Ben Hur/Libro Quinto/Capitolo III
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Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
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CAPITOLO III.
— «Iras, figlia di Balthasar, t’invia saluti e un messaggio» — disse un servitore a Ben Hur, che stava riposando nella sua tenda.
— «Dimmi il messaggio.» —
— «Ella chiede se tu vuoi accompagnarla in barca sul lago.» —
— «Le porterò io stesso la risposta. Grazie.» —
Gli furono recati i sandali, e, dopo qualche istante. Ben Hur uscì in cerca della bella Egiziana. L’ombra delle montagne andava strisciando sull’Orto delle Palme, precorrendo la notte. Da lontano, attraverso gli alberi, veniva il tintinnio di campane, il muggito degli animali, e le grida dei pastori che riconducevano a casa gli armenti. La vita all’Orto delle Palme era sotto ogni riguardo la vita semplice e pastorale degli Arabi nelle oasi del deserto.
Lo sceicco Ilderim, dopo avere assistito alle esercitazioni del pomeriggio, che furono una ripetizione di quelle del mattino, s’era recato in città a trovare Simonide, e, probabilmente, non sarebbe ritornato quella notte. Ben Hur, lasciato solo, aveva dato un’ultima occhiata ai cavalli, s’era lavato e vestito a nuovo, e, dopo aver cenato, stava riavendosi delle fatiche della giornata.
Non è saggiò nè onesto cercare di scemare importanza alla bellezza come qualità. Nessun’aninia elevata può sottrarsi al suo fascino. La storia di Pigmalione e della sua statua è poetica nella forma, ma ha la sua base nella natura umana. La bellezza è una potenza; e la sua forza trascinava Ben Hur.
L’Egiziana era per lui una donna meravigliosamente bella di forme. Egli la rivedeva come essa gli apparì la prima volta presso la fontana; e sentiva l’influenza della sua voce, dolce nelle sue espressioni di riconoscenza, subiva tutto l’incanto di quegli occhi grandi, neri, umidi, tagliati a mandorla, occhi eloquenti più della parola; vedeva la sua figura alta, snella, piena di grazia e di eleganza, avviluppata nelle ricche pieghe della sua veste, e pensava che se la mente fosse pari al corpo che l’albergava, ella sarebbe, veramente, come la Sulamita, e, nel medesimo senso, terribile come un’oste schierata in campo. E ogni qual volta la sua immagine gli si presentava davanti alla fantasia, tutta l’appassionata canzone di Salomone, veniva con lei, come ispirata dalla sua presenza. Con tali sentimenti egli voleva vedere se essa avrebbe giustificata l’impressione destata. Non era amore quello che egli provava, ma ammirazione e curiosità, che spesso sono gli araldi preannunciatori dell’amore.
L’approdo consisteva in una breve scala scendente al lago, e di una piattaforma illuminata da alcuni lampioni; giunto alla sommità dei gradini egli si arrestò, colpito da ciò che vide.
Una scialuppa riposava leggermente sulle onde come un guscio d’uovo che galleggi. Un Etiope, il guidatore del cammello alla fontana Castalia, sedeva al posto del rematore, vestito in bianchissimi lini che facevano risaltare ancor più l’ebano del suo viso. La poppa dell’inbarcazione era imbottita di cuscini e tappeti tinti col color rosso di Tiro. Al timone sedeva l’Egiziana medesima, sprofondata in una massa di scialli Indiani, cinta come da una nube di veli e di nastri delicati. Le sue braccia, nude fino alle spalle, di impeccabile purezza di linea, avevano un non so che di provocante nella posa, nei movimenti, nell’espressione; le mani tese e le dita erano dotate di una grazia eloquente e suggestiva. Le spalle e il collo erano difese contro l’aria serale da un ampio velo, che non riusciva però a celare le forme opulenti.
Nello sguardo che le rivolse. Ben Hur non afferrò tutti questi dettagli. Ebbe l’impressione confusa e deliziosa che l’insieme di essi produceva, e il suo cuore battè più veloce.
— «Vieni» — essa disse, vedendolo arrestarsi. — «Vieni, o dovrò credere che tu sia un povero marinaio.» —
Il rossore delle sue guancie si approfondì. Conosceva essa qualche cosa della sua vita di mare? Discese tosto sulla piattaforma.
— «Io temeva» — egli disse, sedendo al fianco di lei.
— «Di che?» —
— «Di affondare la barca» — egli rispose sorridendo.
— «Aspetta quando saremo in mezzo al lago» — diss’ella, facendo un segno all’Etiope, che tosto immerse i remi nell’acqua.
Se l’Amore e Ben Hur erano nemici, quest’ultimo non corse mai maggior pericolo di sconfitta. L’Egiziana sedeva presso a lui, ed egli non poteva fare a meno di guardarla, essa che già aveva richiamato alla sua mente l’ideale della Sulamita. Con quegli occhi fissi nei suoi, egli non avrebbe scorto le stelle che a poco a poco apparivano in cielo; la notte avrebbe potuto avvolgere ogni cosa; quegli sguardi avrebbero gettata una luce attraverso le tenebre più dense. E poi, chi non sa come conferiscano ai pensieri d’amore la tranquillità delle acque d’un lago, sotto la volta ingemmata del firmamento, in una tiepida notte d’estate, quando i cuori che battono l’uno appresso all’altro, sono giovani, e i cervelli pieni di sogni?» —
— «Dammi il timone» — egli disse.
— «No» — essa rispose — «questo sarebbe un mutar le parti. Io ti ho invitato, e tu sei mio ospite. Voglio cominciare a liquidare il debito che io ti devo. Tu puoi parlare e io ascolterò, oppure parlerò io e tu ascolta. Questa scelta spetta a te.
Io invece deciderò dove anderemo e che via dobbiamo tenere.» —
— «E dove andiamo?» —
— «Ecco che sei di nuovo spaventato.» —
— «O bella Egiziana, ho fatto la prima domanda naturale ad un prigioniero.» —
— «Chiamami Egitto.» —
— «Preferirei chiamarti Iras» —
— «Puoi pensarmi con quel nome, ma chiamami Egitto.» —
— «L’Egitto è un paese e comprende molti popoli.» —
— «Sì! Sì! e qual paese!» —
— «Ho capito; noi andiamo in Egitto.» —
— «Almeno vi andassimo davvero! Sarei felice.» —
Sospirò, così dicendo.
— «Non pensi affatto a me allora» — egli disse.
— «Ah, da ciò comprendo che tu non ci sei mai stato!» —
— «Non ci fui mai.» —
— «Oh, è una terra dove l’infelicità è ignota, meta e desiderio degli altri popoli, madre di tutti gli Dei, e quindi in sommo grado benedetta. Là, o figlio di Arrio chi è felice trova la sua felicità raddoppiata; la sventurato che attinge una volta all’acqua del sacro fiume, dimentica il suo dolore, e canta e ride come i fanciulli.» —
— «Non vivono poveri colà come altrove?» —
— «I poveri nell’Egitto hanno desiderii modesti e pochi bisogni,» — essa rispose. «Un Greco o un Romano non potrebbe comprenderli.» —
— «Ma io non sono nè Greco, nè Romano.» Egli protestò.
Essa rise.
— «Io ho un giardino di rose, e in mezzo ad esso sorge una pianta, e, suoi fiori vincono tutti gli altri. Da dove credi provenga quella pianta?» —
— «Dalla Persia patria delle rose?» —
— «No.» —
— «Dall’India allora» —
— «No.» —
— «Ah! da un’isola dell’Eliade.» —
— «Te lo dirò. Un viaggiatore la trovò languente e mezza morta lungo la via sulla pianura di Rephaim.» —
— «Oh, nella Giudea!» —
— «Io la piantai nella terra che il Nilo ritirandosi aveva lasciata scoperta, e dove il tiepido vento del sud poteva cullarla, e il sole baciarla; ed essa crebbe piena di gratitudine e di affetto. Ora mi seggo alla sua ombra, ed essa mi ringrazia col suo profumo. Come avviene delle rose, così è con gli uomini d’Israele. Dove potranno toccare la perfezione se non in Egitto?» —
— «Mosè fu uno fra mille.» —
— «No, ti dimentichi del grande interprete di sogni.» —
— «I Faraoni sono morti.» —
— «Ah sì! Il fiume, sulle sponde del quale abitavano, ora mormora le sue nenie presso le loro tombe. Ma il medesimo sole riscalda la stessa aria al medesimo popolo.» —
— «Alessandria altro non è che una città Romana.» —
— «Essa ha solo mutato scettro. Cesare le divelse la spada, e in suo luogo le lasciò il calice della sapienza. Vieni con me nel Bruccheio ed io ti mostrerò le scuole delle nazioni; al Serapeo, a vedere le meraviglie dell’architettura; alla Biblioteca per leggere i libri immortali; al Teatro per udire, i versi dei Greci e degli Indiani; al porto per ammirare i trionfi del commercio; discendi con me nelle strade, o figlio di Arrio, e quando i filosofi si saranno dispersi, e i maestri dell’arte saranno partiti, e gli Dei tornati ai loro altari, e del giorno che si spegne non rimarranno che i ricordi, tu udirai le storie che hanno dilettato l’umanità dalla sua culla, e i canti, che non morranno mai.» —
Mentre la ascoltava, Ben Hur corse col pensiero a quell’altra notte stellata, sulla terrazza della casa in Gerusalemme, quando sua madre, con Io stesso fervore poetico che il patriottismo dettava, predicava le tramontate glorie d’Israele.
— «Ora comprendo perchè vuoi essere chiamato Egitto. Vuoi cantarmi una canzone, se io ti chiamerò con quel nome? Io ti intesi cantare ier notte.» —
— «Era una canzone del Nilo.» — essa rispose. — «un lamento che io canto quando mi sembra di respirare il profumo del deserto, e il mormorio del vecchio fiume; piuttosto lascia che io ti canti qualche cosa di Indiano.
Quando verrai ad Alessandria ti condurrò sull’angolo di quella strada donde potrai udire cantare la figliuola del Gange che me l’apprese. Kapila, tu sai, fu uno dei più grandi sapienti dell’India.
Poi, come se il canto fosse la sua forma abituale di esprimersi, cominciò:
KAPILA.
Kapila, illustre eroe,
Fiore di gioventù,
Come potrò uguagliare,
Dimmi, la tua virtù?
Sorridendo rispose.
Frenando il corridor:
— Chi ama tutte cose
Non conosce timor.
Kapila, vecchio e bianco,
Pontificava all’aitar:
— Dimmi, la tua sapienza
Come potrò emular?
Kapila, vecchio e bianco
Disse con gravità:
— Chi ama Iddio soltanto
Tutte le cose sa. —
Ben Hur non ebbe, il tempo di esprimere la sua riconoscenza per la canzone, quando la chiglia della barca rasentò la sabbia, e la prua toccò terra.
— «Un viaggio corto, o Egitto!» — egli esclamò.
— «E un soggiorno ancora più breve!» — essa rispose, mentre un forte colpo di remi li rimandò di nuovo nell’acqua libera.
— «Ora mi darai il timone» — egli disse.
— «Oh no! A te il cocchio, a me la barca. Non siamo che a metà del lago. Hai rotto il patto e io non canterò più. Poichè siamo stati in Egitto, andiamo ora al boschetto di Dafne.» —
— «Senza un canto che ci allieti la via?» — egli supplicò.
— «Dimmi qualche cosa intorno al Romano dal quale oggi ci salvasti la vita.» — essa chiese.
La domanda sembrò spiacevole a Ben Hur.
— «Vorrei che questo fosse il Nilo» — egli disse, eludendo la domanda. — «I Re e le Regine, dopo aver dormito tanti anni, potrebbero uscire dalle loro tombe e viaggiare con noi.»
— «Appartenevano alla razza dei colossi e avrebbero affondata la barca. Preferirei dei pigmei. Ma parlami del Romano. Egli è molto cattivo, nevvero?» —
— «Non lo so.» —
— «È di nobile famiglia? È ricco?» —
— «Non posso parlare delle sue ricchezze.» —
— «Come erano belli i suoi cavalli! E il suo cocchio era d’oro, e le ruote d’avorio. E quale audacia! Gli spettatori risero quand’egli partì, — essi che per poco non sarebbero stati travolti sotto le zampe dei suoi cavalli!»
Essa rise al ricordo.
— «Era plebaglia» — disse Ben Hur con amarezza.
— «Egli deve essere uno di quei mostri che si dice crescano oggi in Roma, Apolli voraci come Cerberi. Vive in Antiochia?» —
— «Nell’Oriente.» —
— «L’Egitto gli converrebbe di più.» —
— «Ne dubito. Cleopatra è morta.
In quell’istante apparvero le lampade che ardevano davanti ai padiglioni di Ilderim.
— «Il dovar» — essa mormorò.
— «Ah, dunque noi siamo andati in Egitto. Non ho veduto Karnac, Pile od Abido. Questo non è il Nilo. Ho udito un canto dell’India, e il viaggio è stato un sogno.» —
-- «Pile — Karnac! Piuttosto ti dolga di non aver veduto i Ramessidi di Simbele, che ti fanno pensare a Dio creatore del cielo e della terra. O piuttosto perchè dolertene affatto? Andiamo sul fiume, e se non potrò cantare» — essa rise — «perchè ho detto che non vorrei cantare, ti posso però raccontare storie dell’Egitto» —
— «Continua! Sì, fino che spunta il mattino, e ritornerà la sera e sorga il sole di un altro giorno:» — egli soggiunse con calore.
— «Di che cosa devo parlare? Dei matematici».
— «Oh, no.» —
— «Dei filosofi?» —
— «No, no.» —
— «Dei maghi e dei genii?» —
— «Se vuoi.» —
— «Di guerra?» —
— «Sì.» —
— «D’amore?»
— «Sì.»
— «Ti racconterò di un rimedio contro l’amore. E’ la storia di una regina. Ascolta con attenzione e rispetto. Il papiro, ora proprietà dei sacerdoti di Pile, fu tolto dalle mani stesse della regina.
NE-NE HOFRA
I.
Le vite umane non corrono parallele.
Nessuna vita percorre una linea retta.
La più perfetta esistenza si sviluppa come un cerchio, e termina dove comincia.
Le vite perfette sono i tesori di Dio; nei giorni di festa egli le porta nell’anulare della mano sinistra, quella vicina al suo cuore.
II.
Ne-Ne-Hofra dimorava in una casa presso Essuan, vicino alla prima cataratta, e il frastuono dell’eterna battaglia fra il fiume e le roccie risuonava come una musica alle sue orecchie.
Essa cresceva in bellezza ogni giorno; cosicchè si diceva di lei come dei papaveri nel giardino di suo padre: Che cosa sarà mai al tempo della fioritura? Ogni anno della sua vita era come il principio di una canzone più deliziosa della precedente.
Essa era figlia del nord e del sud; l’uno le aveva dato il suo ingegno, l’altro le sue passioni, e quando Borea e lo Scirocco la vedevano ridevano, dicendo: «È nostra.»
Tutte le cose più belle della natura contribuivano alla sua bellezza, e si rallegravano della sua presenza. Quando passava, gli uccelli scendevan a posarsi sulle sue spalle, gli zefiri la baciavano in volto; il candido loto si tendeva sui lunghi steli per guardarla; il fiume solenne indugiava nel suo cammino; le palme accennavano da lontano sventolando le cime frondose; e gli uni sembravano dire: Io le diedi la mia grafia; gli altri: Io le diedi la mia purezza; l’altro ancora: Io le diedi la mia bellezza.
A dodici anni Ne-Ne-Hofra era la delizia di Essuan; a sedici anni la fama della sua bellezza s’era sparsa per l’Universo; a venti non passava giorno che alla sua porta non venissero principi del deserto sopra rapidi cammelli, e signori d’Egitto su galere dorate, e tutti partivano desolati, dicendo: — «Io l’ho veduta; e non è una donna, ma Ator in persona.» —
III.
Dei trecentotrenta successori del buon re Menes, diciotto furono Etiopi, di cui Orete era l’ultimo. Egli aveva cento dieci anni, e ne aveva regnato settantasei. Sotto di lui il popolo fu prosperoso e la terra piena di abbondanza. Egli praticava la saggezza, perchè, avendo vedute tante cose, la conosceva bene. Viveva a Menfi, dove aveva i suoi palazzi, i suoi arsenali, e i suoi tesori.
La moglie del buon Re venne a morire. Egli l’amava e la pianse amaramente, finchè un sacerdote si fece coraggio e gli disse:
— «Orete, io mi meraviglio che un Re così saggio e potente, non sappia trovare rimedio a un male come questo.» —
«— Dimmi un rimedio.» — disse il Re.
Tre volte baciò la terra, e disse: — «Ad Essuan vive Ne Ne-Hofra, bella come Ator. Mandala a chiamare. Essa ha rifiutato la mano di principi e Re; ma chi può rifiutare Orete?
IV.
Ne-Ne-Hofra discese il Nilo in una galera tutta oro e gemme, scortata da una flotta di barche variopinte. Tutta la Nubia e l’Egitto, miriadi di persone dalle terre dei Monti della Luna, erano accorse alle sponde del fiume per veder passare il corteo.
Attraverso un’allea di sfingi e una doppia fila di leoni alati, essa fu portata dinanzi al trono d’Orete. Egli la rialto, la fece sedere al suo fianco, le cinse il braccio con l’ureo, la baciò e la fece sua regina.
Ciò non bastava al saggio Orete; egli voleva l’amore, e che la regina fosse felice nell’amor suo. Quindi la trattò con grande dolcezza, le mostrò tutti i suoi beni, città, popoli, palazzi, i suoi eserciti e le sue flotte; la condusse attraverso i sotterranei dove erano ammucchiati i suoi gioielli, dicendo: — «O Ne-Ne-Hofra! Dammi un bacio d’amore, e tutto questo è tuo.» —
Ed essa, pensando che se non lo amava allora, avrebbe potuto amarlo in seguito, lo baciò non una, ma tre volte, nonostante i suoi centodieci anni.
Il primo anno fu felice, e sembrò assai breve; il terzo anno fu molto infelice, e le sembrò assai lungo. Allora comprese che ciò che essa credeva fosse amore per Orete, non era che ammirazione per la sua potenza. La gioia si partì dal suo cuore, lacrime sgorgavano continuamente dai suoi occhi e le rose delle sue guance s’incenerirono, essa languiva ed appassiva lentamente. Alcuni dissero che le Erinni la perseguitavano per la sua crudeltà contro qualche amante; altri, che era colpita dall’invidia di un dio, geloso di Orete. Qualunque fosse la ragione, tutti i rimedi degli astrologhi e dei maghi, riuscirono vani; Ne-Ne-Hofra era condannata a morire.
Orete scelse una cripta nella montagna, dove erano le tombe delle regine, e avendo chiamato i primi artefici di Menfi, ordinò loro di costruire un sepolcro più magnifico dei Mausolei dei Re.
— «O mia regina, bellissima come ator!» — diceva il re, a cui i centotredici anni non avevano spento le fiamme d’amore. — «Dimmi, ti prego, il male di cui soffri. Tu muori davanti ai miei occhi!» —
— «Tu non mi amerai di più se io te lo dicessi» — essa rispose tremando di paura.
— «Non amarti? Io ti amerò ancor di più! Io lo giuro per i genii di Amente e per l’occhio di Osiride! Parla!» — egli disse con la passione di un amante, con l’autorità di un re.
— «Ascolta allora.» — essa rispose; — » In una caverna presso Essuan vive un anacoreta, il più vecchio e il più santo della sua classe. Egli si chiama Menofa, e fu mio maestro ed amico. Chiamalo, Orete, ed egli ti dirà ciò che tu desideri sapere; egli ti aiuterà parimenti a trovare un rimedio al mio male.» —
Orete si dipartì giubilante: Gli pareva di aver cento anni di meno.
V.
— «Parla!» — disse Orete a Menofa, nel palazzo di Menfi.
E Menofa rispose; — «Potentissimo sovrano, se tu fossi giovine io non ti risponderei, perchè mi preme ancora la vita; così invece ti risponderò che la regina, come ogni altro mortale, paga il fio di un delitto.» —
— «Di un delitto!» — urlò il re.
Menofa si inchinò profondamente.
— «Sì, un delitto contro se stessa.» —
— «Non sono d’umore di sciogliere enigmi.» —
— «Io che dico non è un enigma. Ne-Ne-Hofra crebbe sotto i miei occhi, e confidava ogni particolare della sua vita a me, fra gli altri che essa amava un tale Barbec, figlio del giardiniere di suo padre.» —
La fronte di Orete si rasserenò.
— «Con quell’amore in petto, o re, essa venne alle tue braccia. Di quell’amore sta per morire.» —
— «Dove è il figlio del giardiniere? — chiese Orete.
— «Ad Essuan.» —
Il re uscì ed impartì due ordini. A un ufficiale disse: — «Va ad Essuan e conducimi qui un giovine di nome Barbec. Lo troverai nel giardino del padre di Ne-Ne-Hofra.
A un’altro disse: — «Raccogli operai, animali e utensili e costruisci per me nel lago Chemmis un’isola con un tempio, un palazzo, e un giardino pieno di fiori e alberi, che galleggi liberamente dove il vento la sospinge. Costruisci l’isola, e che essa sia finita al tempo della luna piena.»
Poi disse alla regina:
«Rallegrati. Io so tutto, e ho mandato a chiamare Barbec.»
Ne-Ne Hora gli baciò le mani.
— «Tu lo avrai tutto per te sola un anno intiero, e nessuno disturberà i vostri amori.»
Essa gli baciò i piedi; egli la rialzò, le diede un bacio. Le rose tornarono sulle guancie, lo scarlatto alle labbra, il riso al suo cuore.
VI.
Per un anno Ne-Ne-Hofra e Barbec il giardiniere, galleggiarono in balìa degli zefiri sull’azzurro lago di Chemmis. L’isola era una meraviglia, e per un anno, un anno intero, vi dimorarono come in paradiso, non vedendo nessuno. Poi la regina ritornò al palazzo di Menfi.
— «Chi ami tu di più, ora?» chiese il re.
Essa gli baciò la guancia e disse: — «Riprendimi, buon re, io sono risanata.» —
Orete rise, malgrado i suoi centoquattordici anni.
— «Dunque Menofa aveva ragione» — egli disse.
— «Ah, ah! Il rimedio per l’amore è l’amore.» —
— «Così è» — essa rispose.
— «Tutto ad un tratto la sua fronte si corrugò e la sua voce divenne terribile:
— «Io non lo trovai così» — disse.
Essa lo guardò atterrita.
— «Donna rea!» — egli continuò — «La tua offesa ad Orete l’uomo, io perdono; ma la tua offesa ad Orete il re, deve esser punita.» —
Essa gli si postrò ai piedi.
— «Silenzio,» — egli disse: — «Tu sei morta!» —
Egli battè le mani, e una terribile processione sfilò nella stanza, una processione di parachisti, o imbalsamatori, ciascuno con qualche strumento della sua arte disgustosa.
Il re indicò Ne-Ne Hofra.
— «Essa è morta. Fate il vostro dovere.» —
Dopo settantadue giorni, Ne-Ne Hofra, bella come Ator, fu condotta nella cripta per lei scelta l’anno prima, e messa a dormire insieme alle sue regali compagne. Ma nessun funebro corteo in suo onore attraversò il sacro lago.
Alla conclusione del racconto, Ben Hur era seduto ai piedi dell’Egiziana, e la mano con cui essa guidava il timone era stretta nella sua.
— «Menofa aveva torto.» — egli disse.
— «Perchè?» —
— «L’amore vive amando.» —
— «Dunque non vi è rimedio contro di esso?» —
— «Si, Orete lo trovò.» —
— «Quale?» —
— «La morte.» —
— «Tu sei un buon ascoltatore, o figlio di Arrio.»
E così conversando e raccontando favole e novelle ingannarono le ore. Quando scesero a terra, essa disse:
— «Domani andiamo in città,» —
— «Ma ti troverai ai giuochi?» — egli chiese.
— «Oh, sì.» —
— «Ti manderò i miei colori.» —
E così si divisero.