Canti (1831)/Bruto minore

VI. Bruto Minore

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A un vincitore nel pallone Alla primavera

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Poi che divelta, ne la tracia polve1
Giacque ruina immensa
L’italica virtute, onde a le valli
D’Esperia verde, e al tiberino lido,
5Il calpestio de’ barbari cavalli
Prepara il fato, e da le selve ignude
Cui l’Orsa algida preme,
A spezzar le romane inclite mura
Chiama i gotici brandi;
10Sudato, e molle di fraterno sangue,
Bruto per l’atra notte in erma sede,
Fermo già di morir, gl’inesorandi
Numi e l’averno accusa,
E di feroci note
15Invan la sonnolenta aura percote.

     Stolta virtù, le cave nebbie, i campi
De l’inquiete larve

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Son le tue scole, e ti si volge a tergo
Il pentimento. A voi, marmorei numi,
20(Se numi avete in Flegetonte albergo
O su le nubi) a voi ludibrio e scherno
È la prole infelice
A cui templi chiedeste, e frodolenta
Legge al mortale insulta.
25Dunque tanto i celesti odii commove
La terrena pietà? dunque de gli empi
Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
Per l’aere il nembo, e quando
Il tuon rapido spingi,
30Ne’ giusti e pii la sacra fiamma stringi?

     Preme il destino invitto e la ferrata
Necessità gl’infermi
Schiavi di morte: e se a cessar non vale
Gli oltraggi lor, de’ necessarii danni
35Si consola il plebeo. Men duro è ’l male
Che riparo non ha? dolor non sente
Chi di speranza è nudo?
Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
Teco il prode guerreggia,
40Di cedere inesperto; e la tiranna
Tua destra, allor che vincitrice il grava,

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Indomito scrollando si pompeggia,
Quando ne l'alto lato
L’amaro ferro intride,
45E maligno a le nere ombre sorride.

     Spiace a gli Dei chi violento irrompe
Nel Tartaro. Non fora
Tanto valor ne’ molli eterni petti.
Forse i travagli nostri, e forse il cielo
50I casi acerbi e gl’infelici affetti
Giocondo a gli ozi suoi spettacol pose?
Non fra sciaure e colpe,
Ma libera ne’ boschi e pura etade
Natura a noi prescrisse,
55Reina un tempo e Diva. Or poi ch’a terra
Sparse i regni beati empio costume,
E ’l viver macro a nove leggi addisse;
Quando gl’infausti giorni
Virile alma ricusa,
60Riede natura, e ’l non suo dardo accusa?

     Di colpa ignare e di lor proprii danni
Le fortunate belve
Serena adduce al non previsto passo
La tarda età. Ma se spezzar la fronte

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65Ne’ rudi tronchi, o da montano sasso
Dare al vento precipiti le membra,
Lor suadesse affanno;
Al misero desio nulla contesa
Legge arcana farebbe
70O tenebroso ingegno. A voi, fra quante
Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
Figli di Prometéo, la vita increbbe;
A voi le morte ripe,
Se ’l fato ignavo pende,
75Soli, o miseri, a voi Giove contende.

     E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
Candida luna, sorgi,
E l’inquieta notte e la funesta
A l’ausonio valor campagna esplori.
80Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, da le somme vette
Roma antica ruina;
Tu sì placida sei? Tu la nascente
Lavinia prole, e gli anni
85Lieti vedesti, e i memorandi allori;
E tu su l’alpe l’immutato raggio
Tacita verserai quando ne’ danni
Del servo italo nome,

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Sotto barbaro piede
90Rintronerà quella solinga sede.

     Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
E la fera e l’augello,
Del consueto obblio gravido il petto,
L’alta ruina ignora e le mutate
95Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre,
Al mattutino canto
Quel desterà le valli, e per le balze
Quella l’inferma plebe
100Agiterà de le minori belve.
Oh casi! oh gener frale! abbietta parte
Siam de le cose; e non le tinte glebe,
Non gli ululati spechi
Turbò nostra sciaura,
105Nè scolorò le stelle umana cura.

     Non io d’Olimpo o di Cocito i sordi
Regi, o la terra indegna,
E non la notte moribondo appello;
Non te, de l’atra morte ultimo raggio,
110Conscia futura età. Sdegnoso avello
Placàr singulti, ornàr parole e doni

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Di vil caterva? In peggio
Precipitano i tempi; e mal s’affida
A putridi nepoti
115L’onor d’egregie menti e la suprema
De’ miseri vendetta. A me dintorno
Le penne il bruno augello avido roti;
Prema la fera, o ’l nembo
Tratti l’ignota spoglia;
120E l’aura il nome e la memoria accoglia.

Note

  1. [p. 69 modifica]Si usa qui la licenza usata da parecchi scrittori antichi, di attribuire alla Tracia la città e la battaglia di Filippi, che veramente furono nella Macedonia.