Clelia/LIV
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CAPITOLO LIV.
ROMA IN VENEZIA.
Eran le undici della notte — le gondole ingombravano i canali di Venezia — e la piazza S. Marco, illuminata a giorno, era sì affollata di gente, da non potersi distinguere un palmo solo del suo lastricato. — Dal balcone del palazzo Zecchin, parte dell’antica Procuratia che limita la piazza a tramontana — il solitario aveva salutato il popolo — e quel saluto — al popolo redento — alla grande mendica — all’antico baluardo della civiltà europea — alla venduta di Campoformio — era corrisposto freneticamente dalla moltitudine esultante e commossa.
Ed anche il solitario era commosso — e tra sè pensava: «i solchi che il despotismo lascia impressi sul volto umano, — anche qui possono distinguersi. — Gli antichi dominatori del mondo furon trasformati dallo straniero e dal prete mago, la cui verga tuffata nella melma d’inferno, — è solo atta a cambiare il bene in male — l’oro in immondizie — e le nazioni le più prospere, le più potenti, in una turba di mendichi — e di sagrestani. Questa stirpe, che si dice figlia della romana — fu pure invilita — degenerata!» — E lui, che tanto ama il popolo, ne piangeva nell’anima addolorata!
Il solitario era commosso — ma non per questo lasciava di gettare uno sguardo scrutatore sulla folla circostante. — L’esperienza di cui non doveva mancare a sessantanni di una vita di tante prove — lo avvisava di star cauto rispetto alla natura delle folle e degli assembramenti popolari — ove nelle moltitudini si nasconde facilmente il ladro, l’assassino, la spia ed il prete, generalmente occulto sotto mentita veste. — E veramente: in quella povera Venezia, surta appena dalla tirannide straniera, formicolava ancora gran parte di quella canaglia. — che rende il despotismo possibile, vendendo l’anima a quattrini — e molta se ne poteva distinguere da occhio esperto — frammischiata al buono ed onesto popolo. —
Girava dunque il suo sguardo sulla popolazione affollata — il solitario — quando un picchio leggiero sulla spalla lo fece accorto di Attilio — «Non vedi» — gli disse il suo amico — «quel ceffo camuffato col berrette alla veneziana frammischiarsi ira quei buoni popolani veneti? — Egli è facile il riconoscerìo, come la vipera tra le lucertole — la tarantola velenosa tra le formiche. — Quando cotesti rettili serpeggiano nelle moltitudini non è senza scopo — è un inviato di Soma — e certo c’è del nuovo per noi. Colui è Cencio. — Addio!»
I nostri lettori ricorderanno l’agente subalterno di Don Procopio — per cui Gianni aveva affittata una stanza in vista dello studio di Manlio. — Costui dopo la impiccatura del padrone era stato promosso a maggiori uffici ed era agente principale di S. E. il cardinale A.... primo ministro del papa.
Cencio, una volta liberale e traditore poi — avea fatto tesoro delle cognizioni acquistate tra i democratici di Soma — e perciò era reputato prezioso come agente segreto dalia curia cardinalesca. — Vedremo ora qual era la sua missione in Venezia.
In un salone di casa Zecchin, affollato di visitatori, risplendevano sulle venete bellezze — le tre bellissime eroine nostre — Irene» Giulia e Clelia. — La gioventù veneta assuefatta a contemplare le vezzose figlie della regina adriaca — rimaneva ammirata all’aspetto delle tre romane — dico: tre romane — poichè Giulia, che avea sposato il suo Muzio — benchè figlia affettuosa della sua bella patria — vantavasi e si compiaceva dell’adottiva sua terra chiamandosi ella pure romana.
Irene la più attempatela delle tre — conservava ancora tanta freschezza da nascondere sotto il maestosissimo portamento — gli anni che aveva di più delle compagne. La sua bellezza era tale da poter servire di modello all’artista cui piacesse ricordarci le antiche e severe matrone della Roma dei Cincinnati.
Il matrimonio nulla avea tolto alle bellissime più giovani compagne — e le tre, formavano un ornamento tale nel veneto salone — da tenere — come dissi — quella gioventù sospesa in ammirazione.
Accanto a Clelia stava Manlio — e la buona Silvia — con lui — talchè delle nostre donne mancava sola l’Aurelia. Gettata in una vita romanzesca e di avventure che mai non avea sognato — quest’ultima finì con l’avvinghiarsi al buon capitano Thompson — come l’ellera alla quercia. — Benchè un pochino repugnante da quelle certe tempeste — il cui saggio tanto l’avea malconcia — pure col suo caro leone di mare a lato — i marosi le sembravano assai meno spaventevoli.
Orazio e Muzio stavano insieme in un canto del salone conversando sugli avvenimenti del giorno — quando Attilio 3 giungendo vicino ai due amici, partecipò loro la sua scoperta — ed i tre s’incamminarono giù per le scale verso Piazza S. Marco.
Non furono pochi gli sforzi dei tre amici per rompere la moltitudine ammassata sulla piazza e penetrare sino all’oggetto della loro ricerca — ma vi pervennero alfine — e mentre il solitario richiamato dal popolo al balcone — gettava gli occhi verso il punto — accennatogli prima da Attilio — potè scorgere i suoi giovani amici che accerchiavano il finto popolano di Venezia.
La mano di ferro di Orazio strinse il polso dello sgherro — come una tenaglia; — Muzio con quel certo accento già noto al malvagio, fissandogli negli occhi i suoi occhi fiammeggianti:
«Con noi, Cencio» gli susurrò «e tosto.» — Il famigliare dei preti, — il traditore delle Terme di Caracalla — tremò da capo a piedi — cambiò il rubicondo suo volto in quello di un cadavere — e senza articolare parola — seguì la via indicata da Muzio — in mezzo agli altri due romani che lo spingevano avanti irresistibilmente.