Giovanni Boccaccio

XIV secolo Indice:Le Rime di Cino da Pistoia.djvu Letteratura Canto di Ameto Intestazione 21 giugno 2020 100% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Rime scelte di poeti del secolo XIV/Giovanni Boccacci


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CANTO DI AMETO


     Febo salito già a mezz’il cielo
Con più dritto occhio ne mira, e raccorta
3L’ombra de’ corpi che gli si fan velo;
     E zefiro suave ne conforta
Di lui fuggire e l’ombre seguitare.
6Fin che da lui men calda ne sia porta
     La luce sua, che nell’umido mare
Ora si pasce et in terra pigliando
9Il cibo qual a sua deità pare.
     Et ogni fiera ascosa, ruminando
Quel c’ha pasciuto nel giovane sole,
12Tien le caverne lui vecchio aspettando.
     Fra l’erbe si nascondon le vïole
Per lo venuto caldo, e gli altri fiori
15Mostran bassati quanto lor ne duole.
     Nessun pastore or è rimasto fuori
Ne’ campi aperti con le sue capelle,
18Ma sotto l’ombre mitigan gli ardori.
     Taccion le selve, e tace ciò che ’n quelle
Suol far romore; e ciò che fu palese
21Al basso Febo or è nascoso in elle.
     Le reti ora per venti son distese;
E gli archi per lo caldo risoluti
24Porger non possono or le gravi offese;

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     Nè san sì forti aguale i ferri aguti
Degli volanti strai, fatti ferventi
27Da’ caldi raggi allor sopravvenuti.
     E ciascheduna cosa i blandimenti
Ora dell’ombre cerca. Ma tu sola,
30Lïa, trascorri per l’aure cocenti;
     E, trascorrendo, agli occhi miei s’imbola
La vista della tua chiara bellezza,
33Che sol di sè ogn’or più mi dà gola.
     Deh! lascia omai degli monti l’altezza;
Non infestar le selve e te con loro;
36Vieni a riposo della tua lassezza.
     Discendi a questi campi con quel coro
Piacevole, che teco in compagnìa
39Suol sempre far grazïoso dimoro.
     Vedi qui l’acque, vedi qui l’ombrìa
E i campi erbosi senza alcun difetto
42Fuor solamente che tu in essi sia.
     Adunque vieni; e l’usato diletto
Prendi come tu suoli, e gli occhi miei
45Lieti rifa’ col tuo giocondo aspetto.
     Perdona a’ tuoi affanni; a’ quai vorrei
Più tosto esser compagno che salire
48A far maggiore il numero de’ dèi.
     Perdona all’arco e a’ cani che seguire
Più non ti possono, et omai discendi
51A questi prati, o caro mio disire.
     Qui dilettevoli ore a trar contendi;
E ’l dilicato corpo all’ombre grate,
54Lieta posando, sopra l’erbe stendi.
     Qui, come suoli cantando altre fiate,
Ne vieni omai: perchè dimori tanto
57Di render te all’ombre disïate?
     Le tue bellezze degne d’ogni canto
Non posson esser tocche col mio metro
60Non degno a ciò; ma pur dironne alquanto.
     Tu se’ lucente e chiara più che ’l vetro,
Et assai dolce più ch’uva matura
63Nel cuor ti sento ov’io sempre t’impetro.

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     E sì come la palma in vêr l’altura
Si stende, così tu, vie più vezzosa
66Che ’l giovinetto agnel nella pastura,
     E se’ più cara assai e grazïosa
Che le fredde acque ai corpi faticati
69O che le fiamme a’ freddi o ch’altra cosa.
     E i tuoi capei più volte ho simigliati
Di Cerere alle spoglie secche e bionde,
72D’intorno crespi, al tuo capo legati.
     E le tue parti ciascuna risponde
Sì bene al tutto, e il tutto alle tue parti,
75Se non m’inganna quel che si nasconde,
     Che per sommo desìo sempre a mirarti
Di grazia chiederei al sommo Giove
78Di star, sol ch’io non credessi noiarti.
     Dunque, se quella dea ti guida e muove
Di cui tu già cantasti, vieni omai:
81Non è quest’ora a te d’essere altrove.
     Fa’ salve le bellezze che tu hai.
Che dal calor dïurno offese sono
84Ogn’ora più che tu più istarai.
     Vieni, ch’io serbo a te giocondo dono;
Chè io ho colto fiori in abbondanza,
87A gli occhi bei, d’odor soave e buono.
     E, sì come suol esser mia usanza,
Le ciriege ti serbo; e già per poco
90Non si riscaldan per la tua istanza.
     Con queste, bianche e rosse come foco,
Ti serbo gelse mandorle e susine,
93Fragole e bozzacchioni in questo loco,
     Belle peruzze e fichi sanza fine.
E di tortole ho preso una nidata,
96Le più belle del mondo, piccoline,
     Con le quai tu potrai lunga fïata
Prender sollazzo. Et ho due leprettini
99Pur testè tolti alla madre piagata
     Dall’arco mio, e son sì monnosini
Che meritâr perdon veggendoli io.
102Et ho con lor tre cerbi piccolini,

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     Che nelle reti entrati con disìo
Per te gli presi; et ho molte altre cose,
105Le quai ti serbo, donna del cor mio:
     Pur che tu scendi tosto alle pietose
Ombre, lasciando le selve, alle quali
108Non ti falla il tornar, quando noiose
     Non fien le fiamme, a seguir gli animali.


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