Chiaroscuro/I tre fratelli
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I TRE FRATELLI.
Quasi tutti i giorni zia Carula andava dalla sua amica Pauledda con l’idea fissa di convincerla a prender marito. Le due donne avevano la stessa età, più verso i quaranta che verso i trenta, ma mentre Pauledda rimaneva Pauledda, col semplice suo nome, e tutti ancora, compresi i bambini, le davano del tu, l’altra sposatasi tanti anni prima a un vedovo con tre figli già grandi era diventata zia Carula, cioè una donna anziana rispettabile.
Come tale la si vedeva spesso vestita a nuovo, con la benda candida inamidata, il corsetto di broccato, la cintura d’argento, camminare composta, rasente al muro, mandata da qualche giovane di buona famiglia a domandar la mano di sposa di qualche ragazza di non meno buona famiglia.
Per lo più i matrimoni combinati da lei riuscivan bene; ella convinceva anche le ragazze più ambiziose ad accettar il partito proposto da lei, fosse pure un partito scadente: rifiutando la sua domanda le facevano quasi un’offesa personale, e tornava quindi all’assalto fino a riuscire, contentando così il pretendente e salvando il suo amor proprio.
Per Pauledda aveva parecchie domande, ma non osava presentarle, certa del rifiuto. Ogni giorno però nei loro innocenti colloqui l’argomento era sempre quello.
— Che vuoi, Carula mia, — diceva Pauledda, seduta a cucire sotto il pergolato che copriva tutto il cortile, — non tutte le donne sono nate per avere lo stesso destino. Io, per esempio, dopo aver passata tutta la fanciullezza a faticare ed a pensare agli altri, ricordati che famiglia numerosa era la nostra, adesso sono abituata a viver sola, e non posso sopportare la compagnia di nessuno. Sono tranquilla in casa mia, seduta come una signora sulla scranna, e mi pare di essere arrivata al porto dopo una tempesta. Ah, perchè devo di nuovo rimettermi in alto mare?
Zia Carula, piccola e tutta scintillante nell’ombra ricamata di sole del pergolato, versava il suo caffè nel piattino e soffiandovi su approvava.
— Sei una signora, sì; stai bene, sì, sulla tua scranna. Ma il marito è sempre il marito....
— Ne conosco io, di mariti, il lampo li morsichi!..
— Sì, ce ne sono, di libertini e scapestrati, ma per te ce ne sarebbe uno.... che.... lasciami finire, eh, non mi esce la peste di bocca.... poi....
Ma Pauledda faceva tali gesti di protesta, col capo fine e bruno carico di trecce dure e strette come corde, che l’altra non osava proseguire.
— Tu mi conosci, Carula, è inutile. Ricordati: eravamo dieci, in famiglia; sette fratelli come sette giganti, e tre sorelle come tre stelle. Avevamo un discreto patrimonio, ma i giovani benestanti dicevano con disprezzo: quando sarà diviso in dieci toccherà un canestro di farro a ciascuno! Così non mi volevano, perchè ero quasi povera. Ed io passavo la vita a lavorare, e pensavo cose di piccola creatura, pensavo: se i miei compaesani non mi vogliono verrà forse uno straniero, verrà un ospite bello e ricco che si innamorerà di me. Ma venivano gli stranieri, venivano gli ospiti, mi toccava di faticare per loro ed essi non mi guardavano neppure. Poi pensavo, — adesso che gli uccelli della fantasia son volati via, te lo posso dire, — pensavo: forse qualche notte un giovane perseguitato dal suo nemico, o dalla giustizia, si rifugierà da noi, ed io avrò cura di lui e quando tutto andrà bene ci sposeremo. Com’era semplice, vero? Così passò il tempo, tu lo sai, come il vento passa nell’aria. Morì mio padre, morirono le mie sorelle; venne l’anno del vaiuolo e la morte si portò via i miei fratelli come l’avvoltoio affamato si porta via gli agnelli dall’ovile; io rimasi sola come il filo d’erba sul ciglione, esposta a tutti i venti, ma.... il patrimonio non fu diviso! Allora i partiti fioccarono; tu lo sai, Carulè, non tu sola ti cingesti la benda per venire qui a far la paraninfa.... Ma ti dico e ti ripeto: gli uomini adesso mi fan dispetto, e quasi non serbo rancore alla sorte maligna che me li ha fatti conoscere. Essi mi vogliono, adesso, perchè ho la roba. Andate, impiccatevi!
Ma la paraninfa sorrideva per lo sdegno di Pauledda: si alzava, deponeva la tazzina, s’accomodava la cintura e il grembiale.
— Tu hai ragione, Paulè; ma se l’uomo fosse un ricco? Andria Maronzu, verbigrazia? Quello non sarebbe per la roba, certo.
Questo nome soltanto riusciva a placare il disprezzo di Pauledda per gli uomini. Un giorno ella completò le sue confidenze dicendo a zia Carula:
— Sì, quand’ero molto giovane pensavo a lui come al figlio del re: ma adesso anche lui per me è eguale a tutti gli altri: nè lui mi vuole nè io lo voglio.
Ma la donnina se ne andò stringendo le labbra sotto il lembo della benda: ricordava uno dei «contos d’Isoppo» portati spesso ad esempio da zio Felix il potatore, di una volpe che non voleva l’uva perchè non riusciva a prenderla.
Anche a casa sua ella parlava continuamente di Pauledda, della sua roba, delle sue doti di massaia, del suo disprezzo per gli uomini. I suoi figliastri spesso seguivano con attenzione i ragionamenti di lei; ma siccome ella aveva molta confidenza con loro e riferiva tutti i discorsi della sua amica, i giovanotti si beffavano delle fantasticherie giovanili di Pauledda.
— Corfu ’e balla, voleva l’ospite, ma ricco! Se fosse stato un venditore di pale e palette di Tonara non l’avrebbe voluto, — diceva Merziòro, il maggiore, un contadino bonaccione, piccolo e roseo con una gran barba nera incolta.
E Taneddu il più giovane, un adolescente ancora bianco e sbarbato, mentre si divertiva a incidere una corredda1 per suo padre che prendeva tabacco, disegnandovi su un vaso di fiori e una colomba, diceva con malizia:
— Così Dio m’assista, è il caso di correre una notte davanti alla casa di Pauledda e battere il portone fingendo d’esser rincorsi da un rivale. Quasi quasi lo faccio....
— Troppo giovane sei per lei, figlio mio. — diceva seria seria la matrigna, mentre Merziòro rideva battendosi i pugni sulle ginocchia.
— Una donna ricca come Pauledda ha sempre quindici anni!...
Predu Paulu, il secondo dei figliastri, coi gomiti sulle ginocchia e il viso fra le mani, sputava fra le sue gambe aperte e taceva. Era un sornione, Predu Paulu; agile e pallido come il fratello minore, aveva la barba nera e l’astuzia del fratello primogenito; le chiacchiere della matrigna lo costringevano a pensare a Pauledda, e ricordando che una volta in paese straniero una donna lo aveva ospitato in casa sua, fasciandogli una ferita, pensava:
— A saperlo! Andavo da Pauledda, che ha le mani molli, mentre la mia ospite sembrava la madre dei venti, vecchia e scarmigliata com’era!
*
Pauledda cuciva nel suo cortile all’ombra del pergolato. Quando il portoncino era chiuso, a lei sembrava d’essere come una monaca nel suo chiostro, circondata dai muri alti del cortile e della casa che guardava sul monte. Il rumore del mondo le arrivava di lontano, come il rombo del mare o del vento nel bosco: buono a cullare i sogni di chi sta sicuro nel suo rifugio.
Il vento soffiava, infatti, in quei tiepidi pomeriggi primaverili, ma non turbava la quiete del cortile. Passava al disopra, il vento, agitando le foglie verdoline del pergolato che si sbattevano le une contro le altre, si abbassavano, si piegavano, si volgevano or qua or là, gialle di sole, pallide d’ombra, folli di vita e di passione ma sempre attaccate al tralcio scuro come gli uomini alla loro sorte; passava spingendo le nuvole d’oro che scaturivano come fiamme dalla montagna; passava portandosi via i profumi della siepe e il garrire delle rondini. E così le ore passavano, portandosi via le speranze e gli affanni della gente. La donna si alzava di tanto in tanto, per andare a bere una tazza di caffè, nella piccola cucina tiepida e ordinata; poi tornava a cucire, aspettando qualche visita. Questa era la sua felicità.
E le visite non mancavano. Erano le vecchie zie che tornavano dalla predica e ancora piangevano la morte e passione di Nostro Signor Gesù Cristo, era zio Felix il vecchio contadino che potava gratis tutti i pergolati e le piante degli orti dei suoi conoscenti, eran le madrine dei fratelli morti di Pauledda, erano le coetanee di questa, tutte prioresse delle feste religiose del paese e della campagna. I discorsi erano innocenti, allegri: se però le vecchie zie di Pauledda si decidevano a parlare male di qualcuno era un disastro: lo prendevano vivo, lo lasciavano morto. Un giorno presero appunto a parlar male dei figliastri di zia Carula.
— Ti sembrano tanti studenti, agghindati, coi capelli unti, con la cintura stretta: sempre in giro, sempre in cerca di qualcosa come la volpe. Uno, quello che si crede Andria Maronzu perchè gli rassomiglia, e fa il bello, Predu Paulu, dicono persino che abbia l’amica, in un altro paese, una donna che lo ha ospitato una volta che è stato ferito o che è caduto da cavallo, non so. E una vedova, ricca, che però non vuole sposarlo.
Pauledda serviva il caffè, e le tazzine tremarono sul vassoio quando la vecchia zia concluse:
— Salvo il peccato mortale, quella donna non fa male a viversene tranquilla in casa sua, piuttosto che a legarsi con uomini così....
— Andate, andate a confessarvi! Che modo di parlare è questo? — rimbeccò una delle prioresse. — Tutto, fuorchè il peccato mortale.
Al solito Pauledda pareva rimaner estranea alla discussione; ma quando le amiche se ne andarono e cadde la sera ed ella sedette di nuovo sotto il pergolato a prendersi il fresco, i ricordi l’assalirono ravvivati dal racconto della zia. Ella non aveva mai pensato a prendersi un amante, pur riserbandosi tutta la sua libertà: era troppo timorosa di Dio e del mondo; ma l’esempio della ricca vedova del paese vicino le dava quella sera un vago rimpianto d’amore. Si rivedeva ragazzetta a quel medesimo posto sotto il pergolato, nelle notti di luna, mentre tutti in casa dormivano. Qualcuno passava fuori di corsa ed ella palpitava; qualcuno cantava in lontananza.
Sas aes chi olades in s’aèra |
Come allora anche adesso la notte di giugno era dolce, piena di mistero e di poesia: tra le foglie della vite le stelle brillavano come acini d’oro e in lontananza i giovani innamorati cantavano incaricando gli uccelli delle loro ambasciate.
A un tratto parve a Pauledda che un tumulto risuonasse in lontananza: la voce che cantava s’era come sciolta in aria e l’accompagnamento corale si mutava in grida rauche. Una rissa? Dei rivali che s’azzuffavano? A poco a poco il tumulto cessò, il canto ricominciò, più lontano, ma l’attenzione della donna fu attratta da un rumore di passi che s’avvicinava sempre più forte e più rapido. Cessò proprio davanti al portoncino, e qualcuno battè cauto ma con insistenza. Ella credeva di sognare: s’alzò confusa e domandò chi era.
— Ohi! son morto! per l’amor di Dio, aprimi....
— Chi sei?
— Merziòro, Aprimi, Paulè, salva un cristiano.... Son morto.... presto, presto, m’inseguono....
Ella aprì e l’uomo precipitò dentro, cadendo lungo il muro al quale appoggiò la mano tentando di risollevarsi, mentre Pauledda richiudeva il portoncino ma senza abbandonare il gancio pronta a riaprirlo se occorreva.
Ella aveva l’impressione che qualche cosa di straordinario accadesse; ma non era l’avventura romantica sognata da lei fanciulla.
— Che è accaduto? Sei ferito?
— No, no; ma mi inseguono.... Sono io.... che ho ferito.... un uomo, e adesso m’inseguono....
— Perchè l’hai ferito?
— Perchè? Ah, ti dirò.... Dammi un po’ d’acqua, per l’anima tua, Paulè; dammela....
— La brocca è lì, sulla panca; prènditela....
Egli s’era alzato, sano e salvo, e bevette. Nel silenzio s’udiva ancora il suo respiro ansante, ma al di fuori era tutto calmo e Pauledda sentiva cessare la sua sorpresa. L’uomo s’era seduto sotto il pergolato e diceva:
— Ascolta.... Dio ti paghi l’ospitalità. Ma che hai paura, che tieni il portone in mano? Vieni; il pericolo è cessato. Si vede che quelli che m’inseguivano han preso un’altra via.... Siediti! E che è la prima volta che vengo a trovarti? Devi sapere, dunque....
Cominciò a raccontare una storia un po’ confusa, d’un nemico che lo perseguitava, che gli aveva ucciso il cavallo, che gli aveva rubato le pecore. Pauledda sedette accanto a lui e ascoltava silenziosa.
— Ora mi toccherà di nascondermi, per un po’ di tempo.... La giustizia è buona, ma è meglio guardarla da lontano, come il mare. Se tu potessi tenermi qui....
— Ma ti pare? Una donna sola?
— Sarò come un tuo fratello....
— Taci!
S’udiva un altro passo, agile, rapido, lieve come quello di un uomo scalzo. Si fermò davanti al portoncino, ma passarono alcuni istanti prima che una voce bassa e supplichevole chiamasse:
— Pauledda! Paulè!
Ella era balzata di nuovo in piedi, tremando. Chi era? L’inseguitore di Merziòro? Ed ella che non gli prestava fede!
— Non aprire, per Dio, — susurrò l’uomo tirandola per la tunica; ma ella cercava di liberarsi e di slanciarsi verso il portoncino.
Intanto quello di fuori insisteva, alzando la voce:
— Paulè, sei ancora alzata? Aprimi, per l’amor di Dio, salvami da un pericolo.... Paulè....
— Mala fata ti guidi; che cosa cerchi qui, Tanè? — gridò allora Merziòro, riconoscendo la voce del fratello minore.
E questi, al di fuori, tacque sbalordito, poi si mise a ridere. Pauledda si offese.
— Entra, Tanè, è aperto!
L’altro spinse il portoncino al quale ella non aveva rimesso il gancio, e tutti e tre cominciarono a ridere e a scherzare sul caso curiosissimo che aveva spinto i due fratelli a tentare nella medesima sera lo stesso trucco; ma per confortarli la donna andò a prendere un boccale di vino e versò loro da bere dicendo:
— Fosse pure stato stasera e domani sera non mi burlavate.... Vi manca l’astuzia per simili cose, fratelli miei.... Fosse stato vostro fratello Predu Paulu! Lui avrebbe fatto meglio!
E fu in seguito a queste parole che Predu Paulu, senza dir nulla a nessuno andò a trovarla, di giorno, e poi anche di notte, e finì con lo sposarla.