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Rime | 83 |
XLVI.
Quante fiate indrieto mi rimiro
Et veggio l’hore e i giorni e i mesi et gli anni
Ch’io ò perduto seguendo gl’inganni
Della folle speranza et del desiro,
Veggio il pericol corso et il martiro5
Sofferto invan in gli amorosi affanni,
Né trovar credo che1 di ciò mi sganni:
Tanto ne piango et contro a me m’adiro.
Et maledico il dì che prima vidi
Gli occhi spietati, che Amor guidaro10
Pe’ miei nel cor, che lasso et vinto giace.
O crudel morte, perché non m’uccidi?
Tu sola puoi il mio dolor amaro
Finire et pormi forse in lieta pace.
XLVII.
Se io potessi creder ch’in cinqu’anni,
Che gli è che vostro fui2, tanto caluto
- ↑ «Cosa che.»
- ↑ I cinque anni, passati da quando il Boccacci poté dir alla Fiammetta d’esser ‘suo’, non vanno computati a partire dal giorno in cui egli collocò il solenne innamoramento nella chiesa di San Lorenzo, ossia dal 30 marzo 1336: in tal caso arriveremmo all’anno 1341, ch’è invece fuor di questione, perché in esso lo scrittore dimorava certamente in Firenze. Con tutta probabilità, il termine da cui questi si rifaceva va arretrato di sedici mesi da quel 30 marzo, e dev’essere identificato col fatto reale che il fer-