VI - Ahi, quel povero colonnello!

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VI - Ahi, quel povero colonnello!
V VII

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AHI,
QUEL POVERO COLONNELLO!

Polifemo — come sanno quasi tutti — era un mostro della specie oggi scomparsa dei Ciclopi, cioè che avevano un solo grand’occhio tondo in mezzo la fronte.

Questo Polifemo era innamorato di Galatea, la quale era una bella ninfa del mare, bella e bianca come il latte. Aveva un solo occhio, Polifemo, ma le lagrime che pioveva per la passione di Galatea non erano per ciò meno abbondanti, e i sospiri che mandava su la zampogna silvestre facevano tremare le foreste dell’Etna.

Ma Galatea veniva su dal mare e gli faceva, maramao! e poi con le compagne vezzosamente rideva del tozzo amatore, e tratta dai delfini, gli facea davanti scorribande pel glauco mare.

Queste cose, assai vecchie, sono consegnate nei libri degli antichi poeti.

Ma i poeti hanno trascurato di dirci che guai per Galatea se fosse giunta a tiro di mano di Polifemo! [p. 72 modifica]

Per troppa furia d’amore se la sarebbe messa in bocca come un fondant e se la sarebbe ingoiata, per goderne tutto il sapore.

*

*  *

Ebbene, qualche cosa di simile accadde tra il signor conte Guido Ubaldo e la signora Fanny, o donna Fanny, come ella amava chiamarsi; perchè ella era una dama molto aristocratica. «A Roma — e sospirava — andavo ai balli di Corte!»

Ci fu un giorno che il signor conte si trovò al contatto della mano della signora Fanny, e dopo la mano venne il braccio e dopo il braccio venne il resto, finchè... «Finchè il signor conte ingoiò così come stava la signora Fanny...?» Per l’appunto: finchè la sposò, così come stava.

*

*  *

Ma non bisogna dimenticare che le mani della signora Fanny erano deliziose e rare; e un po’ i profumi, un po’ la pelle, un po’ lo splendore languido delle turchesi e degli anelli, accoppiato col pallido corallo delle unghie, fatto è che quelle mani esercitavano una tale seduzione, che il signor conte fu più che scusabile se ne subì il fascino irresistibile.

Gentiluomo campagnolo, il signor conte, bruciato dal sole, riarso dalla vita faticosa dei campi e della caccia, col sangue grosso e caldo di un uomo che — quando arrivava a sedere nel tinello [p. 73 modifica]della sua villa — li faceva suonare sì gli ossicini dei pollastri, e un fiasco di vino della sua vigna (oh che vino!) gli andava giù come ridere; un uomo — dico — in quelle condizioni, al posar le sue grosse e arse labbra su quelle mani, aveva provato l’impressione indimenticabile di ingoiare un sorbetto di vaniglia o di ananasso.

Ora, tutto il resto della signora Fanny era — almeno per gli occhi e pei sensi del signor conte — nella relazione di quella mano: una donnina profumata, signorile, languida, che pareva avesse la virtù di attaccare alle vesti la emanazione carnale di se stessa. Ora se una mano soltanto dava questa sensazione di piacere, che cosa avrebbe dato l’intera signora Fanny?

Il signor conte si ammalò di questa malattia di assaporare la signora Fanny per intero, e l’infezione giunse a tal punto che fu necessario l’intervento del matrimonio.

Ma ci furono dei guai seri e delle difficoltà da superare.

Il signor conte, ohimè! rasentava il peso di un quintale: ora appariva da molti segni poco probabile che la signora Fanny volesse accettare il matrimonio con un uomo di quelle proporzioni. Inoltre il signor conte portava le camicie di flanella coi colletti rovesciati: aveva l’antiestetica abitudine di legare le mutande su le calze, per modo che bene spesso si scorgevano giù pendere i legacci: ignorava — almeno a giudicar [p. 74 modifica]dall’esterno — l’uso degli stiracalzoni; e non soltanto fumava degli orribili mezzi toscani, ma, quel che è peggio, giungeva al punto di tagliuzzare con un coltello da tasca un mezzo toscano, ne imbottiva la pipa e fumava come un plebeo.

Aveva altre abitudini rozze e contadinesche, che non concordavano niente con la sua nobiltà. Per esempio, fra le otto e le nove del mattino, dopo tre o quattro ore di caccia o di sorveglianza ai lavori agricoli, era per lui un gran piacere far colazione, all’ombra se era estate, al sole se era inverno, nelle più umili osteriuzze di campagna in cui s’imbatteva, e mangiava quello che c’era, come un muratore: quattro soldi di tonno cosparso di pepe e un mazzo di cipolline fresche, e, se v’erano operai, manovali, carrettieri, villani, parlava con loro da pari a pari, tranne che a lui aggiungevano un signor conte, ma un signor conte così alla buona e consuetudinario che passava inavvertito. E d’altronde se quel tonno con la cipolla piaceva tanto a lui come a quegli altri, che bisogno c’era di far tante distinzioni anche nel resto?

Nella casa del signor conte non esisteva una table à the, anzi credo che quanto al tè preferisse una buona tazza di camomilla; e infine attorno alla sua mensa non girava nessun muto e impassibile cameriere, ma la stessa cuciniera si staccava dai fornelli per mettere in tavola, così com’era, con il grembiule. Ed essendo oramai solo [p. 75 modifica]e senza nessuno, arrivava d’estate al punto da mangiare anche in maniche di camicia.

Però di tutte queste ultime cose la signora Fanny non aveva che un lontano sospetto, come ignorava la predilezione di lui per la minestra di fagiuoli col lardo; o di ceci, con i quadrettoni di cruschello ben grossi, che si sentono sotto i denti.

La signora Fanny era in quell’estate ospite in villa di una cospicua famiglia, la quale era in buoni rapporti di vicinato e confinante per proprietà coi beni, del signor conte; e per tal modo si erano conosciuti.

La signora Fanny aveva appena da un anno smesso l’abito di lutto per il suo primo marito: anzi si può quasi assicurare che era stato lui, il signor conte, a farla sorridere la prima volta dopo quella gran disgrazia; lui, con quel suo fare bonario, semplice, con quel suo largo riso sano e felice, con quei suoi occhi celesti, senza ombre e senza malizie.

— Pare un grosso bambino, ed ha la barba che qua e là è grigia — aveva detto agli ospiti la signora Fanny.

— Un uomo felice — avevano detto gli ospiti.

La signora Fanny non aveva appetito, perchè aveva troppo sofferto per la morte del suo povero colonnello, chè tale era il grado del defunto [p. 76 modifica]consorte. Ma ci pensò lui, il conte, a stuzzicarglielo l’appetito, che da un laghetto sull’Alpe lontana faceva venir giù certe trotelle, certi panierini di fragole selvatiche, certi formaggi che fanno i pastori, certi funghi...! Tutta roba che si trova sul remoto Appennino, e non è facile conoscere la via, i mezzi, il tempo per acquistarla. Ma il signor conte, gran cacciatore, conosceva la montagna a palmo a palmo, e sapeva in quale gorgo di fiume matura la trota, in quale selva cresce il lampone e la fragola.

E che dire della caccia? O, quanti pennuti, già felici fra i ginepri e le forre montane, quante gallinelle, quante starne, quante quaglie furono dal micidiale piombo del conte sottratti alla libertà ed alla vita e presentati come omaggio alla inappetenza della signora Fanny!

Fu così che la signora Fanny cominciò ad acquistare l’appetito; ma il signor conte cominciò a perderlo.

Un giorno gli caddero molte lagrime sopra due quaglie, le cui compagne erano state consegnate alla cuoca della signora Fanny, e allora pensò:

— Ma perchè piango io, sciocco che sono mai? Se quel povero colonnello fosse in vita, allora sì avrei da disperarmi; ma poichè il colonnello è morto..., io ben la posso sposare.

Pensar questo fu cosa facile.

Ma se il conte ci riusciva ad offrire le quaglie e le starne, ad offrir se stesso non ci riusciva: [p. 77 modifica]trattare con donna Fanny era per lui un’impresa seria: si imagini come offrire la scomposizione e ricomposizione di un orologio alle dita di un carrettiere. Ne parlò ai comuni amici, i quali ne parlarono alla signora Fanny.

— Rimaritarmi, io?

La signora Fanny non faceva questione del conte o di altri: faceva questione semplicemente del verbo rimaritarsi. Come è naturale, donna Fanny faceva presente l’ombra di Sicheo, voglio dire del defunto colonnello, il quale era inutile che fosse stato così buono, così cavaliere, così compiacente di morire, se la vedova si doveva legare con altri. Il vero è che lei non vedeva nessuna necessità di queste seconde nozze. Sarebbe come offrire una seconda licenza ad uno scolaro: ma è la prima quella che è necessaria, il porro unum della carriera.

Così per le donne: è il primo marito che è necessario.

E poi quel dover rinunciare alla pensione che quel povero colonnello le aveva lasciata, a lei pareva quasi un delitto di ingratitudine.

E infine, perchè non dirlo? Il suo primo marito era stato troppo buono, troppo cavaliere, troppo delicato in tutto, così che lei si sentiva come un pochino viziata.

— No, amico, credetelo, vi farei infelice — diceva al conte.

Ma se tutti gli impedimenti erano questi, egli, [p. 78 modifica]il conte, poteva garantire che sarebbe stato tanto buono, tanto docile, tanto delicato anche lui.

— Sì, ma poi voi siete troppo colossale, mio Dio! Vi pare che staremmo bene vicini l’una all’altro?

A questa terribile domanda, il povero conte non sapeva che rispondere; ed era tanta la desolazione che si dipingeva sul suo viso, che donna Fanny ridea di gusto, e da allora cominciò a pensarci su. Le donne — come è ben noto — hanno l’istinto della redenzione, e fu appunto per questo che nel cervello della signora Fanny entrò, non l’amore propriamente, ma l’idea di redimere quel povero conte: compiere come una missione di bene.

Senza cominciare da Beatrice Portinari che gettò nella mente del suo pallido amico l’idea della Divina Commedia, quante donne potrebbe registrare la storia che furono cagione dell’opera egregia di tanti uomini illustri!

Ora la signora Fanny non si proponeva certo di far comporre al conte una Divina Commedia, e nemmeno di iniziarlo alla vita politica. Ma le pareva opera degna della sua muliebre intellettualità e di quell’istinto materno che fu depositato dalla natura nel segreto di ciascuna discendente di Eva, richiamare alla vita quel disgraziato conte.

Perchè io non ho detto tutto: ma il vero è che il conte Guido Ubaldo portava un bel nome [p. 79 modifica]storico, che il suo patrimonio era cospicuo, e il castello che abitava era stato testimone di antiche storie. Con questi requisiti, un uomo si doveva seppellire in campagna? vestire a quel modo? condurre l’esistenza di un fattore?

«Ma salva e redimi quell’infelice nostro discendente», pareva dicessero alcuni ritratti antichi a donna Fanny, il giorno che il conte la condusse a visitare il castello.

Fu così che donna Fanny si decise, perchè oltre a richiamare il conte Guido Ubaldo a vita conforme al proprio grado, c’era tutto il castello e le sue adiacenze da riformare.

Riformare la mobilia, se non in tutto almeno in parte: tutte quelle sale tetre con quei mobili neri, roba d’altri secoli, consunti dai tarli, roba da antiquari, sostituirli con aerei, azzurri, rosei mobili di stile floreale; e bianco e oro alle pareti; e su la spianata invece di quei funebri cipressi, spianarvi un lawn-tennis, e perchè no? sostituire il vecchio e geometrico giardino all’italiana con tutti quei vasi di limoni, con tutti quei corridoi di verdina, con un vago e vario giardino all’inglese.

C’era insomma da consumare l’attività di una donna anche meno intraprendente della signora Fanny. Ma più che il castello, stava a cuore a donna Fanny di riaprire e rimodernare il palazzo comitale di città; e più che il castello e più che il palazzo, le stava a cuore di rimodernare e [p. 80 modifica]aprire alla vita il suo volonteroso secondo consorte.

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*  *

Così adunque vennero celebrate le nozze.

Gli sposi partirono, e si racconta che, nei primi tempi, molto viaggiassero, e in grandi città facessero loro dimora.

Se non che, dopo qualche anno, ritornarono al castello perchè il povero conte non istava proprio bene. Infatti non si riconosceva più.

Lasciamo stare l’abitudine delle minestre col cece e delle colazioni da cacciatore con il tonno, il pepe e la cipolla: ma voglio dire che lui non si conosceva più. Era diventato di un colore che ricordava il grano che è cresciuto in cantina; e, mentre prima stava ritto, ora era tutto cascante, e quella sua barba veramente fiorita, in cui i fili d’argento già facevano bizzarro contrasto con il color primitivo del rame, era stata trasformata in una barbetta in punta, d’un colore tutto eguale, un colore sporco fra il cenere e il biondo.

Parlava mansuetamente e assicurava tutti che stava bene di salute; ma quel suo sorriso stirato, dava a vedere che non lo diceva con convinzione.

Anche l’aria nativa non gli giovò: e come molti avranno osservato che gli uomini prima di impazzire, prima di ammalarsi di incurabili mali, ovverosia prima di morire, mettono fuori certi loro sentimenti sigillati nel cuore da anni ed [p. 81 modifica]anni, così si racconta che il povero conte esclamasse una volta:

— Ah, perchè è morto quel povero colonnello!

*

*  *

Quando anche il conte morì, fu osservato che la sua barba era tutta bianca e così i capelli; e così si osservò che il suo volume e il suo peso non erano diminuiti.

Ahi, come si dolse donna Fanny della morte del povero conte! Dopo il colonnello ella credeva impossibile di trovare un uomo più cavaliere, più gentile. Eppure ella lo aveva trovato nella persona del conte Guido Ubaldo; ed era morto!

Tutto ella aveva fatto per lui: lo aveva abituato a portare i colletti alti; a gustare il tè, che prima non poteva soffrire, a fumare le sigarette invece dei toscani. Aveva smesso l’abuso dei farinacei, del fiasco di vino; s’era adattato benissimo ai ricevimenti del venerdì, a coricarsi dopo il teatro, a stare in letto al mattino sino alle otto per lo meno: insomma, in tutto si era incivilito, dirozzato quel povero conte; in una sola cosa non era riuscita donna Fanny: nel farlo dimagrare. Perchè quello di ridurlo magro era stato il principale pensiero di donna Fanny. Ma invano!

Cure sopra cure, aveva fatto: non vino rosso, non farinacei di cui era sì ghiotto; molto tè, [p. 82 modifica]molto digiuno, massaggio, cura elettrica ad alta frequenza, idroterapia, cura di Montecatini, di Carlsbad, tabloidi di tiroidina. Macchè! Diventava pallido, ma magro niente!

Così, ma molto più in lungo spiegava donna Fanny al dottore, il vecchio dottore di condotta, che la stava ad ascoltare a fronte bassa e con gli occhi chiusi dalla mano.

— Pensi — seguitava donna Fanny — che vedendo l’impossibilità di ottenere alcun dimagramento, mi sono raccomandata ad un celebre specialista omeopatico, il quale mi consigliò come infallibile una cura assai rara e costosa, fornitami — noti bene — da quella stessa casa — una delle case più accreditate — da cui io da anni faccio venire i miei articoli da toilette.

A questo punto il vecchio dottore si tolse la mano dagli occhi, e, levando il volto, affissò attentamente il volto della contessa Fanny, chè tale ora si poteva a buon diritto chiamare; e poichè qualche cosa era necessario rispondere, così il dottore disse:

— Io sono della vecchia scuola, signora contessa; ma io credo che chi è nato grasso e grosso non potrà mai diventare snello e magro. Credo piuttosto che una vita libera ed all’aperto, piena di attività, quale era quella che spontaneamente conduceva prima il defunto signor conte, avesse virtù di mantenere l’equilibrio organico meglio che le cure specifiche escogitate al proposito e [p. 83 modifica]a cui ella testè mi accennava. La ragione ci consiglia spesso di violentare la natura, ma una più acuta ragione ci avverte che è bene usare le maggiori cautele in quest’opera di violenza.

Così parlò il vecchio dottore.

Ma alla sera, avendo osservato il volto imbiutato e lisciato di cosmetici della signora contessa — cosa di cui forse il conte Guido Ubaldo non si era mai interamente accorto — scrisse in un suo libro di memorie mediche, accanto al nome del defunto, questa nota in latino, come soleva:

E le parole sono queste: «Ex eodem unguentario unde causas nuptiarum, idem, miser comes Guidobaldus, mortis emit causam.» (Dal medesimo venditore di cosmetici, da cui il misero conte Guidobaldo tolse la causa del matrimonio, comperò pure la causa della sua morte.)