Catullo e Lesbia/Annotazioni/4. A Lesbia - V Ad Lesbiam

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Annotazioni - 3. Quinzia e Lesbia - LXXXVI In Quintiam et Lesbiam Annotazioni - 5. - VII
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V.


Pag. 162.          Vivamus, mea Lesbia, atque amemus.

Adotta la massima degli Epicurei, che tutta la vita ponevano nel difetto di cure e nella pienezza della voluttà. Onde Cicerone (De nat. Deor., I), riportando le parole d’Epicuro, scriveva: Nos autem beatam vitam et in animi securitate et in omni vacatione munerum ponimus.

Ma qual beatitudine senza l’amore?

Miserum est neque amori dare ludum,
Neque dulci mala vino lavere.

E qual voluttà più grande dell’amore? Voluptates [p. 273 modifica]omnes amore imbecillores sunt, come dice Agatone nel Convito.

E si può vivere senza amare?

Cras amet qui nunquam amavit, quisque amavit cras amet.

Amiamo dunque finchè c’è concesso, dum fata sinunt; per dirla con Tibullo:

Interea, dum fata sinunt, jungamus amores;
     Iam veniet tenebris mors adoperta caput.

E Properzio, quasi con le stesse parole:

Dum nos fata sinunt, oculos satiemus amore.

Si contenta però di molto meno; saziar gli occhi, e niente altro. Ma l’amore incomincia dagli occhi: ex aspectu nascitur amor.

Amuri, amuri accumenzi di l’occhi,
E poi di l’occhi scinni ’ntra lu cori.

E il Poliziano:

O bello Dio, che al cor per gli occhi spiri
Dolce desir d’amaro pensier pieno, ec.

Amiamo; la vita è tanto breve!

Onde Marziale ha ragione:

Non est, crede, sapientis dicere: vivam.
Sera nimis vita est crastina: vive hodie.

E il casto Virgilio:

Pone merum et talos; pereat qui crastina curet,
Mors autem vellens, vivite ait, venio.

[p. 274 modifica]E Atto Sincero, citato dal Mureto, in chiave di zoccolante:

Ah! genus imprudens hominum, quid gaudia differs?
Falle diem: mediis mors venti atra iocis!

Cum sciamus, dice Trimalcione, nos morituros esse, guare non vivamus?

Per i Romani dell’impero vivere non è soltanto vivere, ma goder della vita: vivere et frui anima, come direbbe Sallustio. Dum vivimus vivamus, scrisse un amico di Petronio sulla tomba della sua ganza. Vitula si chiamò la Dea dell’allegrezza e dei piaceri, non già da vitulus, come crede Festo e Varrone, ma, secondo Nonio, da vita, o piuttosto da vitulor, che vale allegrarsi, darsi bel tempo, godere, vivere a tavola, o in letto, come spiega il Dufour, con la mollezza d’una vitula o giovenca sdraiata sull’erba dei campi.

Ma codesta è vita da giovani. Anacreonte cantava:

ἐγὼ δἐ τὰς κόμας μέν
εἴτ᾿ εὶσἰν εἴτ᾿ ἀπῆλθον,
οὐκ οἶδά.

Non tutti i vecchi hanno lo spirito d’Anacreonte; la loro severità proviene spesso dal dispetto e dall’impotenza. Catullo però fa molto bene a consigliar l’amica a non far caso dei susurri e delle rampogne dei vecchi.


Pag. 162.          Unius æstimemm assis;.

ch’è quanto dire: teniamoli in conto d’un centesimino bacato, per dirla alla fiorentina. Quanto all’origine e alle vicende dell’asse si può legger Varrone, 4, L.L. 36; [p. 275 modifica]Plinio, lib. XXXIII; Ulpiano, D., 28, 5, 48; Columella, V, 1, 3; Vitruvio, 111,1.


Pag. 162.          Soles occidere et redire possunt.

Tangit Epicureorum opinionem, qui putarunt multos fieri et nasci soles. Plinius etiam multos soles visos fuisse tradit. Così annota il Partenio.


Ibidem.          Nobis, cum semel occidit brevis lux.

Breve luce, cioè la vita. Virgilio:

Quæ lucis miseris tam dira cupido?

e altrove:

Quo magis inceptum peragat lucemque relinquat,

E Silio Italico:

Is genti mos dirus erat, patriumque petebant
Orbati solium lucis discrimine fratres.

Similmente Plauto:

Ecquid agis? remorare? lumen lingue.

E come ha detto luce la vita, così chiama notte la morte.


Ibidem.          Nox est perpetua una dormienda.

conformandosi alla sentenza espressa da Platone nell’Apologia, e ad Orfeo nell’Inno alla morte:

Τὸν μακρὸν ζωοῖσι φέρων αὶώνιον ὕπνον

Così pure Orazio:

Sed omnes una manet nox;

[p. 276 modifica]dov’è a notare quell’una preso da Catullo, che l’avea preso a sua volta da Platone, e che è di maggiore effetto di quel di Properzio:

Nox tibi longa venit nec reditura dies;

e ricorda il verso di Dante:

La morte, si sa, era creduta consanguinea del sonno; e fu opinione volgare che gli uomini fossero tratti a morte dalle stesse cagioni che ci traggono al sonno. Onde Lucrezio:

Tu quidem ut es lecto sopitus, sic eris ævi
Quod superest, cunctis privatu doloribus ægris.

Anche nelle sacre carte la Morte è chiamata col nome di sonno o di quiete; e ferreo sonno, χαλκεον ὖπνον, la chiamarono i Greci. Onde Valerio Flacco:

                                        En frigidus orbes
Purpureos iam somnus obit; iam candor et anni
Deficiunt, vitaque fugit decus omne soluta.

E cimiteri son detti i sepolcreti, con greco vocabolo; perchè i Cristiani hanno fede che dopo morte non si faccia che dormire. Beati loro, che non dividono i dubbii del povero Amleto!

                                                  To die, to sleep;
Te sleep! perchance to dream: ay, there’s the rub;
For in that sleep of death what dreams may come?