chiuder occhio. Da qualche giorno la sonnolenza in cui prima rimaneva continuamente immerso lo aveva abbandonato; una smania di vita lo agitava e non potendo muoversi pensava. Le idee più strane e confuse, ora torbide ora luminose, passavano nella sua mente come le nuvole sul cielo primaverile.

Sopratutto pensava e ripensava al furto misterioso di cui il nonno s’era detto vittima. In realtà la vittima era stata lui, ma si domandava se a sua volta non commetteva un’ingiustizia accusando il vecchio di simulazione di reato. E se il furto era stato commesso davvero? Da chi? Il vecchio certo lo sapeva, e taceva per odio; ma forse dopo le nozze di Columba avrebbe parlato. Da chi? Da chi? si domandava Jorgj. Il contegno strano del mendicante, le sue visite frequenti, gli davan l’idea che l’uomo fosse attirato nella stamberga da un fascino misterioso, lo stesso che attira il delinquente verso il luogo ove ha commesso il delitto.

Jorgj si meravigliava di non aver prima di quel tempo tentato di scoprire il vero colpevole; ma di giorno in giorno, dopo i regali e le lettere della sua nuova amica, il desiderio della riabilitazione diventava in lui volontà ferma e cosciente.

Come attirato dalla suggestione di questa volontà, ecco ad un tratto l’uomo s’affacciò alla porta, spandendo nella stamberga il suo cattivo odore di stracci.

— Vieni avanti. Che nuove nel mondo? — gridò Jorgj.

Dionisi s’avanzò guardando fisso coi suoi occhi rotondi e verdastri lo sfondo del cielo azzurro solcato di nuvole bianchiccie. [p. 192 modifica]

— Eh, pare che voglia piovere! Fa bene! Fa bene! I grani son secchi prima di spuntare, — disse pensieroso: e stette a lungo immobile, con gli occhi sollevati, come affascinato dalla pace sonnolenta di quel gran cielo che con le sue nuvole simili a gradini di marmo, a frammenti di colonne, a lapidi sgretolate, rassomigliava a un cimitero.

In quel momento s’udì un coro di ragazzetti che giravano per il paese con un fazzoletto legato ad una canna a guisa di stendardo e imploravano appunto la pioggia.

Dazenos abba, Sennore;
Pro custa necessidade;
Sos anzones pedin abba
E nois pedimus pane....1

— Ecco, — disse Jorgj accennando col dito alle voci lontane. — Sì, il Signore ci castiga perchè i nostri peccati son grandi.

Come l’altro non rispondeva nè si moveva gli accennò di accostarsi al letto e ripetè a voce alta:

— Il Signore ci castiga perchè i nostri peccati son grandi! Sei stato a confessarti? Dionì l’hai fatto davvero il precetto pasquale?

— L’ho fatto sì! Ogni cristiano lo fa.

Ma Jorgj lo fissava, stringendo le labbra, e scuoteva la testa sul cuscino; da quella mimica l’uomo capiva meglio che dalle parole dette ad alta voce.

— Come, non l’ho fatto? Va a domandare, allora, va da prete Defraja....

— Se potessi muovermi ne saprei delle cose! Tu non saresti qui, certo!

— E dove, allora? A San Francesco? [p. 193 modifica]

— Giusto, — disse Jorgj mettendosi una mano sotto la guancia, — fra un mese è la sua festa; ci andrai?

Per tutta risposta l’uomo cominciò a baciare con fervore la medaglia di San Francesco, brontolando parole di tenerezza.

— Va’, va’ alla festa, Dionì! Ma non offendere San Francesco perchè è un santo vendicativo. Non entrare nella sua chiesa con intenzione di ingannarlo: perchè se tu hai rubato egli lo sa, se tu hai offeso Dio lui lo sa. È terribile, quel piccolo uomo; dicono che fa persino morire all’improvviso i peccatori che entrano nella sua chiesa.

Ma Dionisi a sua volta scuoteva la testa e stringeva le labbra: finalmente dopo averci pensato bene disse:

— T’inganni, cuoricino mio. Ma se là vanno i più famosi banditi? E allora quanti ne morirebbero in quella chiesa?

Jorgj le fissava. Voleva tentare una prova.

— Dionisi, — gli disse ad un tratto, — ma è vero che tu credi all’inferno?

— Non c’è altro, cuoricino mio! Inferno qui, inferno là!

— Senti cosa ho sognato stanotte; avvicinati, non farmi gridar tanto. Dunque senti, mi pareva d’esser già morto, e camminavo per arrivare al cielo. Era una strada in salita, accanto a un torrente, come su Monte Albo, mettiamo. E va e va non arrivavo mai; ecco a un tratto però vedo un frate scender giù e venirmi incontro. Era San Francesco. Dove vai? mi domanda. Glielo dico e lui comincia a ridere. Vieni con me, dice, ti farò vedere una cosa. E mi fa cambiar strada e mi conduce in un posto bellissimo sotto un pergolato carico di grappoli neri. Siediti, mi dice, e mangia di quest’uva, così vedrai perchè [p. 194 modifica]ho riso. Seggo e stacco alcuni acini da un grappolo, ed ecco subito vedo ai piedi del monte stendersi il mondo, e vedo nell’interno delle case, e vedo gli uomini e ciò che hanno in tasca. Fra gli altri vedo me steso su questo letto, e tu davanti con la bisaccia dentro la quale c’è la cassettina dei denari rubati a zio Remundu Corbu.... Intanto San Francesco dice: vedi perchè non puoi arrivare alla porta del cielo? Perchè lasciavi entrare in casa tua un peccatore simile....

A misura che Jorgj parlava il mendicante sgranava gli occhi e aggrottava le sopracciglia selvagge; il suo viso esprimeva la meraviglia, ma anche un po’ l’ironia e lo sdegno.

— Sant’Anna ti aiuti, — disse allontanandosi come per andarsene, — chi ti ha messo quest’idea in testa?

Si fermò in mezzo alla stamberga, volgendo il viso come per ascoltare ciò che il malato diceva; ma Jorgj non parlava e solo continuava a fissarlo ammiccando come per fargli capire che sapeva tutto.

All’improvviso il mendicante parve cambiar idea e si riavvicinò al letto: il suo volto era diventato terreo, le sue grosse mani nerastre si contorcevano come artigli. Jorgj ebbe paura.

— Dionì.... Dionì.... che fai? — gridò coprendosi il viso col lenzuolo.

In quel momento fu picchiato lievemente alla porta socchiusa del cortile e l’uomo cadde in ginocchio presso al letto come per non venir sorpreso nella sua attitudine minacciosa.


Note

  1. Dateci acqua, Signore — Per questa necessità — Gli agnelli chiedono acqua — E noi domandiamo pane.