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Sul Moncenisio 247


Ma, lungo l’erta formidabile, la natura anche sorride. Sui margini della via è una festa di fiori che aspettano il sole, velato dalla nebbia pesante. I fiorellini dei myosotis e le campanule delle genziane hanno l’azzurro delicato che il cielo ci nega e gli astri e i garofani selvatici colla gaiezza dei colori ci dicono che quassù non è poi tutto melanconia, e che presso le ire e i sospetti degli uomini fioriscono almeno gli amori delle piante.

Poichè quassù il sospetto è da per tutto. Siamo sul confine. La fotografia è interdetta, il cannocchiale è tenuto come arma insidiosa e il segnare pochi sgorbi sopra un foglio espone al rischio della galera. Quando, in un nevaio, sotto la croce della Nunda, sedemmo a colazione, apparve subito sopra di noi il berretto di un carabiniere. L’autorità ci sorvegliava.

Il lago del Moncenisio che ha così strani riflessi di acciaio brunito, specchiava nell’acqua immobile i severi profili della montagna e il silenzio era profondo, quando, ad un tratto, il tuono di una cannonata rimbombò dal basso e si ripercosse, brontolando lungamente, nell’eco dell’alpe. Una nuvoletta di fumo bianco apparve nella gola del colle e alcuni squilli di tromba ci giunsero chiari. Perchè?

Certo, questa è la via dell’invasione e di qui calarono in Italia, forse Annibale, e, senza dubbio, Pipino e Carlomagno. La strada stessa fu costruita per questo e l’abbozzò prima il Catinat e la finì poi Napoleone. Ma è strano, è doloroso che al principiare del secolo ventesimo, in piena pace, due