Che cosa è l'amore?/IV
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LE MOSCHE E LA POLONIA.
Non mi accusate di essere positivista, scettico o come meglio vi piace chiamarmi. Io, alla vostra età — parlavo con un giovane amico — ero terribilmente romantico ed idealista. Combattere per la infelice Polonia era il mio sogno...
— Non per il Proletariato?
— No, mio giovane amico; allora non era ancora di moda quella cosa che voi dite.
— Non c’era il Socialismo ai vostri tempi?
— Sì, c’era; ma era — come dire? — ancora a balia: un grosso, tozzo marmocchio di una voracità incredibile che lasciava indovinare uno sviluppo prodigioso: un po’ bruttino, sia espresso col dovuto rispetto, ma marmocchio ancora, come vi dicevo. Ah, morire con una palla in fronte e il sole polacco davanti agli occhi, centuplicava l’ebbrezza della mia gioventù! La mia gioventù è fiorita agli ultimi bagliori del Romanticismo. Ma anche senza Romanticismo, sta il fatto che pei giovani la Morte spesso si presenta come una forma eroica di Vita. Se la natura non ci usasse questo lugubre scherzo, le guerre sarebbero finite da un pezzo! Ma io non voglio tediarvi con la filosofia. Vi dirò, dunque, che allora vi erano comitati per la Polonia, conferenziere polacche, come oggi vi sono le suffragette. Sapete chi mi ha guarito della mia malattia romantica? Le mosche!
— Le mosche?
— Sì, come ho il piacere di dirvi: se non c’erano le mosche, io sarei rimasto — forse — ancora romantico ed idaalista, e non avrei fatto la discreta carriera politica che voi, bontà vostra, esaltavate poco fa. Quel lurido e petulante animale mi ha inoculato il virus del positivismo. Una reazione, quasi fulminea, è sopravvenuta, ed improvvisamente la mia vita ha deviato come un treno, a cui lo scambista toglie, con un colpo di leva, la direzione: dà un sobbalzo e poi fila, precipita verso nord invece che verso sud. Vi può interessare?
Il mio giovane amico rispose gentilmente:
— Moltissimo.
Io allora gli offersi una sedia, una sigaretta e, richiamando alla memoria cose antiche, proseguii. Alla vostra età io amavo una signora polacca, di Varsavia, anzi di Varsovì, come ella diceva in un suo gergo, mescolato di polacco, di francese e di italiano.
— Ci siamo col solito amore! — disse l’amico.
— Ma, benedetto Iddio, questo dovreste saperlo: senza l’amore e senza la donna non esisterebbe nè romanticismo, nè positivismo, nè lirica, nè epopea, e tutto questo benchè la donna sia un fenomeno triste. Ricordate la conclusione dei Nibelunghi?
— Nemmeno per sogno.
— È un’espressione notevole. I Nibelunghi terminano con queste parole: «perchè l’amore porta in fine disgrazia».
— Era questa vostra signora una conferenziera Pro-Polonia?
— Mai più. In che lingua doveva conferire? Era una splendida, lattea, placida creatura bionda, di quel biondo tenero come di spiga non baciata bene dal sole; anzi vi dirò che quella bellezza nordica aveva così conquistato il mio animo che non soltanto il color bruno ardente delle bellezze nazionali, ma lo stesso color falbo delle nostre donne, mi pareva un’imperfezione di natura. Ella era inoltre così squisitamente monda e detersa che dalle sue carni lattee io sentivo esalare un perpetuo profumo di pervinca e di mughetto; e gli occhi suoi grandi, quasi squarciati, di un azzurro dolcissimo, sotto due archi di ciglia perfetti ed evanescenti, mi immergevano nello stupore di un sogno, da cui uscivo talora fremente e con queste terribili domande: «E come finirà questo amore? Come farò io a palesarle il mio affetto? E palesato pur anche il mio amore, dopo che avverrà?»
— Allora un amore ideale...
— Altro che ideale, romantico, vi dico: anzi nessuna dichiarazione d’amore era avvenuta. Ella era donna per bene, madre di due graziosi bambini a cui io facevo da bambinaio, perchè la servetta era una smemorata, un’arfasatta, come sovente sono nei nostri paesi.
Suo marito, uomo di molti affari, viaggiava per l’Europa, ed aveva lasciata la sua signora a curarsi in una piccola, modesta stazione balnearia, dove ella aveva preso a pigione una villetta solinga presso il mare, e dove io l’avevo, naturalmente, seguita. Permettete che continui la descrizione: Il suo mento era di un ovale perfetto e la sua piccola bocca, a cuore, era la sola cosa rosea in quel volto. Il naso, quello sì, era poco perfetto: un piccolo nasetto rivolto in su, ma vi dirò: i nasi aquilini e forti delle nostre donne, con sopra le dense corrusche ciglia nere, spesso congiunte, che sono così caratteristiche fra noi mi spiacevano tanto al confronto che mi chiamavano in mente il becco delle civette e le ciglia dei bachi da seta.
— Parlavate della Polonia?
— Mai più: ella era una donna placida, come vi dissi, e si parlava di cose placide: delle mie cacce, dei bagni, di cose da mangiare, tanto più che io la aiutavo nelle compere presso gli avidi e zotici nostri rivenditori, che avevano, anche allora, l’abitudine di mettere sugli stranieri una tassa di soggiorno mediante un sovrapprezzo sui commestibili. Del resto, la cucina italiana le gradiva moltissimo, e se ne parlava. I pròcoli (broccoli) fritti le piacevano assai. I nostri vini leggeri, razzanti, erano una deliziosa pìpita (bibita). Sospirava Napoli dove era stata parecchio tempo. A Naple semper trovate tante buone gente. Ma le pizze di Napoli la turbavano, al ricordo.
Ella mi affidava il suo portmonè (portamonete), e andavamo coi bimbi a far la spesa. Si comperava la pulpa di manzo per fare il buglione (brodo); e trasaliva di gioia con tutta la chioma flava, come una fanciullina, quando vedeva nei panieri: Keste pikkel cose fini fini (queste piccole cose fine fine), le ziligi (ciliege).
— Dio, come era volgare!
- Tutto è relativo; e poi a quel tempo non era di moda l’estetica. Vi ho detto che era placida, ma aveva anche lei i suoi momenti di lagrime e di commozione: per esempio quando il marito la avvertiva che lui non poteva tornare, perchè era chiamato per affari a Parigi. Lambiva con le belle mani i suoi piccini: «Povres enfants! Kante (quando) un ome (uomo) promette, deve mantenire» (mantenere). E diceva ciò assai gravemente.
Aveva molti scatti di sdegno contro la fanticella très-laide, e peggio: chè, spesso di giorno, spesso anche di notte, era trovata assente, sotto il pretesto delle danze campestri al lume della luna. Le diceva sempre: Vergognati gli occhi fuori della testa! Doveva essere una espressione polacca.
Per conforto io dovevo cantare.
— Voi cantavate?
— Certo, come italiano io avevo il dovere di sapere cantare e cantare canzoni napoletane. — Canta, bell’italiano! — diceva.
— Anche «bello» vi diceva?
Era nient’altro che un epiteto ornativo: tutto ciò che era in Italia godeva di questo aggettivo, eccezione fatta dei bottegai. Povera e buona signora! Del resto io ero assai bello, nè mi vergogno, oggi, di dirlo: bello di quella bellezza maschile, forte, che io non so se l’esotismo della moda, oppure il positivismo hanno fatto perdere a voialtri, giovani moderni. Concedetemi la divagazione: voi moderni siete brutti: la virtù fisica maschile è appena sostenuta oggi dagli ufficiali; e quelle signore che oggi sono così fiere propagandiste dell’antimilitarismo, dovranno creare, forse, un militarismo pacifico ed artificiale in omaggio alla bellezza virile. Ma sapete che siete ben goffi, ben menci coi vostri abiti razionali? Noi, romantici, eravamo belli. Alto io ero, nerboruto, con due calzoni assaettati, stretti sì che i muscoli delle cosce guizzavano: voi oggi portate le gonnelle, non i calzoni, e qual meraviglia se le donne vogliono adottare i calzoni? Portavo io, allora, coturni da cacciatore, feltro grigio, giacca stretta al busto e così cantavo, come potevo, ed ella diceva: Canta, canta, mio core mi fa male! tanto dispecere col core malato!
Ma il cuore, malato veramente, era il mio.
*
* *
Avevo cantato tutta quella mattina stringendo appena la sua pallida mano, odorante di giunchiglia, fresca della sua primavera. Avevo mangiato un boccone all’osteria; mi ero chiuso nella mia stanza. Era un giorno ardente, e il sudore, con la passione, grondava dalla mia fronte. Come concludere quell’amore? Rapirla, e poi? E dove andare? Come vivere? E quei figli? Sappiate che io ero povero, allora. Volli almeno, qualunque fosse stato il nostro destino, che ella sapesse almeno tutto il mio amore. Non ci saremmo, forse, mai più riveduti, ma del mio amore ella doveva avere notizia certa e memoria perpetua.
Per tutto questo, benchè mi paresse cosa disonesta ed audace rivolgere dirette e vere parole d’amore a donna che apparteneva ad altro uomo, pure la passione vinse e scrissi. Timidezze dei venti anni!
Suo marito, forse — io pensavo — mi avrebbe ucciso. Ebbene? Non ero già io disposto a dar la vita per la Polonia? Guardai per la misera stanza d’albergo: non c’era calamaio nè penna, istrumenti poco usati nelle locande campestri, anche oggi che siamo così evoluti. E poi, che calamaio, che penna! Trassi il coltello, mi denudai il braccio, vi immersi la punta della lama. Più profondamente premetti che non fosse necessario; ed un forte rivoletto di sangue, del mio sangue, rutilò. Lo contemplai con occhi sbarrati: scendeva giù per l’avambraccio, scuro, e si veniva grumando nella mano. Poi che l’ebbi deterso alquanto, scrissi col mio sangue. Che cosa scrissi? Non ve lo saprei ripetere. Poche parole, ma parole di sangue; ma degne di essere scritte col sangue. Poi mi si appannò la vista; mi parve che un’aria, quasi gelida, asciugasse il sudore della fronte. Un gran languore mi colse. Caddi riverso sul letto, e mi addormentai profondamente.
*
* *
Cadeva il vespero quando i miei occhi si riapersero. I bagliori sanguigni del tramonto sereno entravano nella stanzetta muta. Mi ricordai. Balzai per prendere il foglio dove avevo consegnato al mio sangue la confessione del mio amore.
Il foglio era scomparso!
V’erano bensì sul pavimento due o tre fogli del mio taccuino, ma quello con la lettera era scomparso.
Qualcosa di terribile balenò allora nel mio cervello. Io non vi ho detto di alcune gelosie che nutrivo in segreto per la bellissima donna. Ella ne era del tutto innocente: ma un barbuto signore del luogo, assai prepotente e ricco, e di sospetti costumi, troppo spesso e troppo da vicino, e con aria troppo beffarda soleva passare presso di noi, lungo la spiaggia del mare. Io vi assicuro che più volte ero stato preso da un impeto folle di affrontarlo, e soltanto per riguardo alla dama me ne era trattenuto, per timore che egli beffardamente mi dicesse: «E lei chi è? che c’entra?» Ora il sospetto che colui, o altri per lui, avesse, durante il mio sonno, fatto rapire il foglio, mi si presentò come cosa certa, per effetto dell’immaginare mio fallace; tanto più che l’uscio della stanza era rimasto aperto. Misi in tasca il coltello, stavo per lanciarmi fuori, quando rassettando rapidamente le cose mie e raccogliendo quei fogli sparsi, m’avvidi con stupore profondo di una cosa non sospettata.
Ecco: durante il mio sonno, le mosche avevano fatto colazione con la mia lettera. Avevano mangiato col sangue le mie parole d’amore.
Il foglio non era stato rapito; era stato succhiato dalle mosche. Ecco perchè esso era tornato bianco come prima. Quali pensieri mi germogliarono in mente, non vi saprei dire: ma ricordo che guardai le molte mosche appollaiate sui vetri: esse parevano godere di una eccellente digestione. La mia idealità era stata divorata dalle mosche!
Allora avvenne quel disorientamento nel mio spirito di cui vi parlavo in principio; o se vi pare, un nuovo orientamento.
— Avete rifatta la lettera con l’inchiostro?
— Nè con l’inchiostro, nè col sangue: avevo trovato la soluzione semplice, naturale del problema che mi tormentava. Il violino dell’oste faceva già zin-zin e un contrabbasso faceva zun-zun: le danze sotto l’imminente luna erano cominciate.
Attesi: Quando fu notte alta, vidi fra le ballerine apparire la servetta della mia signora polacca a cui la frase, vergognati con gli occhi fuori della testa, non produceva alcun effetto morale.
La Polonia, dunque, era sola in casa.
Allora mi avviai, ed ero ben risoluto: il cancelletto era aperto e la sabbia del viale non produceva alcun rumore.
Povera e buona signora! Me ne rimorde un po’ ancora il cuore: ella aveva messo a letto i suoi piccini e si preparava in abito molto notturno a seguirli, dolce, placida, indifesa e per nulla presaga dell’avvenire di quella strana notte. Quando mi vide scavalcare la finestra a piano terreno mandò un grido...
— Di paura o di piacere?
— Chi se ne ricorda più? Ricordo che rimase immobile, paralizzata. Io ero ben gagliardo allora, e le mie braccia e tutto il mio essere si affondò in quella profumata tenerezza bianca della Polonia.
La sentii più tardi mezza dormiente sussurrare alle mie orecchie: — Da quanto tempo ti aspettavo bell’italiano! — E la mattina mi diceva quasi piangendo: Mon Dieu, come mi potevo difendere? Voi siete entrato come un véritabile brigante et une femme quand est en toilette de nuit ne peut absolumment se défendre.
Non mi rimase che l’ufficio di confortare la sua coscienza, assicurandola che la colpa non era sua, ma della toilette che vestiva in quell’ora.
*
* *
Il dì seguente io mi ricordo che ebbi una discussione con l’oste e con alcuni avventori di campagna. Le mosche erano a nembi per la cucina in quella mattina d’estate; e quella gente ragionava, per effetto di quella disposizione filosofica che è connaturata nell’uomo, sui misteri della Creazione.
Essi sostenevano, ad esempio, la inutilità assoluta delle mosche nella economia della vita.
Io ero di opinione contraria.
Sventuratamente non potevo spiegarmi, se non col dire che anch’esse erano creature di Dio. Certo io ero guarito dell’orgasmo della mia passione. Avevo trovato quella base morale che Archimede, come sapete, propone come giusto fulcro delle operazioni umane, nessuna esclusa. Sono diventato positivista; ho abbandonato la Polonia al suo destino storico; mi sono dato anch’io al Proletariato, del quale, come esempio vi dimostra, si vive, ma non si muore.