Clelia/LXX
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CAPITOLO LXX.
CUCCHI E COMPAGNI.
E dentro Roma — che faceva Cucchi — con tutti i patriotti Romani e delle provincie sacrati alla liberazione della città od alla morte? —
Cucchi, da Bergamo — una delle più squisite individualità — che la rivoluzione abbia dato all’Italia — bello — giovine — ricchissimo e d’una delle prime famiglie di Lombardia, — Guerzoni — Bossi — Adamoli — e tanti altri — tutti disprezzando le torture dell’inquisizione — e mille altri pericoli — dirigevano l’insurrezione romana — sotto il comando dell’arditissimo bergamasco.
Il povero popolo di Roma — era docile alla direzione di quei forti — e domandava armi — e d’armi ne erano state inviate molte da ogni parte d’Italia — ma questo Governo di Firenze, esperto in ogni umiliazione e malvagità — ed espertissimo nel fare il birro — avea avuto lo scellerato talento di fermarle tutte, in guisa che di pochissime quei di dentro potevano disporre. —
Si aggiunga il tradimento che si preparava a questo popolo infelice: istigandolo a fare alcuni tiri di fucile — anche all’aria. — poichè sarebbe bastato, si diceva, per far volare l’esercito italiano dalle frontiere — e si avrà un’idea dell’infernale perversità — con cui da Firenze s’ingannava il popolo di Roma — e gli eroici suoi amici. —
E i-tiri di fucile li fecero — i poveri Romani — e si batterono senz’armi per le strade — contro l’immensa soldatesca ben armata — e birri — e preti e frati pure in armi — e fecero saltare una caserma di zuavi con una mina — e col solo coltello pugnarono da disperati — contro le famose carabine dei mercenarj.
In Trastevere — s’eran riuniti i nostri vecchi conoscenti — Attilio — Muzio — Orazio — Silvio — e Gasparo — e con loro tutti quelli dei trecento — su’ quali la polizia non aveva ancora posto le mani1.
Il popolo avea trovato capi atti a guidarlo — e vi fece il suo dovere.
Alcune delle vecchie carabine da noi conosciute nella campagna di Roma — facevano atto di presenza nelle robuste mani di Orazio — e de’ suoi compagni — e servivano d’efficace aiuto al nudo coltello dei trasteverini. —
Birri, carabinieri, zuavi, dragoni, in un fascio — colpiti da tegole — stoviglie — e arnesi gettati dalle finestre popolane — dalle coltellate del popolo — e da alcune poche carabine e fucili — precipitavano la loro fuga nella Lungara verso Ponte S. Angelo — e vi furono spinti persino oltre il ponte. — Ma questo era infilato da una batteria di cannoni, sostenuta da un reggimento intiero di zuavi — e quando il popolo frammischiato ai nemici che inseguiva si affollò sul ponte — il comandante dei clericali — degno seguace dei Torquemada — ordinò il fuoco — e le sei bocche della batteria — e i fuochi di linea della fanteria concentrati sul ponte — fecero un vero macello di popolo — e di birri.
Che importavano a Sua Santità le membra sparse de ’ suoi fedeli e compri scherani? Il denaro dei traditori dell’Italia era pronto per comprarne degli altri — quel che sommamente importava — era di ammazzare il maggior numero possibile di ribelli.
E molti ribelli pagarono colla vita il loro nobile slancio su quel ponte fatale — tanto più — che nella sublimità dell’entusiasmo — il popolo tornò per tre volte all’assalto — e per tre volte venne respinto dalla grandine fìtta di mitraglia — e di palle da carabina — che vomitavano i difensori del negromantismo. —
Chi fosse alla testa del popolo — nell’assalto del ponte si può indovinare. — I nostri cinque, ruggendo come leoni — dopo aver consumate le cariche — avevano spezzate le loro armi sul cranio della sbirraglia — e raccoltene di nuove sugli uccisi — trascinavano seco il popolo — e coll’esempio e la parola lo spingevano all’eroismo.
Il primo dei coraggiosi capi che morde la polvere — fu l’anziano — il venerabile principe della foresta — Gasparo. — Egli cadde collo stesso sangue freddo — con cui si poneva a sedere all’ombra dell’antica quercia — che gli servì di padiglione per tanti anni.
— Aveva il sorriso sulle labbra — ed era beato d’aver potuto dare la vita per la causa santissima del suo paese e dell’umanità. —
Un biscaino2 lo aveva colpito nel cuore e la bella morte fu istantanea — e senza dolori. —
Silvio cadeva accanto a Gasparo — colle due coscie trafitte. — Orazio ebbe l’orecchio sinistro portato via da un pezzo di mitraglia — e un altro gli sfiorò l’omero destro. — Muzio — fu colto da una palla nel petto — che lo avrebbe spedito — senza il robusto orologio inglese — regalo della bella Giulia — che andò in frantumi — ma gli salvò la vita — al prezzo soltanto di una forte contusione. —
Attilio ebbe sfiorata la coscia destra — la guancia sinistra — e sul cranio un’incannellatura — quale fa la corda sull’orlo del pozzo. —
Troppo era l’eccidio del popolo — troppi i caduti e dopo tre cariche consecutive — quella brava gente fu costretta di retrocedere.
Orazio caricatosi Silvio sugli omeri — lo trasportò nella prima casa accanto al ponte — ma giuntavi la soldatesca — il prode amante di Camilla — vi fu trucidato e fatto a pezzi.
Ugual sorte ebbero donne e bambini — e molta gente inerme — caduta nelle mani di quei degni soldati dei preti. —
Nella Lungara v’è un lanificio — nel quale erano occupati molti lavoranti. — Quanto sieno nobili gli istinti dell’operaio — appare nei casi solenni e di rivoluzione. — In simili circostanze l’operaio — salva la roba e non la ruba — salva la vita agli inermi — agii arresi — e non uccide mai col barbaro cinismo del mercenario. — Si batte poi come leone — disarmato contro gli armati — uno contro dieci. —
Di quel lanificio di Lungara — molti operai si trovavano già cogl’insorti — e solo i più vecchi erano rimasti nello stabilimento. —
Quando però quei buoni vecchi scorsero il popolo — ed i loro compagni perseguiti da birri e da mercenarj — spalancarono le porte — introdussero dentro i fuggenti — o gran parte — e poi spianarono stanghe, mannaje ed ogni istromento di ferro o di legno — che potesse servire a difesa e ad offesa contro gli odiati stranieri e i birri persecutori.
Ne nacque un parapiglia indicibile all’entrata del lanificio — ove il vantaggio rimase alla gente onesta — ed ove non pochi della sbirraglia ebbero le cervella fracassate a colpi di stanga — e la pelle forata da coltelli. — Fu d’uopo che i birri imprendessero un regolare assedio, pigliassero posizione nelle casa di fronte e nelle circonvicine — e così continuassero la pugna. — I nostri — asserragliati e barricati nel lanificio e ne’ suoi dintorni — radunate alcune armi da fuoco tenner testa — e continuò con varia fortuna accanitissimo il combattimento. —
I superstiti nostri tre amici — feriti — avevan combattuto e combattevano da leoni. — Gli insorti, animati dai loro capi — s’eran pure portati valorosamente — ma le munizioni mancavano — e colonne di mercenari si avanzavano in sostegno dei loro. —
La notte favoriva i figli della libertà — che quantunque privi di munizioni e pochi — non cessavano di resistere. — Eran le sette pomeridiane, quando rallentati i fuochi degli insorti — una colonna di papalini si accinse all’assalto — prendendo di mira il gran portone dell’opificio — che gl’insorti avevano barricato ma non chiuso. —
Orazio e Muzio dopo avere barricato il portone del lanificio — armati ciascuno d’una mannaja — collocati i più giovani romani — e più arditi — a destra e sinistra del portone — alla difesa — si tenevano pronti a resistere disperatamente ed a vendere cara la loro vita.
Attilio s’era incaricato di distribuire il resto della gente negli usci interni dello stabilimento — fatti barricare nel miglior modo possibile — collocando buon numero di operai alle finestre del piano superiore — donde dovevano scagliare sugli assalitori — quanti oggetti pesanti potevano loro venire alla mano. — Egli, armato della sciabola d’un gendarme — ucciso da lui stesso nella giornata — scendeva poi a raggiungere gli amici al posto più pericoloso.
L’aspetto dell’interno del lanifìcio già era straziante. — Molti cadaveri di coraggiosi popolani — morti alla difesa dello stabilimento. erano stati portati ed ammassati nell’angolo più oscuro dell’ampio cortile. Molti feriti giacevano qua e là negli altri angoli e nelle stanze terrene — e un solo lamento non si udiva — da que’ valorosi figli del popolo. —
Un’immensa tavola con un candelabro nel mezzo — occupava il centro di un vasto salone a sinistra dell’ingresso — e su quella tavola si vedevano ammonticchiate bende, fascie, filacce e panni di varie specie — che la casa aveva potuto fornire pel servizio dei feriti. — Bottiglioni — bottiglie — fogliette con vino non mancavano. — Una conca grande d’acqua — stava a’ piedi della tavola — forse refrigerio più utile ai sofferenti feriti — sia per mantenere, bagnandole, le loro ferite umide e fresche — sia per appagare la sete che le ferite generalmente cagionano.