Chiaroscuro/Al servizio del Re
Questo testo è completo. |
◄ | Le scarpe | La scomunica | ► |
AL SERVIZIO DEL RE.1
Nella camerata bassa e grigia i detenuti cominciavano ad annoiarsi. Erano una decina tra vecchi e giovani, appartenenti alle più distinte famiglie di Nuoro. Arrestati nella stessa notte assieme con altri proprietari, pastori e contadini, accusati tutti di favoreggiare gli ultimi banditi nuoresi che giusto in quel tempo vennero massacrati e dispersi, i dieci uomini s’erano nei primi giorni divertiti, avevano riso e scherzato, aspettando di momento in momento l’ordine di «rilascio». Solo due vecchi ancora poderosi, noti, uno per le sue ricchezze e la sua fierezza, l’altro per le sue prepotenze, avevano continuamente protestato e imprecato. Gli altri li prendevano in giro. Dicevano al ricco:
— Ziu Serbadò, andiamo alla bettola; facciamo un po’ di scialo, oggi: tirate fuori il vostro portafogli ben gonfio....
Il vecchio, al quale sopratutto dispiaceva la perquisizione personale subìta dopo l’arresto, guardava i compagni con due occhi feroci iniettati di sangue, e palpandosi il petto gonfio e le gambe nerborute mormorava parole sprezzanti.
L’altro, un vecchio alto, magro, col viso color di rame circondato dalla barba nera e giallastra, e i denti ancora così belli che sembravano falsi, neppure si degnava di rispondere agli scherzi dei compagni.
— Figuriamoci che piova, — propose un giovinetto, — stiamo qui e giochiamo a carte.
Ma i giorni e le notti passavano, e i detenuti cominciavano a inquietarsi e a stancarsi. Alcuni erano innocenti, altri avevano sofferto persecuzioni e angherie da parte dei banditi, altri li avevano protetti per paura. Si confortavano pensando che centinaia d’uomini erano «dentro» sotto la stessa accusa, ma oramai lo scherzo durava un po’ troppo.
— Che farà mia moglie, povera donna: hanno arrestato suo padre, i suoi fratelli; hanno arrestato me, il servo, tutti. Ella è rimasta sola in casa, sola come una fiera....
— Io avevo tre vacche malate; a quest’ora saranno morte. Sono rovinato....
— Mia madre piangeva disperatamente, — diceva il giovinetto, ricordando l’ora tenebrosa.
— Piangerà e poi cesserà di piangere, — disse con disprezzo zio Salvatore, il ricco.
E quando gli altri si lamentavano perchè i loro interessi andavano male, egli raschiava e sputava e diceva insolenze: «mendicanti» «morti di fame» «immondezze» erano i nomi più dolci che dava ai compagni.
Un bel giorno, dopo essersi raccontati tutti i loro guai, dopo essersi vantati di cose non vere, dopo aver ricorso a tutti i mezzi per non annoiarsi, i detenuti cominciarono a litigare: erano uomini sani e forti, abituati all’immensità delle tancas, alle ombre del bosco e alla luce accecante delle pianure coperte di stoppia: non potevano adattarsi alla penombra grigia e sonnolenta della camerata lunga e bassa come un andito, puzzolente, calda, coi muri pieni d’insetti e di scritture strane. Specialmente verso sera, quando dalle inferriate pioveva il bagliore roseo del crepuscolo estivo, essi s’agitavano e imprecavano. Un giorno però uno di loro fu chiamato nell’ufficio del Direttore. La speranza illuminò la loro anima come il chiarore del crepuscolo illuminava il carcere.
— Per un colloquio non può essere stato chiamato, — disse il vecchio prepotente, che era già stato altre volte al «servizio del re». — Non possiamo ottenere colloqui, finchè non è esaurita l’istruttoria.
Che sarà, che non sarà? Finalmente il detenuto rientrò. Rideva, ma appariva anche un po’ mortificato e sorpreso.
— Ci son là due signori, — raccontò, — uno dei quali, un omuncolo rosso e brutto come la volpe, scrive, e l’altro, lungo e tanto magro che sembra un affamato, m’ha rivolto cento domande, m’ha spogliato, mi ha misurato la fronte, le guancie, il naso....
— Che cosa ti ha domandato?
— Se mio padre e mia madre erano sani, se da ragazzo lavoravo, se....
Zio Salvatore s’alzò livido d’ira.
— E tu, — gridò, puntandogli un dito sul petto, — tu ti sei lasciato metter le mani addosso? Tu ti sei lasciato misurare il naso? Che uomo sei tu? Non so chi mi tiene dal prenderti a calci e mandarti fuori di qui!
— Magari! Provate, ziu Serbadò!
L’altro vecchio non pronunziò parola; ma le sue narici fremevano, e le sue mani piccole e nere, coi pollici cacciati dentro la cintura, s’agitavano e si contorcevano come artigli.
Uno per volta i detenuti furono misurati, esaminati e fotografati: ma quando venne chiamato il vecchio ricco egli s’alzò fiero, imponente, s’tringendosi con la mano sinistra la lunga barba. Squadrò con disprezzo la guardia carceraria, poi le puntò un dito sul petto.
— Io? Io lasciarmi metter le mani addosso? Le metto piuttosto addosso a te, io le mani...
La guardia indietreggiava.
— Ohè, ohè, che fate?
— Faccio quello che mi pare e piace! Hai capito, morto di fame! Anima venduta, va via di qui, subito! Io sono abituato a comandare, capisci, e nessuno, neppure il diavolo, si permetterà mai di mettermi le mani addosso.
La guardia uscì, ritornò, chiamò l’altro vecchio.
Ma anche questo non si mosse. Non s’alzò neppure. Sollevò appena gli occhi neri, ancora lucenti, aprì alquanto la bocca, come i cani quando accennano a mordere, e fece un gesto con la mano, invitando la guardia ad allontanarsi.
Non fu possibile convincere i due fierissimi uomini a lasciarsi fotografare e misurare. Rimaneva un altro detenuto, un giovane vedovo allegro e beffardo. Sulle prime anche lui per non apparire da meno dei vecchi, rifiutò di seguire la guardia; poi rise, con una risata strana che pareva il canto di un gallo, e andò. Al ritorno disse:
— Quante favole ho raccontato a quel morto di fame che ci misurò il naso! Gli dissi che mio padre e mia madre soffrivano di mal caduco e che mio nonno era pazzo. Egli rideva contento come se gli avessi regalato due vacche!
Passarono altri ed altri giorni. Il caldo era soffocante; il vento ardente che penetrava dalle inferriate portava un odore di stoppie e di macchie bruciate che dava un senso di nostalgia a quegli uomini dei campi e delle foreste, avvezzi a combattere, durante l’estate, contro gli incendi così frequenti nelle loro campagne. Sopra tutto zio Salvatore sembrava inquieto.
— Deve esserci un incendio nella Serra. — diceva, fiutando l’aria, — e i miei boschi di soveri bruciano, vi possano bruciar l’anima! E imprecava minacciando l’inferriata.
Quando i detenuti furono lasciati in pace dal fotografo e dall’«affamato» ricominciarono ad annoiarsi: per fortuna fu introdotto nella camerata un nuovo detenuto, un prete giovane e svelto, anche lui accusato di favoreggiare i banditi, e le notizie e le storie che egli cominciò a raccontare sollevarono l’animo dei prigionieri.
Eppure queste notizie erano orribili, ma avevano qualche cosa di fantastico, erano quasi epiche come notizie di guerra. In tutto il circondario di Nuoro era stato proclamato lo stato d’assedio: la città, le campagne, i villaggi erano pieni di soldati, e il terrore regnava nelle famiglie. I banditi, cacciati dalle montagne e dai boschi di Nuoro, s’erano tutti riuniti e rifugiati nella foresta di Morgogliai, in un sito quasi inaccessibile, tra fortezze naturali di roccie e di macchie. La «forza» li circondava, con un vero assedio.
— Una notte, un mese fa, mi chiamarono presso una donna morente che voleva confessarsi, — raccontò il prete. — Andai. Giaceva sul letto una donna col capo avvolto in un fazzolettone bianco, e solo dopo qualche istante mi accorsi che era un uomo.... Era un bandito ferito. Per questo fatto ora eccomi qui.... in buona compagnia....
— Sicuro, in buona compagnia! — urlò zio Salvatore. E il prete non si lamentò più.
Due giorni dopo furono introdotti due giovani possidenti d’Orotelli, due amici intimi, uno dei quali s’avanzò verso gli altri detenuti dicendo:
— Scusate, fratelli cari, se vi disturbiamo. L’albergo è pieno, e bisogna restringersi un poco per far posto a tutti. Anche l’altro volle scherzare:
— Ma cosa fate qui, tutti all’ombra? Andiamo fuori, andiamo un po’ in giro per la città di Nuoro. Su, andiamo!
— Ancu non ch’essas prus,2 — imprecò zio Salvatore. — Meno male che ti beffi anche di chi non ti cerca, Orotollese!
— Lasciamo gli scherzi. Che nuove? — domandò ansiosamente il prete.
— Nuove di festa: hanno fattu petta!3 — disse il giovane beffardo, e raccontò l’assalto di Morgogliai, finito con l’eccidio dei banditi.
— Uno solo è fuggito. Ha avuto salva la vita perchè ha tradito i compagni: ha fatto la spia e morrà come Giuda.
I detenuti si rallegravano per queste notizie, sperando di ottener finalmente il rilascio; ma una scena singolare li turbò. Il vecchio prepotente, che in tutto quel tempo era rimasto rigido e solenne come un re in esilio, singhiozzava come un bambino.
— Che avviene? — gli domandò il vedovo burlone, battendogli una mano sulle spalle, appunto come si fa coi bambini che hanno inghiottito un boccone troppo grosso.
Il vecchio piangeva di rabbia e di vergogna, non per la morte dei banditi, ma per la viltà del loro compagno delatore.
E altri giorni passarono. Oramai i detenuti aspettavano di momento in momento la liberazione ed erano ridiventati allegri come nei primi giorni. Il prete, bravo poeta estemporaneo, recitava le sue canzoni, i due possidenti d’Orotelli parlavano sempre delle loro fidanzate, lodandone la bellezza, la ricchezza, l’onestà, senza dirne il nome. Un giorno il vedovo burlone osservò: «Queste due vostre ragazze misteriose si rassomigliavano tanto che mi dànno l’idea siano una sola!»
— A ti paret? Che sia vero?
I due giovani innamorati si guardarono ridendo, ammisero l’ipotesi del vedovo e giocarono alla morra per stabilire chi di loro doveva sposare la ragazza.
✱
La loro attesa e le loro speranze furono deluse. Vennero tutti processati e rinviati a dibattimento. Questa notizia li rese cattivi: zio Salvatore diventò furibondo e si diede a battere pugni contro il muro ed a minacciare le secchie, le panche, i lettucci ripiegati.
Pochi giorni prima che venissero trasferiti alle carceri giudiziarie di Sassari (quelle di Nuoro erano zeppe,) un nuovo prigioniero fu introdotto nella loro camerata. Essi veramente non aspettavano più nessuno e guardarono con una certa curiosità diffidente il nuovo arrivato Nessuno gli andò incontro. Non era uno di loro, della loro condizione, della loro razza. Era un borghese, anzi un nobile, uno di quei nobili dei villaggi, vestiti anche d’estate di grosso panno e col cappello duro e senza cravatta. Era un bell’uomo alto, col petto sporgente, il viso roseo, i capelli e i grossi baffi bianchissimi.
Appena la guardia lo ebbe introdotto egli volse in giro i grandi occhi rotondi pieni d’inquietudine e di sdegno, poi si volse verso l’uscio come aspettando che qualcuno glielo riaprisse.
— Si rassomiglia al re, — disse il vedovo burlone. — Mi pare di riconoscerlo.
— Se è il re, eccoci ai suoi ordini. Siamo al suo servizio!
— Quello lì è un nobile, un cavaliere, don Predu Deispana, — disse sottovoce uno dei giovani Orotellesi. — È un uomo ricco.
Allora il vedovo si alzò e andò verso il «cavaliere».
— Bonas dies, perchè non s’avanza, don Predu? Venga, venga avanti, come sia in casa sua.
Il disgraziato si volse, guardò con degnazione il detenuto, rispose con disprezzo:
— Spero di non avanzarmi affatto, e tanto meno di trattenermi....
Zio Salvatore tendeva l’orecchio: si credette offeso, s’alzò, aprì la bocca: ma poi scosse la testa e sedette di nuovo.
— Ma dal momento che c’è, qui, — insistè il vedovo, con esagerata cortesia, — favorisca, favorisca, si accomodi....
E indicava la panca sucida in fondo alla camerata. I detenuti scoppiavano dal ridere; ma don Predu non s’accorgeva di nulla, non sentiva che il desiderio spasmodico di veder la porta fatale riaprirsi....
— Lei ha torto; deve accomodarsi. Perchè l’hanno fatto venir qui, don Prè? È lecito saperlo?
Finalmente il Deispana si convinse che parlava con un suo simile e si degnò di rispondere:
— Sono qui calunniato come Cristo. Ma spero di non star molto qui dentro; aspetto di momento in momento l’avvocato, che deve venire a prendermi. È inutile, non vengo avanti....
Ma gli altri partirono ed egli rimase lì.