Chiaroscuro/Lasciare o prendere?
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LASCIARE O PRENDERE?
Da cinque anni don Giuseppe Demuros insegnava a Dorgoro. Il paesetto era triste, umido; un vero buco di viventi sprofondato in una valle tetra rocciosa. La giovinezza del povero macstro che un giorno aveva sognato di riformare il mondo se ne andava così, come una malattia di languore, lenta, monotona, inesorabile. Quando i suoi quaranta scolaretti sporchi, giallognoli e camusi come piccoli trogloditi scesi giù dalle grotte di Monte Gudula intonavano l’inno dei lavoratori con una cadenza religiosa, egli sentiva voglia di piangere e di frustarli. No, l’indomani non sarebbe giunto mai nè per loro nè per lui nè per nessuno: tutto il mondo era chiuso da una catena di roccie come il villaggio di Dorgoro, con sopra una cupola di nebbia.
Ad aumentare la sua ipocondria giunse una lettera di suo padre, il vecchio nobile don Giame.
«Ho perduto il mio ultimo bene — scriveva il vecchio nobile decaduto, col suo stile di cui la miseria non aveva smorzato l’ironia. — È morta Munserrata, la nostra fedele serva e balia. Non c’è da pianger certo la sua immatura perdita perchè se son vecchio io figuriamoci lei! I soli suoi anni ch’io possa contare con precisione sono i quaranta che ella ha passato qui da noi dopo la condanna di suo marito per l’assalto alla corriera.
«Non ti preoccupare per me: serve vecchie ne trovo quante ne voglio: così, le trovassi giovani! Del resto se Munserrata non moriva forse mi lasciava lo stesso perchè, guarda caso, giusto suo marito Pera è tornato la settimana scorsa appena a tempo per vederla morire. Sembravano due sposini, e forse è stata l’emozione della rinnovata luna di miele a mandarla giù. Il curioso è che Pera adesso mi si è installato addirittura in casa e per compensarmi dell’alloggio pretende di farmi i servizî lui. È arzillo, il reduce! Fa da cuoco, da calzolaio, da sarto: quasi mi viene in mente l’idea che voglia riprender moglie. Il gruzzolo certo deve averlo: nella corriera viaggiava il commissario con le ultime rate d’imposta e col denaro — dicono — tutto in oro, della vendita del salto di San Michele per conto dello Stato. E prima di venir presi, Pera ed i suoi valenti compagni pare abbiano avuto il tempo di nascondere il tesoro. Egli solo ritorna; e la sua smania di fare il servo e di parer povero mi dimostrerebbe ch’egli non lo è. Lasciamolo fare: svelto e pulito lo è, più di Munserrata; si vede che era al servizio del re!»
La chiusa burlesca aumentò il malumore di Giuseppe. Immediatamente egli decise di piombare sulla sua nobile casupola in rovina e di scacciarvi l’ex — galeotto.
E va. Era agli ultimi di dicembre, verso Natale, ma il tempo si manteneva bello come una tardiva estate di San Martino, e il viaggio rasserenò alquanto il cuore dispettoso del giovane maestro. Da Nuoro, ov’egli dovette cambiar veicolo, la strada che va al suo paese corre tra la valle e la montagna, tra vigneti e oliveti centenarî: qua e là l’Orthobene eleva quasi a picco le sue roccie che sembrano dominate da torri fantastiche: qualche punta granitica ha un alberello in cima come una fiammella su un candelabro. La cattedrale di Nuoro, appare, sparisce, torna ad apparire fra due ciglioni, come un castello grigio sullo sfondo rosso del cielo. Dopo il fiume che corre selvaggio fra roccie e macchie come un bandito, Giuseppe cominciò ad ammirare, fra i rami sottili dei mandorli spogli, i picchi azzurri dei suoi monti, e gli parve d’esser tornato adolescente, quando alle vacanze di Natale rientrava al suo paesetto come l’allodola al suo nido. E come un nido allegro appariva il paesetto, attaccato alla falda del monte: una chiesetta bianca è in alto, e la strada che vi conduce pare una corda gettata attraverso le macchie.
Ed ecco le case bianche sparse sulla china verde del monte, le straducole in pendìo: qualche casetta medioevale ha forma di torre, con un portichetto in cima, con aperture a mezzaluna ove si sporgono figure di donne il cui viso un po’ quadrato, sotto la linea nera e dritta dei capelli divisi in mezzo ma tirati e lisciati bassi sulla fronte, ha qualcosa di egiziano.
Gli uomini, invece, riuniti nella piazza che Giuseppe attraversò per recarsi a casa sua, erano agili e belli, con calzature leggere e corsetti rossi a striscie di broccato: ricordavano i toreadori, come del resto tutto il paesetto con la sua chiesa e il convento di Gesuiti, i balconi di legno, i melograni sui pozzi di roccia, i fazzoletti frangiati e fioriti delle donne, i vecchi contadini sui cavalli bianchi, ricordava la Spagna primitiva. La casa di don Giame guardava verso la grande vallata: dal ballatoio malsicuro Giuseppe rivide il paesaggio grandioso che aveva disegnato un degno sfondo ai suoi sogni di adolescente, e, se non altro, respirò. La casa era aperta ma sembrava disabitata; Giuseppe salì alle camere superiori e solo allora sentì un lamento che usciva dalla stanza della serva. Steso sul lettuccio di legno coperto da una specie di arazzo grigio e giallo, vide un uomo dal visetto rosso raggrinzito, con gli occhi lucenti come due perle.
— Zio Pera, siete voi?
Ma l’uomo, che annaspava le lenzuola con le piccole mani rosse e sudate, aveva la febbre alta e delirava.
— Giame, figlio di latte, ti dico che è così! Prendili i denari; sono tuoi; tuoi, ti dico! A cui devo lasciarli, se no? Alla Chiesa? I preti non li posso vedere, e Dio vuole buon cuore, non denari. Ai parenti? Non ne ho. Ai fratelli in Dio? Tutti mi hanno tradito e sputacchiato in viso come Cristo. Tu solo, sebbene nobile, mi hai preso in casa tua e mi hai dato ospitalità.... E Munserrata, povera mandorla, voleva così. Prendili, dunque, o mi arrabbio....
— Ma dov’è mio padre? — gridava Giuseppe, nervoso e turbato, correndo di camera in camera. Gli pareva di sognare. I pavimenti corrosi traballavano, la voce del malato lo perseguitava in ogni cantuccio della casa desolata come la voce di un fantasma in mezzo alle rovine.
Finalmente don Giame apparve dietro il muro rovinato del cortile: veniva su pian pianino, vestito di nero, con la sua gran barba bianca come un collare di merletto, il viso calmo e ironico. Era stato a comprar provviste e medicine e le portava su entro il suo gran fazzoletto rosso macchiato di tabacco.
— Ha la polmonite doppia; ancora due o tre giorni e psss.... — disse, soffiando in su e scuotendo la mano per accennare a un volo d’uccello.
— Ma perchè lo avete preso in casa? — domandò il figlio esasperato.
— Perchè? vuoi sapere il perchè? Ebbene, te lo dirò: perchè non ha voluto andarsene!
Rise giovenilmente, credendo d’essersi beffato di Giuseppe; ma quando il giovane maestro cominciò a sbatter qua e là le povere sedie zoppe e a brontolare ch’era stata vergogna tenersi in casa un galeotto, un grassatore, egli trasse la tabacchiera di corno chiusa da un tappo di sughero, vi battè contro le nocche delle dita e reclinò un po’ la testa sull’omero.
— E tu, l’uomo moderno, il socialista, parli così! Non dicevi che siamo tutti compagni? Il vecchio era già malato quando arrivò: adesso sta un po’ peggio. Ebbene, sei sempre a tempo. Caccialo via tu, su, coraggio, che ti costa?
E Giuseppe dovette rassegnarsi. Don Giame applicò le ventose al fianco livido del malato, poi sedette accanto al lettuccio e prese fra le sue la piccola mano che annaspava le lenzuola.
— Prendili i denari, Giame, prendili! — ripeteva il moribondo, e pareva parlasse sul serio.
— Ma di che si tratta, padre?
— Del suo tesoro, perdinci! Magari lo dicesse davvero! Delira....
— E voi scherzate, padre!
Giuseppe se ne andò in giro. Tutti gli domandavano sorridendo dell’eredità di zio Pera, ed egli sollevava il bastoncino preso da una smania di tristezza e d’ira come quando i suoi scolari cantavano l’inno. Ma i suoi compaesani scherzavano volentieri.
— Ebbè, don Giusè, se non li vuol lei, i marenghi di zio Pera, veniamo a prenderli noi, tanto siamo parenti.
Infatti, saputo che don Giuseppe era arri vato apposta per impedire al padre di accettare l’eredità, metà dei compaesani si riversò nella casa dove zio Pera agonizzava; e tutti pretendevano di esser suoi parenti.
Ma don Giame li cacciò via come mosche, un po’ burlando, un po’ minacciando, un po’ ripetendo la vecchia canzone:
In tempu de latte |
Giuseppe fremeva, ma ad un tratto tutto intorno ritornò calmo e silenzioso. Zio Pera era morto, e don Giame, che da gran signore qual era stato ai suoi tempi lo aveva fatto accompagnare da tutti i preti del paese e con una bella bara foderata di velluto, non parlava affatto dell’eredità. E non dimostrava una tristezza falsa e fuori di luogo.
— Il valentuomo è morto contento: perchè dobbiamo piangerlo noi? Il Natale lo festeggeremo lo stesso.
Ma Giuseppe pensava che per lui non esistevan più feste: la vita, per lui, era tutta una quaresima. La morte del vecchio lo aveva però colpito profondamente. Così si muore, pensava, dopo il bene e dopo il male, dopo una vita di libertà o di prigionia; tutto finisce, e gli errori e gli eroismi, il premio o il castigo di cui vien gratificato l’uomo dai suoi simili, tutto appare ridicolo davanti alla grandezza della morte.
— Se il vecchietto aveva realmente un gruzzolo se lo era ben guadagnato coi suoi quarant’anni di schiavitù; era suo e poteva disporne come della polvere delle sue scarpe.... — egli pensava aggirandosi per la casa fredda e desolata e guardando suo malgrado qua e là nei ripostigli ove il morto avesse potuto nascondere il suo tesoro.
Era la vigilia di Natale e il tempo si manteneva bello, freddo e luminoso: attraverso le finestruole senza vetri il grande paesaggio di vallate verdi chiuse dal profilo bianco e violetto dei monti lontani appariva nitido e pieno di luce: i rumori vibravano come colpi battuti sul cristallo, e tutto era diafano, armonioso. Veniva desiderio di spiccare il volo e andarsene attraverso il mondo bello e grande, come le aquile che dopo il tramonto passavano sopra il villaggio.
— Se zio Pera avesse davvero lasciato un po’ dei suoi famosi marenghi! I denari sono le ali dell’uomo....
Così pensava Giuseppe, seduto melanconicamente accanto al fuoco, nella cucina grande, dove ai bei tempi i servi di casa Demuros avevano festeggiato con cene e canti omerici il Natale. Don Giame arrostiva allo spiedo un pezzo di cinghiale regalatogli dalla guardia campestre, e diceva:
— Giusè, che pensi? Dirai: mio padre è ben decaduto se accetta regali dalla guardia campestre! Ed io ti rispondo: Giusè, la guardia campestre rimane la guardia campestre e don Giame Demuros rimane don Giame Demuros.
Giuseppe non pensava a fare osservazioni: compativa tutto, lui, e non protestò neppure quando suo padre, preparato un canestro per la cena all’uso sardo, tagliò alcune fette dell’arrosto rosso e fragrante, e lasciando il resto infilato nello spiedo e questo al caldo in un angolo del focolare, portò il canestro col pane, la carne, le olive, il vino, le noci, sul tavolo nella cucina piccola che serviva usualmente anche da sala da pranzo.
— Per le anime, — disse con voce grave eppure sarcastica.— Munserrata me lo ha raccomandato tanto! Certo, perchè verrà anche lei: e Pera, se Dio vuole, la accompagnerà!
Scherzava, parlava sul serio? Giuseppe ricordava che la vecchia serva tutti gli anni nella notte di Natale preparava così una piccola cena per i Morti che ritornano nella casa ove vissero: e la mattina dopo non spazzava perchè qualche cosa di loro poteva esser rimasta sul pavimento. Il curioso è che tutti gli anni la cena spariva: e Giuseppe, da fanciullo, attraversava la mattina dopo la cucina e il cortile a salti per paura di calpestare qualche cosa di loro. Una volta era malamente caduto. Quante cose, dopo, egli non avuto paura di calpestare così! Illusioni, polvere di morti! Ed era perciò caduto.
— Tu, cosa fai? — domandò il padre. — Non vieni alla messa? Al ritorno ceneremo assieme.
Senza dir nè sì nè no, Giuseppe lo seguì per un tratto: le campane squillavano nella notte luminosa e fredda e nelle straducole risuonavano gli scarponi ferrati dei pastori: qualcuno di questi, con un grande grappolo nero di barba che si confondeva col pelo della mastrucca sembrava il re Melchiorre; qualche altro, coi lunghi capelli rossicci e il broccato del giubbone fosforescente alla luna pareva il re Baldassarre. E tutti andavano lassù, alla chiesa povera come la stalla ove è nato Gesù: figure strane guizzavano qua e là, fra il chiarore azzurro della luna e l’ombra turchina dei vicoli in pendio: teorie di donne, lievi, jeratiche, con le scarpette che parevan fiori, bambini dai larghi calzoni bianchi; e tutti andavano su, sparivano, come perdendosi sulla montagna il cui sfondo chiudeva ogni vicolo e sovrastava alle case. Anche Giuseppe andava, dietro la figura nera di suo padre; ma a un tratto fu preso in mezzo da un gruppo di giovani miscredenti che gl’impedirono di entrare in chiesa e lo condussero con loro in una casa dove si ballava e si cantava. Tutti erano allegri, meno lui. Seduto su una panca sporca di vino guardava il quadro rosso e nero che gli si moveva davanti attraverso un velo di fumo, e sentiva rimorso di aver
abbandonato suo padre. Sapeva che don Giame, sotto la sua apparente trascuranza, teneva molto agli usi e alle tradizioni del paese: tornando a casa solo gli sarebbe parso di cenare in compagnia dei Morti!
Ma Giuseppe non poteva muoversi; sentiva un malessere profondo, un cupo dispetto contro sè stesso e contro tutti: gli sembrava che una forza occulta lo trascinasse, che tutto intorno a lui fosse un po’ irreale e fantastico, come se avesse bevuto anche lui il vino forte che trascinava al ballo persino i vecchi e le donne sofferenti. Una voce gli diceva: — Va, muoviti, va da tuo padre. Stanotte anche i figli lontani e perversi tornano alla casa paterna. Tornano persino i morti.... E tu non torni....
— Sciocchezze! Avanzo di tenebre antiche! — rispondeva a sè stesso scrollando le spalle.
Ma intanto sentiva una tristezza dispettosa, a star lì immobile su quella panca che odorava di vino, in quella cucina fumosa ove le figure preistoriche si movevano come nel chiaroscuro d’una grotta. Le ore passarono: i galli annunziarono col loro grido che la festa doveva finire, e gli uomini sazî di carne e di vino caddero uno dopo l’altro sulle stuoie come abbattuti da una mano invisibile.
Gl’invitati se ne andarono, e anche Giuseppe s’avviò alla sua triste casa. La luna tramontava e la montagna su in fondo ai vicoli pareva un velo azzurro: figure ed ombre erano scomparse, eppure nell’attraversare lo spiazzo davanti alla sua casa, Giuseppe credette di veder un uomo arrampicarsi sui sostegni del ballatoio e allontanarsi come un gatto sui tetti.
Entrò. La cucina grande era deserta, tiepida: dal fuoco coperto usciva ancora una fiammella violacea che dava un chiarore fantastico alle cose intorno. Tutto era in ordine; lo spiedo a posto, vuoto. Giuseppe pensò di nuovo al dispiacere dato a suo padre, e gli pareva d’esser stato ancora una volta stupido e ridicolo passando la notte in casa d’altri. Anche i morti ritornano.... Ebbene, cos’era quest’altra stupidaggine che gli frullava in testa?
— Sono debole.... — disse a voce alta, curvandosi per accender la candela alla fiamma.
Appena spinse l’uscio che comunicava con la cucina piccola, un soffio d’aria fredda lo colpì: la porticina sul cortile era aperta e vi si vedeva un quadrato di luna bianco come un fazzoletto di tela. Il canestro sul tavolo era vuoto; e un oggetto lì accanto diede a Giuseppe un’impressione misteriosa, come il ricordo d’una vita anteriore. Una lieve vertigine gli velò la mente: figure conosciute eppure indistinte tornavano a circondarlo, come nella casa dove aveva passato la notte; ma dopo un attimo tutto dileguò, ed egli ricordò di aver da ragazzo veduto tante volte entro la cassapanca di Munserrata il cofanetto d’asfodelo, diventato nero per il lungo uso, che adesso stava sul tavolo. La vita anteriore che egli ricordava era la sua infanzia. Staccò dal cofanetto il coperchio guarnito di nastrini e il suo viso si fece lungo per la meraviglia, poi corto per il sorriso che lo allargò: sorriso di piacere, ma anche d’ironia.
Il cofanetto conteneva il tesoro di zio Pera. Giuseppe capì subito che lo aveva messo lì suo padre. Perchè? Per fargli ingenuamente credere che lo avevano portato i due servi morti, o per burlarsi di lui?
Ma il quesito cadde subito, insoluto, incalzato da un altro. Che fare? Prendere o lasciare? Tornò la vertigine, ripassarono le figure; e tutte adesso si ridevano di lui per il solo fatto che egli si domandava: prendere o lasciare?
Rimase un momento così, curvo, mentre dalla candela piovevano goccie di cera che si congelavano come perle sulle monete d’oro: finalmente balbettò come un bimbo: «prendere....» e gli parve d’esser chinato sull’orlo di un pozzo in fondo al quale brillava il sole....
- ↑ In tempo di latte, — nè amico nè fratello. — In tempo di fichi, — nè fratello nè amico. Vale a dire in tempo di fortuna.