Bruto Primo (Alfieri, 1946)/Atto secondo
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ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Bruto, Tito.
tutti i patrizj pel consesso augusto.
Giá l’ora quarta appressa; intera Roma
tosto a’ tuoi cenni avrai. Mi cape appena
entro la mente attonita il vederti
signor di Roma quasi...
Bruto Di me stesso
signor me vedi, e non di Roma, o Tito:
né alcun signor mai piú saravvi in Roma.
Io lo giurai per essa: io che finora
vil servo fui. Tal mi vedeste, o figli,
mentre coi figli del tiranno in corte
io v’educava a servitú. Tremante
padre avvilito, a libertá nudrirvi
io nol potea: cagione indi voi siete,
voi la cagion piú cara, ond’io mi abbelli
dell’acquistata libertá. Gli esempli
liberi e forti miei, scorta e virtude
saranvi omai, piú che il servir mio prisco
non vel fosse a viltá. Contento io muojo
per la patria quel dí che in Roma io lascio
fra cittadini liberi i miei figli.
Tito Padre, all’alto tuo cor, che a noi pur sempre
di quel che immenso la fortuna or t’apre.
Deh possiam noi nella tua forte impresa
giovarti! Ma, gli ostacoli son molti,
e terribili sono. È per se stessa
nobil cosa la plebe: oh quanti ajuti
ai Tarquinj ancor restano!...
Bruto Se nullo
ostacol piú non rimanesse, impresa
lieve fora, e di Bruto indi non degna:
ma, se Bruto gli ostacoli temesse,
degno non fora ei di compirla. — Al fero
immutabil del padre alto proposto,
tu il giovenile tuo bollore accoppia;
cosí di Bruto, e in un di Roma figlio,
Tito, sarai. — Ma il tuo german si affretta...
Udiam quai nuove ei reca.
SCENA SECONDA
Tiberio, Bruto, Tito.
mai non potea nel foro in miglior punto
incontrarti. Di gioja ebro mi vedi:
te ricercava. — Ansante io son, pel troppo
ratto venir: da non mai pria sentiti
moti agitato, palpitante, io sono.
Visti ho dappresso i rei Tarquinj or ora;
e non tremai...
Tito Che fu?
Bruto Dove?...
Tiberio Convinto
con gli occhi miei mi son, ch’egli è il tiranno
l’uom fra tutti il minore. Il re superbo,
coll’infame suo Sesto, udita appena
e a sciolto fren ver la cittá correa
con stuolo eletto: e giunti eran giá quivi
presso alla porta Carmentale...
Tito Appunto
v’eri tu a guardia.
Tiberio Oh me felice! io ’l brando
contro ai tiranni, io lo snudai primiero. —
Munita e chiusa la ferrata porta
sta: per difesa, alla esterior sua parte,
io con venti Romani, in sella tutti,
ci aggiriamo vegliando. Ecco il drappello,
doppio del nostro almen, ver noi si addrizza,
con grida, urli, e minacce. Udir, vederli,
ravvisargli, e co’ ferri a loro addosso
scagliarci, è un solo istante. Altro è l’ardire,
altra è la rabbia in noi: tiranni a schiavi
credean venir; ma libertade e morte
ritrovan ei de’ nostri brandi in punta.
Dieci e piú giá, morti ne abbiamo; il tergo
dan gli altri in fuga, ed è il tiranno il primo.
Gl’incalziamo gran tempo; invano; han l’ali.
Io riedo allora all’affidata porta;
e, caldo ancor della vittoria, ratto
a narrartela vengo.
Bruto Ancor che lieve,
esser de’ pur di lieto augurio a Roma
tal principio di guerra. Avervi io parte
voluto avrei; che nulla al pari io bramo,
che di star loro a fronte. Oh! che non posso
e in foro, e in campo, e lingua, e senno, e brando,
tutto adoprare a un tempo? Ma, ben posso,
con tai figli, adempir piú parti in una.
Tiberio Altro a dirti mi resta. Allor che in fuga
ebbi posti quei vili, io, nel tornarne
verso le mura, il suon da tergo udiva
volgomi addietro, ed ecco a noi venirne
del tirannico stuolo un uom soletto:
nuda ei la destra innalza; inerme ha il fianco;
tien con la manca un ramoscel d’olivo,
e grida, e accenna: io mi soffermo, ei giunge;
e in umil suon, messo di pace, ei chiede
l’ingresso in Roma. A propor patti e scuse
viene a Bruto, e al senato...
Bruto Al popol, dici:
che, o nulla è Bruto; o egli è del popol parte.
Ed era il messo?...
Tiberio Egli è Mamilio: io ’l fea
ben da’ miei custodir fuor della porta;
quindi a saper che far sen debba io venni.
Bruto Giunge in punto costui. Non piú opportuno,
né piú solenne il dí potea mai scerre
per presentarsi de’ tiranni il messo.
Vanne; riedi alla porta, il cerca, e teco
tosto lo adduci. Ei parlerá, se l’osa,
a Roma tutta in faccia: e udrá risposta
degna di Roma, io spero.
Tiberio A lui men volo.
SCENA TERZA
Bruto, Tito.
fa che nel foro il piú eminente loco
a lor dia seggio. Ecco, giá cresce in folla
la plebe; e assai de’ senator pur veggo;
vanne; affrettati, o Tito.
SCENA QUARTA
Bruto, Popolo, Senatori, e Patrizj,
che si van collocando nel foro.
scrutator dei piú ascosi umani affetti;
tu che il mio cor vedi ed infiammi; o Giove,
massimo, eterno protettor di Roma;
prestami, or deh! mente e linguaggio e spirti
alla gran causa eguali... Ah! sí, il farai;
s’egli è pur ver, che me stromento hai scelto
a libertá, vero e primier tuo dono.
SCENA QUINTA
Bruto salito in ringhiera, Valerio, Tito,
Popolo, Senatori, Patrizj.
a dar dell’opre mie conto severo.
Ad una voce mi assumeste or dianzi
con Collatino a dignitá novella
del tutto in Roma: ed i littori, e i fasci,
e le scuri (fra voi giá regie insegne)
all’annual nostro elettivo incarco
attribuir vi piacque. In me non entra
per ciò di stolta ambizíone il tarlo:
d’onori, no, (benché sien veri i vostri)
ebro non son: di libertade io ’l sono;
di amor per Roma; e d’implacabil fero
abborrimento pe’ Tarquinj eterno.
Sol mio pregio fia questo; e ognun di voi
me pur soverchj in tale gara eccelsa;
ch’altro non bramo.
Popolo Il dignitoso e forte
tutto, sí, tutto in te ci annuncia il padre
dei Romani, e di Roma.
Bruto O figli, dunque;
veri miei figli, (poiché a voi pur piace
onorar me di un tanto nome) io spero
mostrarvi in breve, ed a non dubbie prove,
ch’oltre ogni cosa, oltre a me stesso, io v’amo. —
Con molti prodi il mio collega in armi
uscito è giá della cittade a campo,
per incontrar, e in securtá raccorre
quei che a ragion diserte han le bandiere
degli oppressori inique. Io tutti voi,
plebe, e patrizj, e cavalieri, e padri,
nel foro aduno; perché a tutti innanzi
trattar di tutti la gran causa io stimo.
Tanta è parte or di Roma ogni uom romano,
che nulla escluder dal consesso il puote,
se non l’oprar suo reo. — Patrizj illustri;
voi, pochi omai dal fero brando illesi
del re tiranno; e voi, di loro il fiore,
senatori; adunarvi infra una plebe
libera e giusta sdegnereste or forse?
Ah! no: troppo alti siete. Intorno intorno,
per quanto io giri intenti gli occhi, io veggo
Romani tutti; e nullo havvene indegno,
poiché fra noi re piú non havvi. — Il labro
a noi tremanti e mal sicuri han chiuso
finora i re: né rimaneaci scampo:
o infami farci, assenso dando infame
alle inique lor leggi; o noi primieri
cader dell’ira lor vittime infauste,
se in voi l’ardir di opporci invan, sorgea.
Valer. Bruto, il vero tu narri. — A Roma io parlo
dei senatori in nome. — È ver, pur troppo!
Noi da gran tempo a invidíar ridotti
a dispregiar, piú ch’ogni reo, noi stessi;
che piú? sforzati, oltre il comune incarco
di servitú gravissimo, a tor parte
della infamia tirannica; ci femmo
minori assai noi della plebe; e il fummo:
né innocente parere al popol debbe
alcun di noi, tranne gli uccisi tanti
dalla regia empia scure. Altro non resta
oggi a noi dunque, che alla nobil plebe
riunir fidi il voler nostro intero;
né omai tentar di soverchiarla in altro,
che nell’odio dei re. Sublime, eterna
base di Roma, fia quest’odio sacro.
Noi dunque, noi, per gl’infernali Numi,
sul sangue nostro e quel dei figli nostri,
tutti il giuriam ferocemente, a un grido.
Popolo Oh grandi! Oh forti! Oh degni voi soltanto
di soverchiarci omai! La nobil gara
accettiam di virtú. Non che gl’iniqui
espulsi re, (da lor viltá giá vinti)
qual popol, quale, imprenderia far fronte
a noi Romani e cittadini a prova?
Bruto Divina gara! sovrumani accenti!...
Contento io moro: io, qual Romano il debbe,
ho parlato una volta; ed ho con questi
orecchi miei pure una volta udito
Romani sensi. — Or, poiché Roma in noi
per la difesa sua tutta si affida
fuor delle mura esco a momenti io pure;
e a voi giorno per giorno darem conto
d’ogni nostr’opra, o il mio collega, od io;
finché, deposte l’armi, in piena pace
darete voi stabil governo a Roma.
Popolo Romper, disfar, spegner del tutto in pria
tiranni fa d’uopo.
ed a null’altro, io capo. — Udir vi piaccia
un loro messo brevemente intanto:
in nome lor di favellarvi ei chiede.
Il credereste voi? Tarquinio, e seco
l’infame Sesto, ed altri pochi, or dianzi
fin presso a Roma a spron battuto ardiro
spingersi; quasi a un gregge vil venirne
stimando; ahi stolti! Ma, delusi assai
ne furo; a me l’onor dell’armi prime
furò Tiberio, il figliuol mio. Ne andaro
gl’iniqui a volo in fuga; all’arte quindi
dalla forza scendendo, osan mandarvi
ambasciator Mamilio. I patti indegni
piacevi udir quai sieno?
Popolo Altro non havvi
patto fra noi, che il morir loro, o il nostro.
Bruto Ciò dunque egli oda, e il riferisca.
Popolo A noi
venga su dunque il servo nunzio; i sensi
oda ei di Roma, e a chi l’invia li narri.
SCENA SESTA
Bruto, Tito, Tiberio, Mamilio, Valerio,
Popolo, Senatori, Patrizj.
quanto intorno ti sta. Cresciuto in corte
de’ Tarquinj, tu Roma non hai visto:
mirala; è questa. Eccola intera, e in atto
di ascoltarti. Favella.
Mamil. ... Assai gran cose
dirti, o Bruto, dovrei: ma, in questo immenso
consesso,... esporre... all’improvviso...
Bruto Ad alta
annunziator di regj cenni, ai padri,
alla plebe gli esponi: in un con gli altri,
Bruto anch’egli ti ascolta.
Popolo A tutti parla;
e udrai di tutti la risposta, in brevi
detti, per bocca del gran consol Bruto.
Vero interprete nostro egli è, sol degno
di appalesar nostr’alme. Or via, favella;
e sia breve il tuo dire: aperto e intero
sará il risponder nostro.
Bruto Udisti?
Mamil. Io tremo.
— Tarquinio re...
Popolo Di Roma no.
Mamil. — Di Roma
Tarquinio amico, e padre...
Popolo Egli è di Sesto
l’infame padre, e non di noi...
Bruto Vi piaccia,
quai che sian i suoi detti, udirlo in pieno
dignitoso silenzio.
Mamil. — A voi pur dianzi
venía Tarquinio, al primo udir che Roma
tumultuava; e inerme, e solo ei quasi,
securo appien nella innocenza sua,
e nella vostra lealtá, veniva:
ma il respingeano l’armi. Indi ei m’invia
messaggero di pace; e per me chiede,
qual è il delitto, onde appo voi sí reo,
a perder abbia oggi ei di Roma il trono
a lui da voi concesso...
Popolo Oh rabbia! Oh ardire!
Spenta è Lucrezia, e del delitto ei chiede?...
Mamil. Fu Sesto il reo, non egli...
Tiberio E Sesto, al fianco
e se con lui volto non era in fuga,
voi quí il vedreste.
Popolo Ah! perché in Roma il passo
lor si vietò? giá in mille brani e in mille
fatti entrambi gli avremmo.
Mamil. — È ver, col padre
Sesto anco v’era: ma Tarquinio stesso,
piú re che padre, il suo figliuol traea,
per sottoporlo alla dovuta pena.
Bruto Menzogna è questa, e temeraria, e vile;
e me pur, mal mio grado, a furor tragge.
Se, per serbarsi il seggio, il padre iniquo
svenar lasciasse anco il suo proprio figlio,
forse il vorremmo noi? La uccisa donna
ha posto, è vero, al soffrir nostro il colmo:
ma, senz’essa, delitti altri a migliaja
mancano al padre, ed alla madre, e a tutta
la impura schiatta di quel Sesto infame?
Servio, l’ottimo re, suocero e padre,
dal scelerato genero è trafitto;
Tullia, orribile mostro, al soglio ascende
calpestando il cadavero recente
dell’ucciso suo padre: il regnar loro
intesto è poi di oppressíoni e sangue;
i senatori e i cittadin svenati;
spogliati appieno i non uccisi; tratto
dai servigi di Marte generosi,
(a cui sol nasce il roman popol prode)
tratto a cavar vilmente e ad erger sassi,
che rimarranno monumento eterno
del regio orgoglio e del di lui servaggio:
ed altre, ed altre iniquitá lor tante:...
quando mai fin, quando al mio dir porrei,
se ad uno ad uno annoverar volessi
de’ Tarquinj i misfatti? Ultimo egli era,
né la loro empietá, né il soffrir nostro.
Popolo L’ultimo è questo; ah! Roma tutta il giura...
Valer. Il giuriam tutti: morti cadrem tutti,
pria che in Roma Tarquinio empio mai rieda.
Bruto — Mamilio, e che? muto, e confuso stai?
Ben la risposta antiveder potevi.
Vanne; recala or dunque al signor tuo,
poich’esser servo all’esser uom preponi.
Mamil. — Ragioni molte addur potrei;... ma, niuna...
Popolo No; fra un popolo oppresso e un re tiranno,
ragion non havvi, altra che l’armi. In trono,
pregno ei d’orgoglio e crudeltade, udiva,
udiva ei forse allor ragioni, o preghi?
Non rideva egli allor del pianger nostro?
Mamil. — Dunque, omai piú felici altri vi faccia
con miglior regno. — Ogni mio dire in una
sola domanda io stringo. — Assai tesori
Tarquinio ha in Roma; e son ben suoi: fia giusto,
ch’oltre l’onore, oltre la patria e il seggio,
gli si tolgan gli averi?
Popolo — A ciò risponda
Bruto per noi.
Bruto Non vien la patria tolta
dai Romani a Tarquinio: i re non hanno
patria mai; né la mertano: e costoro
di roman sangue non fur mai, né il sono.
L’onor loro a se stessi han da gran tempo
tolto essi giá. Spento è per sempre in Roma
e il regno, e il re, dal voler nostro; il seggio
preda alle fiamme, e in cener vil ridotto;
né di lui traccia pure omai piú resta.
In parte è ver, che i loro avi stranieri
seco in Roma arrecar tesori infami,
che, sparsi ad arte, ammorbatori in pria
fur dei semplici nostri almi costumi;
sudore e sangue: onde i Romani a dritto
ben potrian ripigliarseli. — Ma, Roma
degni ne stima oggi i Tarquinj soli;
e a lor li dona interi.
Popolo Oh cor sublime!
Un Nume, il genio tutelar di Roma
favella in Bruto. Il suo voler si adempia...
Abbia Tarquinio i rei tesori...
Bruto Ed esca
coll’oro il vizio, e ogni regal lordura. —
Vanne Mamilio; i loro averi aduna,
quanto piú a fretta il puoi: custodi e scorta
a ciò ti fian miei figli. Ite voi seco.
SCENA SETTIMA
Bruto, Popolo, Valerio, Senatori, Patrizj.
dovriasi, parmi; e uscire in armi a campo.
Vediam, vediam, s’altra risposta forse
chiederci ardisce or di Tarquinio il brando.
Popolo Ecco i tuoi scelti, a tutto presti, o Bruto.
Bruto Andiam, su dunque, alla vittoria, o a morte.