Ben Hur/Libro Quinto/Capitolo XII
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Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
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CAPITOLO XII.
Il Circo di Antiochia sorgeva sulla sponda destra del fiume, quasi dirimpetto al Palazzo e non differiva sostanzialmente da tutti gli altri edifici del genere.
I giuochi erano, nel vero senso della parola, un dono fatto al popolo; l’entrata era quindi libera a tutti, e, vasta com’era la capacità dell’anfiteatro, la gente ebbe tanta paura di non ottenervi un posto, che, fin dalle prime ore del giorno precedente ai giuochi, aveva occupato tutte Ie adiacenze del Circo, le quali presentavano l’aspetto di un grande attendamento militare.
A mezzanotte furono spalancati i cancelli, e la plebaglia si gettò attraverso le porte occupando rapidamente i posti a lei assegnati. Solo un terremoto o l’assalto di un esercito avrebbe potuto smuoverla di là. Passò la notte dormendo sulle gradinate, fece colazione su di esse, e aspettò pazientemente il principio dello spettacolo.
Verso la prima ora del giorno cominciarono ad arrivare i borghesi più agiati, che avevano posti numerizzati, i più ricchi e più nobili fra di essi a cavallo o portati in lettiga con seguiti di domestici in livrea.
All’ora seconda, la via conducente dalla città al Circo presentava l’aspetto di un vero fiume di persone.
Quando l’indice dell’orologio a sole nella cittadella segnava trascorsa la prima metà dell’ora seconda, la legione in grande tenuta, con lutti i suoi stendardi ed insegne, discese dal monte Sulpio, e, quando l’ultima fila dell’ultima coorte sparì dall’altra parte del ponte, Antiochia si poteva dire letteralmente abbandonata; non già che il Circo potesse contenere tutta la moltitudine, ma ciò non ostante tutta la moltitudine era andata al Circo.
Una galera riccamente addobbata andò a prendere il Console nell’isola, e quando il grande personaggio discese allo scalo, e la legione presentò le armi, per un istante la pompa militare fece dimenticare agli spettatori la maggiore attrattiva del Circo.
All’ora terza l’Anfiteatro poteva dirsi completamente riempito; uno squillo di fanfara ordinò ì silenzio, e tosto gli sguardi di oltre centomila persone si fissarono sopra un edificio del lato orientale dello stadio. Quivi sorgeva la celebre Porta Pompae, un arco poderoso che reggeva la tribuna consolare, magnificamente adorna di vessilli e di fiori, dove, circondato dalle insegne della legione, siedeva il console Massenzio. A destra e sinistra dell’arco, a livello del suolo, si aprivano i carceres, o stalli, ciascuno difeso da un proprio cancello. Sopra gli stalli correva una cornice, coronata da una bassa balaustrata; quindi si alzavano, una sopra l’altra, le ampie gradinate di marmo, occupate da una splendida folla di alti dignitari militari e borghesi. Questa mole occupava tutta la larghezza dell’edificio del Circo, ed era fiancheggiata da torri, le quali, pure aggiungendo grazia all’architettura dell’edificio, servivano di punto d’appoggio ai velaria, o grandi tende purpuree, tese dall’una all’altra di esse, e che gettavano un’ombra piacevolissima sopra l’augusta assemblea della tribuna.
S’immagini ora il lettore di appartenere ai favoriti che siedono in questo posto privilegiato. A destra e a sinistra, sotto le due torri, vedrà le due entrate principali. Immediatamente sotto di lui si stende l’arena, coperta di sabbia finissima e bianca. Nel centro dell’arena corre un muro largo dieci o dodici piedi, alto cinque o sei, e lungo precisamente cento ottanta metri, o uno stadio Olimpico. Ad entrambi i capi di questo muro, lasciando solo un breve intervallo occupato da un altare, sorgono sopra piedestalli di marmo tre tozzi pilastri conici di pietra grigia, riccamente scolpiti. Queste sono le due mète, intorno alle quali gireranno i contendenti. I corridori entreranno sulla pista alla destra della mèta più vicina, e avranno il muro sempre alla loro sinistra. Principio e termine della gara hanno luogo di faccia alla tribuna Consolare, e per questa ragione quelli sono i posti più ricercati del Circo. Il limite esteriore della pista è segnato da un muro liscio, solido, dell’altezza di circa quindici piedi, terminato da una balaustrata come quella sopra i carceres. Se seguiamo la curva di questo balcone, la troveremo interrotta in tre punti, dove si aprono altrettante porte, due a nord, ed una ad ovest; quest’ultima adorna di magnifiche sculture e bassorilievi, è chiamata la Porta del Trionfo, perchè, a giuochi finiti, i vincitori passeranno sotto il suo arco, il capo coronato di lauro, e accompagnati da un corteo trionfale.
Immediatamente dietro alla balaustrata laterale ascendono in lunghe file parallele, e sovrapposte l’una all’altra, i banchi degli spettatori, offrendo uno spettacolo curioso ed imponente, quello di una smisurata massa di popolo, in vesti diverse e variopinte. Erano questi i posti popolari, non coperti da alcuna tenda, privilegio esclusivo della tribuna.
Avendo ora sott’occhio tutto il complesso del Circo, s’immagini il lettore il profondo silenzio tenuto dietro allo squillo delle trombe, doppiamente avvertibile dopo il vocìo e il frastuono che lo avevano preceduto, durante il quale gli sguardi della moltitudine erano concentrati tutti quanti sulla Porta Pompae.
Da questa procede un suono di voci e di strumenti, e subito appare il coro della processione con la quale s’apre lo spettacolo. Prima il prefetto e le autorità civiche, padrone della festa, in ampie vesti e con ghirlande sul capo; poi le immagini degli Dei, alcune su piattaforme portate sulle spalle da schiavi, altre su grandi carri, splendidamente addobbati; poi ancora i contendenti nei singoli giuochi, ciascuno nel suo costume caratteristico.
Attraversando lentamente l’Arena, la processione comincia a fare il giro del circuito. Lo spettacolo è magnifico, imponente. Come un’onda che s’ingrossa a mano a mano, la precede un coro di esclamazioni, esprimenti curiosità e ammirazione. Se i fantocci di carta rappresentanti gli Dei se ne stanno impassibili e silenziosi, il direttore dei giuochi e le autorità non si mostrono insensibili alla voce del plauso popolare. Sorridono e si inchinano a destra e a sinistra.
Gli atleti sono ricevuti con favore ancora più rumoroso, perchè non v’è uno fra i centosettantamila spettatori che non abbia scommesso un siclo od un denario sopra uno dei campioni. I nomi dei favoriti corrono di labbro in labbro, e ghirlande e fiori sciolti piovono dalla tribuna e dalle gradinate. Ma se gli atleti sono ricevuti con tali testimonianze d’ammirazione, che dire dell’ovazione fatta all’apparire delle quadriglie? allo splendore dei cocchi, alla grazia e alla bellezza dei cavalli, i guidatori aggiungono il fascino personale della loro apparenza. Le loro tuniche, corte, senza maniche, sono dei colori prescritti. Un cavaliere accompagna ogni cocchio, tranne quello di Ben Hur, che ha rifiutato questo onore — forse per diffidenza. Così pure gli altri hanno elmi sul capo; egli ha la testa scoperta. Al loro appressarsi gli spettatori si alzano in piedi sopra i banchi, e il clamore si fa altissimo, assordante; allo stesso tempo la pioggia dei fiori dalla balaustrata diventa un diluvio, e copre gli uomini, i cocchi, i cavalli. Ben presto appare evidente che alcuni dei guidatori sono più favoriti di altri, e a questa rivelazione tiene dietro l’altra, che ogni individuo del pubblico, uomini, donne, e fanciulli è fregiato dei colori di uno dei contendenti, più spesso in forma di nastro sul petto o nei capelli; ora il nastro è verde, ora giallo, ora azzurro, ma esaminando attentamente la moltitudine, si vede che i colori dominanti sono due: il bianco, e il misto porpora ed oro.
In una gara moderna, e in una assemblea come questa; che ha giuocato somme enormi sui singoli concorrenti, la preferenza sarebbe determinata dalla qualità dei cavalli e dalla abilità conosciuta dei guidatori; qui invece la nazionalità dettava le norme.
Se il Bizantino ed il Sidonio non avevano che un esiguo numero di aderenti, la ragione era da ricercarsi nel fatto che le loro città erano scarsamente rappresentate sui banchi. D’altra parte i Greci, quantunque assai numerosi, erano divisi fra il Corinzio e l’Ateniese, facendo uno sfoggio relativamente povero di colori verdi e gialli. Lo scarlatto ed oro di Messala non avrebbe avuto sorte migliore, se i cittadini di Antiochia, proverbialmente una razza di cortigiani e di parassiti, non avessero concesso il favore del loro appoggio ai Romani, adottando il colore da quelli preferito. Rimanevano la popolazione del contado, gli Ebrei, i Siri, gli Arabi, e questi, per solidarietà con Ben Hur ed Ilderim, per la fiducia che nutrivano nei cavalli dello sceicco, ma massimamente in odio al Romano, che essi speravano di vedere battuto ed umiliato, portavano il color bianco, e formavano il partito più rumoroso se non il più numeroso di tutti.
A mano a mano che i cocchi procedono sopra il percorso, l’eccitamento si accresce; alla seconda mèta, specialmente nelle gallerie, dove il bianco è il colore dominante, le grida del pubblico scrosciano altissime e i fiori piovono più fitti.
— «Messala! Messala!» —
— «Ben Hur! Ben Hur!» —
Tali sono le grida.
Passata la processione, le persone riprendono i loro posti e continuano i discorsi.
— «Ah, per Bacco! com’era bello!» — esclama una donna che il nastro nei capelli proclama del partito Romano.
— «E come è magnifico il suo cocchio!» — risponde un vicino del medesimo partito.
— «E’ tutto oro ed avorio. Giove gli conceda la vittoria!» —
Sul banco di dietro le opinioni erano diverse.
— «Cento sicli sopra l’Ebreo!» — gridò una voce stridula.
— «Non esser troppo temerario» — gli sussurra un amico. — «Questi giuochi sono vietati dalla legge e la maledizione del Signore potrebbe cadere sul figlio d’Israele.» —
— «E’ vero; ma hai tu veduto mai un portamento più sicuro o più disinvolto? E che braccio è il suo!» —
— «E che cavalli!» — dice un terzo.
— «E dicono ch’egli conosca tutti gli accorgimenti dei Romani» — aggiunge un quarto.
Una donna completa l’elogio:
— «Sì, ed egli è ancora più bello del Romano!» —
Incoraggiato da queste testimonianze l’uomo grida nuovamente: — «Cento sicli sopra l’Ebreo!» —
— «Cretino!» — gli grida un cittadino di Antiochia, dalla sicura distanza di parecchi banchi. — «Non sai che cinquanta talenti sono giuocati contro di lui, uno contro sei, su Messala. Nascondi i tuoi sicli se non vuoi che Abramo ti fulmini.» —
— «O asino di Antiochia! cessa di ragliare. Non sai tu che Messala ha scommesso contro se stesso?» —
Tale la risposta, astutamente bugiarda.
E così di banco in banco si moltiplicavano il vociare e le contese, non tutte pacifiche.
Quando finalmente la marcia fu terminata, e la Porta Pompae si chiuse sull’ultimo vessillifero, Ben Hur sapeva che il suo desiderio era esaudito.
Gli sguardi dell’Oriente erano fissati sopra la sua gara con Messala.