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Da cinque anni don Giuseppe Demuros insegnava a Dorgoro. Il paesetto era triste, umido; un vero buco di viventi sprofondato in una valle tetra rocciosa. La giovinezza del povero macstro che un giorno aveva sognato di riformare il mondo se ne andava così, come una malattia di languore, lenta, monotona, inesorabile. Quando i suoi quaranta scolaretti sporchi, giallognoli e camusi come piccoli trogloditi scesi giù dalle grotte di Monte Gudula intonavano l’inno dei lavoratori con una cadenza religiosa, egli sentiva voglia di piangere e di frustarli. No, l’indomani non sarebbe giunto mai nè per loro nè per lui nè per nessuno: tutto il mondo era chiuso da una catena di roccie come il villaggio di Dorgoro, con sopra una cupola di nebbia.
Ad aumentare la sua ipocondria giunse una lettera di suo padre, il vecchio nobile don Giame.
«Ho perduto il mio ultimo bene — scriveva il vecchio nobile decaduto, col suo stile di cui la miseria non aveva smorzato l’ironia. — È morta Munserrata, la nostra fedele serva e balia. Non c’è da pianger certo la sua imma-