Canti di Castelvecchio/Canti di Castelvecchio/Il mendico
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IL MENDICO
I
Soletto su l’orlo d’un lago
che al rosso tramonto riluce,
v’è un uomo col refe e con l’ago,
che cuce
tra l’erica bassa.
E cuce; e nel cielo turchino
già ridono l’aspre civette,
e il lago sul capo suo chino
riflette
qualche ala che passa.
E cuce; e i suoi cenci nell’acqua,
trapunta di tacite bolle,
si specchiano, e l’ombra li sciacqua
con murmure molle.
II
Ma in tanto che, ombrato da un velo,
nell’acqua il lavoro suo fiotta,
tra l’urto dei cirri del cielo
s’è rotta
la tenue gugliata.
Egli alza la testa. Il suo filo
s’è rotto; e si sente dai tufi,
dall’inaccessibile asilo
dei gufi,
la morte che fiata.
E piccolo il sole che muore,
gli appare traverso la cruna
dell’ago. Egli dice nel cuore:
— Ti lodo. Fortuna!
III
Nel mondo a te piacque gettare
tuo figlio, terribile e gaia,
siccome al fanciullo, nel mare,
la ghiaia
che sbalzi su l’onde.
Ma tutto m’hai dato a ch’io viva:
la mano, che regge la croce,
il piede, che mai non arriva,
la voce,
cui niuno risponde.
M’hai dato la dolce speranza
che arretra se il cuore s’avvia,
l’immemore cuore che avanza
su nave che scìa.
IV
Ho errato seguendo le foglie
che il vento sospinge per gioco,
sostando non più che alle soglie,
per poco,
tra l’ira dei cani.
Ho errato nel mondo sì bello,
seguito da un cupo latrato,
tendendo all’oblio del fratello
mutato
le simili mani.
Son giunto: alla tomba; che trova
contigua la querula cuna,
com’onda, ad ogni attimo nuova,
ritrova la duna.
Se a me non fu dato vederti
mai, ora non, avida ancora,
tentando le palpebre inerti,
lavora
la cieca pupilla.
Se non mi porgesti nè un sorso
di dolce, le fauci inquiete
non m’arde con vano rimorso
la sete
dell’ultima stilla.
Non vidi che nero, non bebbi
che fiele; ma ingrato non sono:
ti lodo per ciò che non ebbi;
che non abbandono.
VI
Non ebbi il superbo banchetto
tra quelli che aspettano al canto
le miche: e nè letto nè tetto,
tra tanto
di popolo nudo.
Non verso nell’ultimo istante
la lagrima vile a versarsi:
la prima! la sola! E le tante
ch’io sparsi,
con gli occhi le chiudo.
Io nudo, bussando alle porte,
ti dico, nell’ora che imbruna:
Di dolce sol ebbi la morte;
ma tutto è quest’una!
VII
Io t’amo pel freddo e lo stento,
l’insonnia, il digiuno, l’affanno,
cui devo che senza sgomento,
che fanno
ch’esperto io rimuoia.
Io t’amo perch’ora meschino
non chiedo, felice non rendo;
ma stanco del lungo cammino
discendo
senz’onta di gioia;
discendo laggiù tra le grame
mie genti, nel mondo che tace,
tra gli umili morti di fame
che dormono in pace —
VIII
Su l’orlo d’un lago nei monti,
fra stridulo ansare di grilli,
sul lago in cui, luna che monti,
scintilli,
c’è un nero, c’è un mucchio
di squallidi cenci e di membra,
c’è un uomo con gli occhi rivolti
nel lago, e che attonito sembra
che ascolti
l’eterno risucchio:
e simile a sogno di nulla,
nell’acqua c’è l’ombra sua bruna,
che appena si dondola e culla
nel lume di luna.
10 Agosto 1899