La moglie

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Libeccio I tre fratelli
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LA MOGLIE.

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Un carro sardo tirato da due piccoli buoi biancastri attraversava lentamente la pianura.

Ricordo come fosse ieri; noi andavamo a piedi ad una vigna e raggiungemmo il carro, tanto questo andava con lentezza pesante. Lo guidava un uomo alto, vestito d’un costume rosso, con una larga barba grigia-rossastra dalle punte attortigliate. Sul carro sedeva sopra un sacco di lana a righe nere e gialle una donna non più giovane: gli occhi, però, castanei limpidi in un viso maschio marmoreo avevano una luce ardente di passione e di giovinezza. Vestiva il costume di Mamojada, col corsettino di broccato a due punte che dà l’idea d’un calice di rosa spaccato: teneva le mani sotto il grembiale.

Era d’autunno inoltrato; gli alberi conservavano ancora tutte le foglie che sembravano di rame, e i vigneti vendemmiati stendevano quadrati rugginosi sul fondo verdognolo del piano; e su tutte le cose il cielo latteo versava un silenzio ed una luce quasi lunare.

La serva che era con noi, dopo aver fissato [p. 282 modifica] con curiosità la donna dal viso marmoreo, le rivolse la parola.

— Di dove vieni? Sei ammalata?

Un sorriso di gioia infantile animò il viso della donna.

— Malata sono stata: ora sto bene: vengo dalla reclusione.

— Perchè mi rispondi così? — disse risentita la serva.

— Tu credi sia una mala risposta? Eppure è la verità.

La serva cominciò a strillare.

— Perchè gridi, sciocca? — disse la donna. — Al mio posto avresti fatto lo stesso.

— Chi lo sa?

— Lo so io: perchè sono donna, e donna sei tu pure.

— E che cosa hai fatto?

La donna agitò le mani sotto il grembiale, rise, guardò in alto, come seguendo con gli occhi il volo dei corvi sul fondo argenteo del cielo.

— Ho ammazzato una donna, — disse tranquillamente; e siccome la serva continuava a strillare, corrugò le sopracciglia e il suo volto si rifece duro.

— Ma sei matta? Perchè gridi, figlia del diavolo? Tu mi ricordi quel gatto; sì, quel gatto aveva gli occhi come tu li hai adesso: verdi come la foglia delle canne. Guardala, Simone.

L’uomo procedeva taciturno, indifferente; guardava lontano, davanti a sè, alto e maestoso nel suo costume rosso e nero. [p. 283 modifica]

— Tu dunque hai ammazzato una donna? Perchè l’hai ammazzata, si potrebbe sapere?

— E perchè non si potrebbe sapere? Perchè mi dava fastidio; era l’amica di mio marito.

— Oh!

— Ecco, io avevo quindici anni, anzi ne avevo quasi sedici. Non pungere i buoi, Simone, aspetta, piano, che sentano bene, tutti questi signori. Volete sedervi sul carro? E pulito. Io avevo dunque quindici anni e più: lei ne aveva quasi trenta, lui venti. Sfido io se lo stregava. Era rossa come una melagrana. Egli tornava tardi, la notte, a casa, ed io avevo freddo. Lo aspettavo, lo aspettavo: le ore passavano lente come giorni di lutto. Allora io pensavo di ammazzarla. E pensavo: mi daranno venti anni di pena; tornerò a trentasei anni, ed egli ne avrà quaranta. Allora ella non sarà più fra noi, ed egli mi vorrà bene. Io pensavo così. ma non so ancora se avrei avuto il coraggio d’ammazzarla, se essa non fosse venuta quasi ogni giorno a provocarmi. Sì, essa veniva a provocarmi: ora veniva con la scusa di chiedermi un po’ di lievito o un po’ di fuoco, perchè stavamo vicine, ora con la scusa di cercare il suo gattino che veniva sempre nel mio cortile. Un gattino giallo, con gli occhi verdi, lo ricordo sempre.

— Aveva marito?

— No, non aveva marito. Era una mala donna, possibile che tu non abbi capito? Quando la vedevo mi si annebbiavano gli occhi e tremavo tutta; non vedevo altro che lei, in [p. 284 modifica] una nebbia di fuoco. Senti, un giorno venne con la solita scusa di cercare il gattino. Il gattino stava sdraiato nel cortile; anche mio marito stava al sole, nel cortile. Era una domenica dopo pranzo. Essa entrò e disse: «Ah, vengo a prendere il gatto; sei sempre qui, piccola tigre?» Vedendola, il gattino balzò, incurvò la schiena e le si sfregò contro la sottana; anche mio marito s’alzò e fece quasi lo stesso. Io stavo dentro in cucina, e mi parve che ella avesse detto per me «piccola tigre». Presi il fucile carico che stava appoggiato al muro, uscii di corsa nel cortile e sparai. La donna cadde morta, mio marito urlò come un cane. Io vedevo sempre quella nebbia di fuoco, in mezzo alla quale c’era lei distesa morta, con la faccia per terra. Il gatto, invece di fuggire, continuava a strofinarsi contro la donna uccisa; le andava in giro, e mi guardava con gli occhi verdi spalancati. Mi prese una rabbia contro quella bestiuola! Sparai anche contro il gatto, e la gente che accorreva dalla strada mi vide. E tutti cominciarono a urlare come cani rabbiosi, come volpi affamate. Venne anche un soldato; girò attorno a me, dapprima un po’ alla larga, poi sempre più vicino, più vicino, come la volpe che gira attorno all’uva. Poi mi mise le mani addosso. Come, le mani addosso a me? Perchè? Chè forse io non so che devo andare dal pretore e poi in carcere? Che bisogno c’era di mettermi le mani addosso? Lo graffiai e corsi io stessa dal pretore; la gente mi [p. 285 modifica] veniva dietro, i fanciulli lanciavano pietre. Io avevo paura che mi condannassero a trent’anni. Tornerò vecchia, pensavo, ed anche lui, mio marito sarà vecchio. A che servirà allora? Mi dispiaceva di aver ammazzato il gattino, sì, mi dispiaceva davvero. Tu ridi? Ti giuro, che io non possa arrivare a casa mia, che mi dispiaceva. Che colpa aveva quell’animale innocente? Da vent’anni a questa parte, ti giuro, ogni tre notti vedo in sogno quella povera bestiuola. Sì, — proseguì dopo una breve pausa, — nel dibattimento tirarono fuori anche la storia del gatto, ed il pubblico ministero disse che io ero crudele. Crudele! Mi fanno ridere questi uomini della giustizia! Io dissi: «Provatevi voi, monsignori, provatevi voi ad esser traditi e provocati, e vediamo che cosa fate! Ah, voi parlate lì, dal banco, seduti, calmi; ma voi non sapete cosa sia la rabbia, l’ira, la gelosia, il dolore. Sì, anche quel gatto mi ha fatto rabbia; ora mi pento di averlo ammazzato; ma in quei momenti non si vede più nulla. E il soldato, poi, perchè veniva a mettermi le mani addosso? Non sapevo io il mio dovere? Era il re, e doveva arrestarmi, sì, ma io sapevo il mio dovere e sapevo che Dio doveva assistermi. E così mi presi venti anni di reclusione. Adesso ritorno. Ho passato il mare, ho veduto tante cose. Mi misero in libertà a Nuoro, e mio marito venne col carro per ricondurmi al paese. Dopo tutto io sono sempre sua moglie: e la moglie è legata al marito, alle viscere del marito, come il [p. 286 modifica] bambino prima di nascere è legato alla madre. Non è vero, Simone?»

Ma l’uomo andava, andava, taciturno e prudente, e la serva sventata disse:

— Mi pare che il condannato sia lui!