Chiaroscuro/La scomunica
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LA SCOMUNICA.
Solo zia Vissenta, la vecchia serva fedele, sapeva della partenza della sua padrona.
Il chiarore argenteo dell’alba di maggio si fondeva ancora con la luminosità dorata della luna quando ella si affacciò al ballatoio della scaletta esterna per chiamare il servo, che era anche un parente povero della sua padrona.
— Ziu Juannì, alzatevi, sellate i cavalli.
L’uomo, che dormiva sotto una tettoia come un cane fedele, si alzò rigido, d’un pezzo, con la schiena dritta come quella di un giovanotto di vent’anni e andò a lavarsi al pozzo. Era un bell’uomo; alla luce dell’alba il suo viso bagnato, coi capelli rossastri ondulati di qua e di là dalle orecchie, con gli occhi dolci e verdognoli, sembrava quello di un Cristo appena verniciato.
In breve il cortile fu pieno dello scalpitìo dei cavalli, del canto del gallo, dell’abbaiare del cane; altri galli ed altri cani rispondevano, e pareva che il villaggio e i dintorni fossero abitati solo da animali domestici.
La padrona apparve sul ballatoio, piccola e legnosa nel suo costume scuro; oltre la benda gialla che le avvolgeva il capo, un fazzoletto bianco le fasciava metà del viso, lasciando appena scorgere un profilo pallido da ebrea e due grandi occhi neri foschi di sofferenza.
— Eccola, — pensava il parente, legando la bisaccia all’arcione, — dove va adesso la vecchia bajana (zitella) avara? Da qualche tempo è presa dalla smania dei viaggi, dopo che per quarantanni non si è mossa per non lasciar soli i suoi quattrini nascosti nel muro.
— E dove andiamo, cugina Annì? Ah, a Nollòro? Cosa vai a fare? A consultar la maga?
Ma la donna non aveva voglia di scherzare: con una mano si stringeva la guancia, tanto i denti le facevano male, e sottovoce non cessò di dare avvertenze alla serva fedele, finchè questa non si chiuse ben dentro il cortile circolare, il cui muro, elevato un po’ più tutti gli anni, a misura che cresceva la pecunia della padrona (pensava il cugino povero) sembrava quello di una fortezza dell’epoca dei nuraghes.
Il paesetto taceva, nero nell’alba argentea, coi suoi cortili chiusi, le case basse senza finestre, gli orticelli coi melograni in fiore, misterioso e triste come un villaggio i cui abitanti fossero stati esiliati: e quei due passarono silenziosi, la donna con la mano sulla guancia, l’uomo rigido in sella, con la berretta ripiegata alla sommità del capo e il fucile sull’omero. Una pianura selvaggia s’apriva davanti a loro: al sorgere del sole le roccie giallastre sparse tra il verde parvero blocchi e le macchie del timo e del mirto fiorito vibrarono di gorgheggi come se tutti i fiori cantassero nel bel mattino di maggio.
La donna pregava; l’uomo guardava i pascoli calcolando a quanto bestiame potevan bastare, e sputava dall’alto del suo cavallo che procedeva sempre puntiglioso d’andar avanti.
— Come va la mascella, cugina Annì?
— Va un po’ meglio, lodato sia Cristo.
— Allora hai detto, andiamo a Nollòro? Passiamo davanti alla chiesa di Sant’Elia o attraverso la foresta? Qui facciamo più presto, ma ci sono i valentuomini. Per me sono tranquillo come un bambino nella culla, ma per te.... cugina!
— Assalire me e assalire un pellegrino è la stessa cosa! Lo sai che son povera.
— Alla forca le bugie! — egli disse, con la sua allegria goffa. — Cambiamo posto? Tu sotto la tettoia, io nella tua camera con le chiavi in mano.
Ella scuoteva la testa, ma stringeva le labbra con un vezzo speciale alle paesane sarde denarose.
— Ci vorrebbero quei valentuomini, per farti dire la verità, cugina Annì! Essi, nelle grassazioni, usano far sedere nude sul trepiede infocato le persone che non si decidono a tirar fuori i denari.
— M’han messo i dottori, sul trepiede ardente, Juannì, cugino mio! Sì, con questo male ai denti, dopo il male delle orecchie e quel dolore all’anca. Sono stata nella città, a curarmi, e le medicine non m’han fatto niente e i dottori m’hanno mandato un conto spaventoso come quello degli avvocati. Basta, non voglio neanche pensarci. Del resto tu lo sai, io non sono mai stata attaccata alle cose del mondo. Le mie piccole rendite vanno tutte al re, per i tributi. Neanche una messa si può dare, più, neanche un’elemosina, tanto il fisco ci succhia il sangue. Ci fosse almeno la salute, Juannì! Neanche questa c’è; nulla più c’è, Juannì; la vita si vuota a poco a poco come un sacco bucato.
— Peggio per te che non ti sei maritata. Non ti han voluto, tu dici? Alla forca le bugie! Sei tu che lo volevi dritto infilato in una verga d’oro, il marito!
— Non è vero, — ella disse con la sua voce monotona e velata. — Io non ho mai badato alle cose del mondo. Basta; passiamo davanti a Sant’Elia.
— Intanto ha paura del trepiede, — pensò l’uomo. — Non è attaccata alle cose del mondo, lei! E quante volte le ho chiesto inutilmente un prestito! Anche quando mia moglie moriva, povera lucertola, lei, cugina mia, mi ha negato tre scudi che mi servivano per il dottore venuto da Nuoro. Sborsa adesso! Sul trepiede! Scòttati!
Ed ella intanto lo guardava alle spalle e un fugace rossore le coloriva la parte scoperta del viso. Eccolo lì! Che stupido, che semplice, che santo di legno! Anche a dirgli in buon sardo che ella era stanca di viver sola e che lo avrebbe sposato volentieri egli non avrebbe capito. Ma a lei piaceva appunto così, semplice e disinteressato, diverso da tutti gli altri parenti che la circondavano come gatti affamati leccandola e graffiandola di continuo. Sempre così fin da quando era piccola e lo zio prete aveva fatto testamento in favor suo: e s’ella si difendeva le cantavano intorno a coro l’antica canzonetta:
S’arannedda belenosa, |
Smontarono davanti alla chiesetta di Sant’Elia, nella radura erbosa circondata da una muriccia a secco coperta di musco. E mentre l’uomo, dopo aver abbeverato i cavalli ad una sorgente poco lontana, faceva colazione e parlava e rideva da solo, la donna pregava fissando gli occhi sulla chiesetta bassa e nera al di là della quale, sul cielo d’un azzurro di smalto s’incurvavano come cupole verdi le prime quercie della foresta.
— Sant’Elia d’oro, pregate il Signore di perdonarmi se vado là. So che c’è la scomunica, ma la mia intenzione è innocente: è quella di guarire per vivere senza peccato.... Con questi malanni non posso neanche più pregare nè andare in chiesa.
Ma a misura che s’avvicinavano al villaggio il suo male diventava così feroce che le dava il capogiro: appena smontò, in cima alla collina nuda e rocciosa su cui il sole batteva come in piena estate, andò barcollando al portone d’una sua comare vedova, e per oltre un’ora stette immobile buttata su una stuoia, mentre la sua amica le si aggirava attorno desolata curvandosi ogni tanto per offrirle invano un vassoio di amaretti e di pirighittos. Passata la crisi si sollevò pallida come una martire.
— Lo vedete, comare mia, questa è la mia vita! Io credo di aver un cancro dentro la testa o che mi abbiano fatto qualche malia. Quanto denaro ai medici, quante offerte ai santi! La disperazione fa anche pensare al demonio ed io son venuta a consultare la vostra maga. C’è la scomunica, lo so, ma io non posso più tirare avanti.
Appena notte (il servo era andato a pascolare i cavalli) andarono in casa della maga. E che casa! Sembrava quella di un nobile, col portone nuovo, le inferriate alle finestre, il cortile selciato. Attraversando questo le due amiche incontrarono due uomini alti, col cappuccio calato, armati come guerrieri; e mentre essi passavano senza salutare, la vedova urtò col braccio la sua ospite, facendola trasalire.
— Son due banditi.
— Perchè questa visita della straniera al nostro paese? La festa di Sant’Elia è in giugno, — disse la maga, bella, pallida con le treccie intorno alle orecchie e una collana di predas de ogu, coralli efficaci contro il malocchio, intorno al collo nudo, accogliendo le due donne come se fossero in visita e offrendo loro il nasco e gli amaretti.
— Ah, — sospirò la straniera, seguendo il cerimoniale insegnatole dalla comare, — sono venuta per divagarmi, perchè da qualche tempo in qua ho tanti malanni.
— Che cos’avete, sorella mia? — domandò la maga, in piedi davanti alla tavola ma curvandosi e appoggiandovi il gomito; e mentre l’altra enumerava i suoi malanni, ella come per distrazione toccava e metteva in fila, l’una sull’altra un mazzo di carte.
— Che idee! — disse alfine come scherzando. — Siete zitella, vero? prendete marito e fate un bel figlio.
L’altra arrossì e pensò al cugino che stava a pascolare i cavalli: ma subito protestò:
— Son vecchia! Ho un cancro dentro la testa e m’han fatto qualche malia!
Allora la maga si sollevò e si accomodò la collana, sorridendo: i suoi denti scintillavano, ma ella non parlava e per qualche momento nella cameretta bianca ove le tre figure nere parevan sorger dalle loro ombre, regnò un silenzio grave, misterioso. Finalmente la maga disse:
— Mia nonna aveva un rimedio curioso per le malie. Se volete ve lo dò, tanto a me non serve, che grazie a Dio non credo a queste cose. Ecco, aspettate, lo prendo dall’armadio: ecco, vedete, è una statuetta di legno di fico e plasmata d’olio santo (in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo). Voi avvolgetela in una fronda di rovo e seppellitela sotto il limitare della vostra porta: a misura che il rovo si marcirà voi guarirete. Badate però di non sotterrarla sotto la porta del vostro nemico perchè allora la sua forza sarebbe contraria, cioè produrrebbe male al vostro nemico.
La donna esitava a prender la statuetta piccola e nera come una tarantola: pensava alla scomunica.
— Prendetela! Oggi ne abbiamo quindici: quindici maggio del 1870: al quindici agosto sarete guarita! Prendetela!
La donna prese la statuetta e l’avvolse nel suo fazzoletto. E mentre la maga, nel riaccompagnare le visitatrici alla porta precedeva con la vedova, ella fece scivolare alcune monete sul tavolo, accanto, al mazzo delle carte.
✱
Al ritorno i due cugini si fermarono di nuovo davanti alla chiesa di Sant’Elia. Il tempo era mutato e grandi nuvole bianche e nere si posavano sulle cupole verdi delle quercie. La donna soffriva sempre; soffriva più che mai, con quell’oggetto abbominevole in tasca; e quando l’uomo andò ad abbeverare i cavalli ella trasse furtivamente il fazzoletto e mise quella cosa sulla sua mano aperta. E quella cosa era così potente da far bene e da far male? Per quale forza arcana? E i libri sacri non sono altrettanto terribili? Eppure appartengono a Dio. Ah, ecco, ella indovinava: la potenza delle magie è la stessa pótenza di Dio, rapitagli dal demonio Lucifero e da lui trasmessa agli uomini. Un turbamento profondo di coscienza la tormentava.
— Qualche cosa mi succederà; — pensò, rimettendosi in saccoccia l’involtino, e sollevando gli occhi vide il suo compagno ritornare disarmato, senza i cavalli, con tre uomini alti, neri, incappucciati, armati come guerrieri. In due di essi essa credette di riconoscere i banditi incontrati nel cortile della maga, e le parve che uno spiedo freddo le si conficcasse dal cranio alle viscere.
Fu solo il cugino ad avanzarsi fino a lei, mentre quei tre rimanevano a qualche distanza, scuri e fatali come le nuvole sopra le loro teste.
— Il trepiede! — disse l’uomo con ironia macabra, ammiccando. — Essi han bisogno di denari e mandano me a prenderli. Dove li hai? Dammi un segno perchè la tua serva me li consegni. Tu starai con loro in ostaggio: io volerò come l’astore.
Ella gli diede il suo rosario con tre medaglie, una delle quali, antichissima, preservava i cavalli dalle cadute.
Uno dei tre riaccompagnò il servo fino alla sorgente, dove rimase in vedetta; gli altri due bendarono la donna con un fazzoletto nero e la presero per mano.
— Non abbiate paura, donna! Se egli è svelto, stasera sarete libera.
Ella camminava e inciampava, cieca, gelida; le pareva di sognare e di volersi svegliare e di non poter aprire gli occhi: finalmente la fecero sedere su una pelle di montone, in un luogo freddo, e le lagrime caddero dalla sua benda nera come pioggia dalle nuvole.
Quante ore passarono? Ella credette di star lì sette anni: la pelle diventò calda quasi fosse ancora sul montone vivo, e gli uomini s’addormentarono. Ma ella non pensava di fuggire, nè sperava di esser liberata senza il versamento della taglia: solo aveva fiducia nella furberia di Vissenta che non avrebbe consegnato tutti i denari.
Quando le parve che fosse abbastanza scuro da non esser veduta dagli uomini, allungò la mano, e palpò il terreno, e trovandolo molle scavò una buca con le unghie, silenziosa come il gatto. Lasciò passare qualche minuto: trasse quella cosa maledetta e la cacciò nella buca, ricoprendola con la terra e calcandovi su la palma della mano. Le parve di aver vomitato un mucchio di serpi; un senso inesprimibile di sollievo l’alleggerì, e persino il mal di bocca le cessò. Progetti dolci e giovanili le passarono in mente. Nello sfondo nero vedeva il viso di Cristo di suo cugino Juan niccu e gli sorrideva come una fidanzata. Compagni in quell’ora di sventura, sarebbero d’ora in avanti compagni anche nelle ore di gioia: egli avrebbe finito col capire che dalla tettoia dei servi doveva passare alla camera del padrone!
Ella cominciava persino a sonnecchiare quando l’uomo lasciato in vedetta tornò.
— Il servo ha tardato perchè, dice, non volevano consegnargli i denari. Eccoli: sono mille e cinquecento scudi.
La donna palpitava. Dio sia lodato; la serva fedele le aveva salvato duemila lire delle novemila cinquecento nascoste entro il muro.
Fu ricondotta alla sorgente, ove il compagno aspettava, e ripresero il viaggio nella notte scura e tempestosa: i fulmini passavano come uccelli di fuoco rasente alla loro testa, illuminando a tratti l’altipiano che per l’ondulare dell’erba al vento sembrava un mare agitato; ma la donna si sentiva molto più lieta che nel bel mattino precedente; non aveva più dolori nè all’anima nè al corpo e proseguiva a far progetti per l’avvenire come una fanciulla al ritorno dalla festa.
— Ah, Juannì, cugino, l’abbiamo scampata bella! Come potrò compensarti per l’aiuto che mi hai dato? Ti compenserà il Signore! Parla, sei muto?
Egli taceva, cupo come la notte; ma a un tratto disse:
— Te l’avevo detto! Il trepiede! Ah, io non ti accompagnerò più, d’ora in avanti. Va in ora buona!
— Ah, cugino Juannì, tua cugina Anna Farre non si muoverà più di casa sua, se arriva a tornarci! Mi basta questa sorpresa.
Ma un’altra l’attendeva, a casa sua, quando Vissenta le disse di aver consegnato a Juanniccu l’involto del denaro come l’avevano trovato nel nascondiglio.
— Egli ha insistito per averlo tutto.
Ma Juanniccu, messo a confronto con la serva, cominciò a battersi il petto coi pugni, scaraventò per terra la berretta e la calpestò, roteando gli occhi diventati feroci.
— A chi, a me raccontate queste cose? Come tu me lo hai consegnato, l’involto, così io l’ho dato al cinghiale. A me, a me raccontate queste cose; dopo quello che ho rischiato? A loro, ai cinghiali, andate a raccontarle!
Come schiarire il mistero? Chi, poichè di Vissenta non c’era da dubitare neppure lontanamente, chi, Juanniccu o il bandito, si era tenuto le duemila lire?
La vecchia zitella non parlò più con nessuno di quest’incidente, neppure col suo confessore al quale raccontò solo di aver ricorso alla maga.
Neppure con la serva fedele si sfogava, ma dentro l’anima sentiva un freddo e un buio come dentro il nascondiglio dei banditi. Seduta sul ballatoio filava e filava, come affrettandosi per ritessere la trama dei sogni e dei risparmi perduti, e non provava più mal di denti o altro malessere, ma dentro sentiva quel freddo e quel buio crescere, come se la vita davvero le si vuotasse intorno come un sacco bucato.
Ma ciò che era più terribile, dopo i primi tempi, era la diffidenza che sentiva per tutti. Sì, anche di Vissenta diffidava, adesso, e il demonio le suggeriva tanti brutti pensieri. Ma taceva: anzi aveva paura di lasciar trapelare il suo tormento per non offendere e far scappare la vecchia serva di cui aveva assoluto bisogno.
In settembre licenziò il cugino Juanniccu.
L’annata era stata pessima, ed ella, senza denaro, senza grano e senza fave in casa, senz’uva nella vigna e senz’allegria in cuore, pensava continuamente alla statuetta seppellita lassù nella foresta di Sant’Elia e aspettava l’autunno con la speranza che l’umido facesse marcire l’oggetto abbominevole, e così cessassero gli effetti della scomunica.
Infatti verso la fine dell’anno si sentì un po’ sollevata moralmente e anche forte di salute: tra una cosa e l’altra aveva rimesso a parte una colonnina di monete e con l’aiuto di Dio e col passar degli anni sperava che la colonnina s’alzasse tanto da precipitare e ridiventar mucchio.
Bastava non andar in giro per il mondo e non aver fiducia negli uomini. Sorrideva, pensando alle idee che le eran passate per la mente; e una sera d’inverno, accanto al focolare, raccontò tutte le sue cose a zia Vissenta.
La vecchia filava e il suo fuso faceva le fiche contro la tentazione. Ella parlava franco alla sua padrona.
— Sai cosa devo dirti? Anna Fà? La scomunica? Ce l’han tutte, le donne, quando cominciano a invecchiare....
- ↑ La piccola rana velenosa, — che abbiamo nel vicinato! — Il confessore le ha detto: — di assolver non è cosa!