Caccia e Rime (Boccaccio)/Rime/XLVII

XLVII. Se io potessi creder ch’in cinqu’anni

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XLVII.


Se io potessi creder ch’in cinqu’anni,
     Che gli è che vostro fui1, tanto caluto

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     Di me vi fosse, che aver saputo
     Il nome mio voleste2, de’ mia danni
     Per ristorato avermi, de’ mia affanni5
     Potrei forse sperare anchora aiuto;
     Né mi parrebbe il tempo aver perduto
     A condolermi de’ mia stessi inganni.
Ma poi che gli è così, come sperare
     Posso merzé? come fin all’ardore,10

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     Che, quanto meno spero, è più cocente?
     So3 si dovria cotal amor lasciare;
     Ma, non potendo, moro di dolore,
     Cagion essendo voi del fin dolente.


Note

  1. I cinque anni, passati da quando il Boccacci poté dir alla Fiammetta d’esser ‘suo’, non vanno computati a partire dal giorno in cui egli collocò il solenne innamoramento nella chiesa di San Lorenzo, ossia dal 30 marzo 1336: in tal caso arriveremmo all’anno 1341, ch’è invece fuor di questione, perché in esso lo scrittore dimorava certamente in Firenze. Con tutta probabilità, il termine da cui questi si rifaceva va arretrato di sedici mesi da quel 30 marzo, e dev’essere identificato col fatto reale che il fervido narratore adombrò sotto le fantastiche sembianze di una visione-presagio nel racconto, messo in bocca alla Fiammetta, degli amori di Caleone (Ameto). In questo passo, Caleone — sotto il cui nome si nasconde, è notorio, lo stesso Giovanni — ricorda alla sua amata come gli apparissero due donzelle che menavano tra loro una terza di graziosissimo aspetto, vestita di verde (la Fiammetta), e, mostrandola a lui, dicessero: ‘ecco colei... che sola fia donna della tua mente, e per la quale le tue virtù in esperienza le loro forze porranno’. Sotto questi particolari fantastici non mi par dubbio che lo scrittore celasse un avvenimento reale ch’egli, nelle proprie confidenze alla donna del suo cuore, doveva rappresentar come il principio della sua amorosa soggezione. E poiché da quel sogno all’incontro in chiesa — così c’informa l’Ameto — passarono sedici mesi, converrà risalire al novembre-dicembre 1334, e di qui prender le mosse per contare i cinque anni di cui parla il sonetto, i quali si verrebbero a compiere nel novembre-dicembre 1339. Ma non v’è alcun bisogno di spiegare l’espressione come indicante proprio cinque anni compiuti: così che, da ultimo, possiamo assegnare il presente componimento anche ad uno dei primi mesi di quell’anno 1339. Troveremo un’altra indicazione cronologica, analoga a quella di cui ora s’è discusso, nel son. Se io potessi lo specchio tenere dell’appendice.
  2. L’espressione è leggermente iperbolica. ‘Nel sonetto il Poeta non dice già che Maria non conosceva punto il nome di lui, ma che essa era tanto fredda verso di lui che non aveva mai dimostrato interesse (voleste) nemmeno di saperlo; nel che c’è una bella differenza; perché non ne è escluso che, a malgrado di questa sua indifferenza, quel nome arrivasse alle sue orecchie’ (Della Torre, op. cit., p. 203).
  3. È sottintesa, al solito, la congiunzione che.