Ben Hur/Libro Quinto/Capitolo XIII
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Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
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CAPITOLO XIII.
Circa alle ore quindici, per parlare in stile moderno, la prima parte del programma era esaurita, non rimanendo che la gara dei cocchi. Il direttore scelse questo momento per fare una breve sosta. I vomitoria furono spalancati, e, tutti coloro che poterono, uscirono sotto il porticato esterno dove era disposto un servizio di rinfreschi. Quelli che rimanevano sbadigliavano, chiacchieravano, consultavano le loro tavolette, e liquidavano le scommesse; ogni distinzione di classe era dimenticata; la moltitudine era divisa in due grandi categorie; dei vincitori, allegri e rumorosi, e dei perdenti, accigliati e taciturni.
In questo mentre però una terza classe di spettatori, formata da cittadini desiderosi soltanto di vedere la corsa dei cocchi, approfittò dell’intervallo per entrare nel Circo ed occupare i suoi posti riservati, credendo in questo modo di sfuggire all’attenzione del pubblico. Fra questi erano Simonide e la sua compagnia, che cercavano i loro posti nella tribuna sul lato settentrionale, di faccia a quella consolare.
Quattro servitori portavano il negoziante nella sua sedia su per le scale, destando la viva curiosità degli spettatori. Qualcuno disse il suo nome. I vicini lo intesero e lo ripeterono di bocca in bocca. I più lontani si arrampicarono sui banchi per dare un occhiata all’uomo intorno al quale la diceria popolare aveva tessuto un romanzo miracoloso.
Ilderim pure fu accolto calorosamente; ma nessuno conosceva Balthasar e le due donne che lo seguivano, gelosamente velate.
La gente fece largo rispettosamente alla comitiva, e gli uscieri del Circo le assegnarono alcuni posti vicino alla balaustra, sui quali avevano fatto collocare scialli e cuscini.
Le donne erano Iras ed Ester.
Quest’ultima, appena seduta, diede uno sguardo spaventato intorno al Circo e si ravvolse ancor più dentro al velo; mentre l’Egiziana, lasciando scivolare il velo sopra le spalle, si offrì liberamente agli sguardi del pubblico, con la disinvoltura che solitamente è frutto di lunghe abitudini sociali.
I nuovi venuti erano ancora occupati nell’esame generale del magnifico spettacolo che si offriva dinanzi a loro, a principiare dal console e dai suoi vicini, quando alcuni uomini nella livrea del Circo, cominciarono a stendere una corda ingessata da balcone a balcone in faccia ai pilastri della prima mèta.
Allo stesso tempo sei uomini uscirono dalla Porta Pompae, e si fermarono davanti ai carceres, uno per ciascun stallo; al che un lungo mormorio corse per la folla.
— «Guarda, guarda! Il verde ha il numero quattro a destra; quello è l’Ateniese.» —
— «E Messala... — sì, egli ha il numero due,» —
— «Il Corinzio.» —
— «Guarda il bianco! Egli si ferma, al numero uno, a sinistra.» —
— «No, è il nero che si è fermato; il bianco è il numero due.» —
— «E’ vero.» —
Dobbiamo avvertire che ciascuno dei sei uomini indossava una tunica di color eguale a quello dei guidatori; cosicchè, quando essi si fermavano davanti ai cancelli, il popolo sapeva subito qual’era lo stallo del suo favorito.
— «Hai tu mai veduto Messala?» — chiese l’Egiziana, ad Ester.
L’Ebrea ebbe un tremito, e rispose di no. Egli era il nemico di suo padre, e di Ben Hur.
— «Egli è bello come Apollo.» —
Mentre Iras parlava i suoi grandi occhi scintillavano e il ventaglio si agitava violentemente. Ester la guardò, pensando:
— «Sarà egli più bello di Ben Hur?» —
Poi udì Ilderim dire a suo padre;
— «Sì, il suo stallo è il numero due, a sinistra della Porta Pompae;» — e credendo che egli parlasse di Ben Hur, essa guardò da quella parte. Una preghiera le sfiorò le labbra.
Di lì a poco sopraggiunse Samballat.
— «Vengo or ora dagli stalli, o sceicco,» — egli disse facendo un inchino grave, ad Ilderim, il quale si lisciava la barba nervosamente, e lo osservava con sguardo interrogativo. — «I cavalli sono in perfetto stato.» —
Ilderim rispose semplicemente: — «Se sono battuti, prego Iddio che lo siano da qualchedun’altro e non da Messala.» —
Volgendosi a Simonide, ed estraendo una tavoletta, Samballat proseguì: — Ti porto qualche cosa che ti interesserà. Ti ricorderai che, quando ieri sera ti recai la scrittura della prima scommessa, ti dissi che ne avevo lasciata un’altra sul tavolo del Palazzo, la quale, se, accettata, doveva venirmi consegnata prima della corsa. Eccola.» —
Simonide prese la tavoletta e lesse attentamente l’annotazione.
— «Lo so» — egli disse. — «Un loro emissario venne oggi da me chiedendo se tu fossi accreditato per una tal somma presso di me. Conserva bene la tavoletta. Se perdi, sai dove prendere il denaro; se vinci...» — le sue ciglia si corrugarono con una espressione di grande risolutezza — «se vinci, amico, bada, che nessuno ti sfugga, che paghino fino all’ultimo siclo. Questo si è quanto farebbero gli altri con noi.» —
— «Fidati in me.» — disse il fornitore.
— «Non vuoi sederti presso di noi?» — chiese Simonide.
— «Ti ringrazio» — rispose l’altro, — «ma se lascio il Console, chi frenerà i bollori della giovine Roma, là in fondo? La pace sia con te, e con voi tutti» —
Alcuni squilli di tromba risuonarono nel circo, annunciando la ripresa dello spettacolo, e chiamando gli assenti ai loro posti. Allo stesso tempo alcuni inservienti apparvero nell’arena, e arrampicandosi sopra il muro di divisione, infissero sopra i pali vicino alla meta occidentale sette sfere di legno indorato; poi, ritornando alla prima meta, vi misero altrettanti pezzi di legno scolpiti in forma di delfino.
— «Che cosa fanno con le sfere ed i pesci, o sceicco?» — chiese Balthasar.
— «Non hai mai assistito ad una corsa?» —
— «Mai.» —
— «Ebbene, essi servono per contare il numero dei giri; alla fine di ogni giro, una palla ed un pesce verranno tolti.» —
I preparativi erano terminati, e di lì a poco un trombettiere in uniforme vistosa si collocò presso il direttore, pronto ad un cenno di questi a dare il segnale. Subito l’agitarsi della moltitudine si acquetò, ed il vocìo ristette come per incanto. Ogni viso era rivolto ad oriente, ed ogni occhio si fissò sopra i sei stalli che racchiudevano i competitori.
Il rossore insolito che coprì le pallide guancie di Simonide rivelava che anch’egli condivideva l’eccitazione generale.
— «Attenti al Romano;» — disse la bella Egiziana ad Ester, che non la udì, perchè col cuore palpitante e gli occhi fissi aspettava Ben Hur.
Dobbiamo ricordare che l’edificio contenente gli stalli aveva la forma di un segmento di cerchio, e si protendeva innanzi a destra della prima mèta, segnato dalla corda gessata, di cui parlammo.
La tromba diede uno squillo acuto e prolungato. Gli starters, come li potremmo chiamare in linguaggio sportivo moderno, si schierarono sotto i pilastri della mèta, pronti ad aiutare i cocchieri nel caso che uno dei cavalli si spaventasse.
Un secondo squillo risuonò, e i custodi spalancarono i cancelli. Dapprima uscirono a cavallo i servitori, addetti ai cocchi, cinque in tutto, perchè Ben Hur aveva rifiutato il suo. La corda gessata fu lasciata cadere per dar loro il passo, poi rialzata. Quantunque splendidamente vestiti, nessuno badò a loro, perchè, dietro ad essi, negli stalli, il calpestìo dei cavalli e le voci dei cocchieri, attiravan tutti gli sguardi verso i cancelli spalancati.
Un terzo squillo risuonò nel circo.
Gli uscieri sulle gradinate agitarono le mani, e gridarono: — «Seduti! seduti!» —
Parlavano al vento.
Come proiettili, uscenti dalla bocca di giganteschi cannoni, si scagliarono le sei quadrighe, e tutta l’immensa moltitudine balzò in piedi come un sol uomo, riempiendo il Circo di un unico urlo. Per questo aveva atteso pazientemente tante ore! Questo era il momento supremo, sogno delle sue notti e argomento dei suoi discorsi dal giorno della proclamazione dei giuochi!
— «Eccolo, eccolo! guarda!» — esclamò Iras, indicando Messala.
— «Lo vedo.» — rispose Ester guardando Ben Hur.
Il velo era caduto; per un istante la piccola Ebrea si sentì coraggiosa. Essa comprese la voluttà di compiere un’azione eroica sotto agli occhi della moltitudine, e come in tali casi sia possibile che gli uomini ridano in faccia alla morte.
I competitori erano ora visibili da tutte le parti del Circo, ma la corsa non era ancora cominciata; dovevano prima passare la corda.
Questa aveva lo scopo di pareggiare le condizioni della partenza.
Se i corridori vi si fossero scagliati addosso impetuosamente, cocchiere e cavalli, impigliati in essa, potevano uscirne malconci; se d’altra parte si fossero avvicinati timidamente, correvano il rischio di rimaner distanziati già sull’inizio della corsa, e, in ogni modo, perdevano la possibilità di conquistare il lato interno della pista, oggetto dell’ambizione comune.
La difficoltà di quest’impresa, i suoi pericoli e le sue conseguenze, erano ben note agli spettatori. La vittoria doveva sorridere al più abile.
Dunque, o mio caro.
Tutti richiama al cor gli accorgimenti,
Se vuoi che il premio di tue man non sfugga:
L’arte, più che la forza, al fabbro, è buona.
Tale il consiglio di Nestore al figlio Archiloco, consegnandogli le redini, prima della corsa, consiglio che poteva utilmente essere richiamato da ciascuno degli auriga.
Ogni guidatore guardava per prima cosa la corda, poi il muro interno. Dimodochè, mirando al medesimo punto, e correndo a gran carriera, uno scontro sembrava inevitabile. Non solo. Se il direttore, all’ultimo momento, malcontento della partenza, non desse il segnale di lasciar cader la corda? O se non lo desse in tempo?
Lo spazio intermedio era di circa duecentocinquanta piedi in lunghezza. Guai se, suggestionato dagli sguardi delle migliaia di spettatori o attratto dall’esclamazione insidiosa di un avversario, o dal grido animatore, ma non meno pericoloso, di qualche amico, l’auriga avesse alzati gli occhi un istante! Fermo il polso, le pupille fisse, i guidatori avanzavano.
Il tocco divino che dà l’ultima perfezione alla bellezza, è l’animazione.
Che il lettore tenti di immaginarsi quello spettacolo, al quale i nostri tempi moderni non saprebbero contrapporre nulla di eguale: guardi dapprima l’arena, immensa distesa luccicante di sabbia bianca, chiusa nella sua cornice di mura grigie; veda su questo campo perfetto i sei cocchi leggeri, graziosi, rilucenti, — quello di Messala splendido di oro e d’avorio; guardi i guidatori, il loro corpo eretto, rigido, le membra nude e abbronzate; nella destra i lunghi flagelli, nella sinistra, accuratamente separate, le redini, tese fino all’estremità dei timoni; osservi i cavalli scelti per bellezza come per velocità, le criniere al vento, i corpi distesi, le narici tumide, le gambe fine ma robuste come verghe di ferro, ogni muscolo dei loro splendidi corpi, pieno di vita, ora teso, ora contratto, giustificando il mondo che ha preso da essi la sua unità di forza; veda le ombre, che accompagnando cocchi, auriga e cavalli, radono la terra; veda, con l’occhio della mente, tutto questo, e potrà comprendere il piacere e il delirio che invadeva la folla per la quale questo spettacolo non era vana creazione di fantasia, ma vera, palpitante realtà.
Tutte e sei le quadrighe correvano per la strada più breve verso il medesimo punto; il muro; cedere sarebbe stato come rinunciare alla vittoria. E chi avrebbe deviato in mezzo a quella pazza carriera, con le grida della moltitudine che gli tuonavano nell’orecchio come il rombo del mare in burrasca?
Il trombettiere presso il direttore diede uno squillo poderoso. — A venti passi di distanza nessuno lo udì. Ma vedendo l’atto, i giudici di campo lasciarono cadere la corda a pena in tempo per evitare il cocchio di Messala, nell’abbassarla, e toccarono lo zoccolo del suo primo cavallo. L’impavido Romano, agitò il flagello, che si snodò sibilando nell’aria, allentò le redini, tese il corpo in avanti, e con un grido di trionfo conquistò il muro.
— «Giove è con noi! Giove è con noi!» — urlò tutta la fazione Romana, in un delirio di entusiasmo.
Alla voltata, la testa di leone, con cui terminava il mozzo della sua ruota, urtò la gamba anteriore del cavallo dell’Ateniese, gettando l’animale spaventato addosso al suo vicino di giogo. Entrambi vacillarono, s’impennarono. I custodi balzarono innanzi e li afferrarono per le briglie. Le migliaia di persone sulle gradinate trattennero il respiro, attente; solo dalla tribuna consolare continuavano le grida e il clamore.
— «Giove è con noi!» — urlò Druso.
— «Egli vince! Giove è con noi!» — echeggiarono i suoi compagni, vedendo Messala alla testa del gruppo.
Samballat, con le sue tavolette in mano, si rivolse a loro. Un frastuono, seguito da grida strazianti lo obbligò a guardare nuovamente nell’arena. Messala essendo passato, il Corinzio era il solo che rimanesse alla destra dell’Ateniese, e in quella direzione quest’ultimo cercò di piegare la sua quadriglia spaventata; proprio in quel momento sventura volle che la ruota del Bizantino, suo vicino di destra, incontrasse di fianco il suo cocchio sbalzando l’auriga per terra. Con un urlo di rabbia e di terrore il misero Cleante cadde sotto le zampe dei propri cavalli; orribile spettacolo davanti al quale Ester si coprì gli occhi.
Il Corinzio, il Bizantino, il Sidonio passarono avanti.
Samballat diede uno sguardo a Ben Hur, e si volse nuovamente a Druso e ai suoi compagni.
— «Cento sesterzi sopra l’Ebreo!» — esclamò.
— «Accettato!» — rispose Druso.
— «Altri cento sull’Ebreo!» — gridò Samballat.
Nessuno gli badava. Gridò nuovamente; lo spettacolo dell’Arena assorbiva tutta la loro attenzione, ed essi erano troppo occupati ad urlare: — «Messala! Messala! Giove è con noi!» —
Quando Ester osò guardare nuovamente, alcuni servitori stavano rimovendo i cavalli e il carro frantumato, mentre altri portavano via l’auriga; da ogni banco su cui sedeva un Greco partivano urli di rabbia e preghiere di vendetta.
Essa giunse le mani per la felicità: Ben Hur, incolume volava al pari col Romano! Dietro a loro, in gruppo, venivano il Sidonio, il Corinzio e il Bizantino.
La corsa era incominciata. La moltitudine tratteneva il respiro.