Ben Hur/Libro Ottavo/Capitolo III

Capitolo III

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CAPITOLO III.


All’indomani, appena fu aperta la porta detta della Pecora, la prima persona a uscire dalla città fu Amrah, con una cesta al braccio. Nessuna domanda le fu rivolta dai custodi perchè, abituati a vederla regolarmente ogni mattina, avevano concluso che essa era la serva fedele di qualcuno, e questo loro bastava.

Uscita dalla città, la vecchia s’avviò in direzione della vallata orientale. Il versante dell’Oliveto, d’un verde cupo, era tempestato di tende bianche recentemente piantatevi dal popolo in attesa delle feste. L’ora era però troppo mattutina perchè vi potesse essere concorso di gente, ma quand’anche vi fosse stato movimento, nessuno avrebbe molestata la decrepita viandante. Passò Getsemane, lasciò da parte le tombe al crocicchio delle vie di Bethania, ed oltrepassò il villaggio sepolcrale di Siloam. Di tempo in tempo quel povero corpo stanco vacillava, ed una volta fu forza alla poveretta di sedere per riprender fiato; alzatasi a gran fatica, proseguì con fretta crescente. Se le maestose roccie ergentisi sui due lati della strada avessero avute orecchie, l’avrebbero udita mormorare fra sè, e se esse fossero state fornite d’occhi, l’avrebbero veduta guardare di frequente la vetta del monte, come per rimproverare l’alba della sua lentezza. Se poi fosse loro stato possibile di parlare, si sarebbero dette — «l’amica nostra ha oggi gran fretta; le bocche ch’essa va a saziare devono essere ben affamate.» —

Quando finalmente raggiunse il giardino del Re, rallentò il passo, poichè era in vista dell’orrida città dei lebbrosi, estendentesi per lungo tratto attorno alla trincerata collina meridionale di Hinnom.

Come il lettore avrà già compreso, Amrah recavasi dalla sua padrona, la cui tomba dominava il pozzo di En-rogel.

L’infelice donna era già alzata e stava davanti alla porta, [p. 450 modifica]mentre nell’interno Tirzah dormiva ancora. La malattia aveva pur troppo fatto rapidi progressi in quei tre anni. Pienamente cosciente dell’orrore del proprio aspetto, la vedova principessa si teneva sempre gelosamente coperta dalla testa ai piedi, e, salvo qualche rara volta, non si mostrava neppure a Tirzah.

Quella mattina essa pigliava un po’ d’aria a capo scoperto, confortata dalla certezza di non essere veduta da alcuno. Vi era già abbastanza luce per lasciar scorgere la strage che la lebbra aveva fatta della sua persona. — I capelli bianchi, d’una ruvidezza ribelle a qualunque trattamento, le scendevano sulle spalle come fili di ferro inargentato; le palpebre, le labbra, le narici, la parte carnosa delle guancie erano, o del tutto scomparse, o ridotte a un fetido marciume. Il collo era una massa di croste color cenere. Una mano le pendeva fuori dalle pieghe della veste, rigida come quella d’uno scheletro; le unghie erano corrose; le articolazioni delle dita in parte scoperte sino all’osso, oppure raggruppate in nodi pieni di secrezione rossiccia. La testa, il collo e la mano indicavano in modo orribile quale, pur troppo, doveva essere lo stato di tutto il corpo. Vista così non arrecava meraviglia che la vedova del principe Hur fosse riuscita a mantenere l’incognito per tanti anni. L’infelice pensava che fra poco, quando il sole avrebbe dorata la vetta dell’Oliveto, Amrah sarebbe venuta, ch’essa si sarebbe fermata prima al pozzo, poi portandosi fino ad una pietra a mezza strada fra il pozzo ed il piede del monte, vi avrebbe collocato il contenuto della sua cesta e riempita l’anfora di acqua fresca. —

Dell’antica felicità questa breve visita era ormai tutto quanto rimaneva alla povera martire. Poteva così avere notizie dell’amato figlio, e confortarsi al pensiero ch’egli almeno era sano e prosperoso. Per quanto scarse fossero quelle notizie, costituivano pur sempre un balsamo pel suo cuore esulcerato. Quando sapeva che egli era di ritorno alla casa paterna, essa usciva all’alba dalla sua cella sepolcrale e rimaneva assisa fino a mezzogiorno e da mezzogiorno fino al cader del sole, immobile come una statua nella sua veste bianca, collo sguardo sempre rivolto laggiù, al di là del Tempio, ov’era la casa sua, così ricca di care memorie, ora più cara che mai, perchè abitata dal figlio.

No, più nulla le rimaneva. Tirzah andava annoverata fra i morti, ed essa stessa trascinava una vita che altro non era che un martirio lento di cui le era forza attendere la fine.

[p. 451 modifica]Misera era la natura presso quella collina, nè alcun punto ridente si offriva allo sguardo onde rompere la monotonia all’occhio dello spettatore. Gli animali fuggivano quel luogo come se ne conoscessero la storia e l’uso cui era destinato; ogni verde pianticella vi periva nella sua prima età; il vento vi sradicava gli ischeletriti arbusti e soffiava spietatamente nell’erica inaridita. La desolazione generale veniva inoltre accentuata dai numerosi emblemi di mortalità, — sepolcri e null’altro che sepolcri, — tutti di fresco imbiancati per norma dei pellegrini; la stessa volta azzurra del cielo, pel penoso contrasto fra lo splendore lontano e la miseria colla quale la povera lebbrosa era in immediato contatto, rendeva più insopportabile quel soggiorno maledetto. Qual sollievo poteva arrecarle la luce del sole, che non fosse amareggiato dal pensiero che senza quella luce essa e sua figlia non sarebbero oggetti d’orrore a se stesse ed agli altri! E se mi chiedete perchè essa medesima non poneva fine a quel martirio, rispondo:

Perchè la legge lo proibiva!

Un Gentile potrà sorridere di questa risposta, ma non mai un figlio d’Israele.

Mentre l’infelice stava mestamente ripensando ai casi suoi, una donna comparve ansante e vacillante come oppressa da fatica.

La vedova balzò in piedi, si coprì rapidamente il capo e gridò con una voce di singolare asprezza: — «sono infetta, sono infetta!» —

L’istante appresso, senza menomamente badare all’avvertimento, Amrah si era precipitata ai suoi piedi. Tutto l’amore da tanti anni accumulatosi e compresso nel cuore di quella buona creatura proruppe d’un tratto; — con lagrime e protestazioni appassionate essa baciò e ribaciò le vesti della padrona, la quale si era dapprima provata a strapparsi da lei, ma, non riuscendovi, dovette attendere che l’agitazione della fedele ancella si fosse calmata.

— «Che hai mai fatto, Amrah?» — esclamò. — «È con tale disubbedienza che tu provi il tuo affetto per noi? Sciagurata! Tu sei perduta, e... il tuo padrone... tu non potrai mai più ritornare a lui!» —

Amrah, sempre ai piedi della vedova, singhiozzava nella polvere.

— «Il bando della legge ora colpisce anche te. Non puoi più ritornare a Gerusalemme. Che diverrà di noi? Chi ci darà pane? Oh, disgraziata, noi siamo perdute.» —

[p. 452 modifica]— «Pietà, pietà,» — singhiozzava Amrah prostrata al suolo.

— «Toccava a te aver pietà di te stessa e di noi. Ove potremo fuggire? Non v’è speranza alcuna d’aiuto. Serva infedele! non pesava già abbastanza su di noi la collera del Signore?» —

Qui Tirzah, svegliata dal rumore, comparve sulla soglia del sepolcro. La penna si rifiuta a descrivere minutamente l’aspetto di quella sventurata. Mezza nuda, coperta di croste e di lividi cicatrici, quasi cieca, colle gambe e le estremità gonfie fino a raggiungere dimensioni grottesche, tale era Tirzah, che noi conoscemmo vaga creatura, seducente e piena di grazia infantile.

— «E’ Amrah, madre?» —

La serva fece per trascinarsi a lei.

— «Fermati Amrah!» — gridò imperiosamente la vedova, — «ti proibisco di toccarla. Alzati e parti prima che qualcuno ti veda. Ma no.... dimenticava.... è troppo tardi! Tu devi ormai restar qui a dividere la nostra sorte. Alzati, ti dico.» —

Amrah si pose ginocchioni e lottando coll’emozione che tuttora l’agitava, a stento potè profferire: — «Oh, mia buona padrona! Non sono un’infedele, un’ingrata — ti porto buone notizie.» —

— «Di Giuda?» — e nel rivolgerle avidamente quella domanda la vedova si scoperse in parte il capo.

— «V’è un’uomo meraviglioso» — continuò Amrah con voce fioca — «il quale ha il potere di guarirvi. Egli pronuncia una parola, e, subito.... gli ammalati.... diventano sani.... e i morti ritornano a vivere.... Sono venuta per condurvi da lui!» —

— «Povera Amrah!» — mormorò Tirzah in tono di compassione.

— «No» — gridò la vecchia con calore, comprendendo il significato di quell’esclamazione, — «no, per il Signore vivente, per il Signore d’Israele, pel Dio vostro e mio, vi giuro ch’io dico la verità. Venite con me, ve ne prego, e non perdiamo tempo. Stamane egli sarà in cammino per la città. — Guardate, già s’avanza il giorno. Presto, mangiate qualche cosa e partiamo,» —

La madre era stata tutt’orecchi. Forse la fama dell’uomo misterioso era già giunta sino a lei.

— «Chi è costui?» — chiese.

— «Un Nazareno.» —

[p. 453 modifica]— «Chi ti parlò di lui?» —

— «Giuda.» —

— «Giuda te ne parlò? Come? E’ egli a casa?» —

— «Arrivò ieri sera.» —

La povera lebbrosa sforzandosi a comprimere i violenti battiti del cuore, stette un momento silenziosa.

— «Fu Giuda che ti mandò a dirmi questo?» —

— «No, egli vi crede morte.» —

— «Vi fu una volta un profeta che curò un lebbroso» — disse pensierosa la madre, rivolgendosi a Tirzah, — «ma egli teneva il suo potere da Dio» — indi guardò di nuovo Amrah. — «Come sa mio figlio che quell’uomo ha una tale facoltà?» —

— «Giuda viaggiò con lui, udì i lebbrosi chiamarlo e li vide allontanarsi guariti, — prima uno solo, poi dieci, e poi tutti guarirono.» —

Di nuovo la vedova tacque, ma l’ischeletrita sua mano tremava visibilmente. Forse essa si sforzava di dare al racconto la sanzione della fede, la quale è sempre assolutista delle sue esigenze, e di persuadersi che il suo caso non era diverso da quello degli altri infelici che Cristo aveva miracolosamente guarito. Non già ch’ella dubitasse dell’esattezza del fatto, poichè suo figlio ne attestava l’autenticità, ma essa cercava di comprendere la facoltà mercè la quale un uomo poteva compiere cose così miracolose. Sta bene investigare il fatto, ma per comprendere la facoltà da cui il fatto procede è indispensabile comprendere Dio; e colui che attende finchè ha compreso quel mistero è destinato a morire nell’attesa. Nella vedova la perplessità fu di brevissima durata; voltasi a Tirzah esclamò:

— «Costui non può essere che il Messia!» — e non pronunciò quelle parole colla freddezza di chi razionalmente risolve un dubbio, ma da donna d’Israele versata nelle promesse di Dio alla sua razza, da donna giudiziosa e pronta a rallegrarsi del più piccolo sintomo che accenna al compimento di quelle promesse. Poscia proseguì, con crescente animazione: — «Mi ricordo di un tempo in cui a Gerusalemme e in tutta la Giudea correva la notizia della sua nascita, sì me lo ricordo. A quest’ora egli deve essersi fatto uomo; dev’essere così, sì sì, è lui! Amrah, noi verremo teco. Portaci l’anfora d’acqua che troverai nel sepolcro e prepara il cibo; mangeremo e poi partiremo.» —

La refezione, anche perchè l’agitazione aveva tolto alle donne l’appetito, fu brevissima, e presto furono in [p. 454 modifica]cammino. Un sol dubbio le tormentava. L’uomo veniva da Bethania: ora da quella città tre strade conducevano a Gerusalemme, una sul primo altipiano dell’Oliveto, la seconda al piede dello stesso monte, la terza passava fra il secondo altipiano ed il monte denominato dell’Offesa. Non distavano molto l’una dall’altra, ma pure abbastanza per impedire a quelle sventurate di vedere il Nazareno caso mai non seguissero la strada da lui percorsa.

Poche parole bastarono a convincere la madre che Amrah non conosceva affatto il paese oltre la valle di Cedron, e ch’essa ignorava del pari le intenzioni dell’uomo atteso. Incombendo pertanto a lei il dirigere la spedizione, non si perde in vane congetture.

— «Andremo prima a Bethfage» — esclamò. — «Giunte colà, se il Signore vorrà aiutarci, apprenderemo ciò che ci converrà di fare.» —

Scesero la collina fino a Tophet, presso il giardino del Re, e sostarono sul sentiero segnato nel corso dei secoli dai passi di innumerevoli viandanti.

— «Non credo che prenderà questa strada,» — osservò la vedova — «sarà meglio scegliere la campagna fra le roccie e gli alberi. Oggi è giorno di festa e vedo su quel versante indizii di folla che attende; valicando qui il monte dell’Offesa potremo schivar la gente.» —

Tirzah, che aveva finora camminato con difficoltà, all’udire quella proposta si sentì mancare.

— «Il monte è ripido, madre, non potrò mai salirlo,» —

— «Ricordati che andiamo a ricevere salute e vita. Guarda, figliuola mia, come già splende il giorno, e se quelle donne laggiù, che vengono al pozzo qui vicino, ci scorgono, ci scaglieranno contro delle pietre. Andiamo, sii forte per questa volta.» —

Così la povera madre, quantunque essa stessa soffrisse atroci torture, si provò ad infondere coraggio nella sua creatura. Amrah venne in suo soccorso. Finora quest’ultima non aveva toccato le persone delle due lebbrose, ma ora, a dispetto delle conseguenze, nonchè degli ordini della padrona, quella donna sublime per abnegazione, s’appressò a Tirzah, le prese amorosamente un braccio che si pose attorno al collo sussurrando: — «Appoggiati a me, sono forte, sai, quantunque vecchia, la strada è breve. Andiamo, coraggio!» —

Il versante della collina ch’esse s’accingevano a salire, era spesso interrotto da fossati e da ruderi d’antiche [p. 455 modifica]costruzioni, ma quando finalmente si fermarono sulla vetta per riprendere lena e si trovarono di fronte allo splendido panorama limitato dal Tempio coi suoi nobili terrazzi, dal monte Sion, e dalle bianche sue torri confondentisi colle nubi, la madre attinse nuova forza dal desiderio di vivere.

— «Guarda, Tirzah» — esclamò — «come le lastre d’oro della Porta Magnifica riflettono i raggi del sole quasi volessero rendere lo splendore che ricevono! Non ti ricordi del tempo quando solevamo andarvi insieme? Oh come sarà dolce il farvi ritorno! Pensa, cara, che la nostra casa non è lontana! mi pare dì vederla al di là del tetto del Tempio santissimo! e Giuda che sarà là a riceverci!» —

Dal versante dell’altipiano di mezzo, ornato di mirti e d’olivi, videro sorgere sottili colonne di fumo annuncianti l’attività mattutina dei pellegrini ed avvertenti le donne della necessità di far presto.

Ma per quanto la buona Amrah s’affaticasse ad agevolare la discesa alla fanciulla, questa mandava un gemito di dolore ad ogni passo, e quando a stento fu raggiunta la strada fra il Monte dell’Offesa ed il secondo altipiano dell’Oliveto, essa cadde a terra spossata.

— «Va tu avanti con Amrah, madre, e lasciami qui.» — mormorò con un fil di voce.

— «No, no, Tirzah! A che mi gioverebbe la salute, se io sola guarissi? Allorchè Giuda mi domanderà di te, che gli risponderò io, se ora ti abbandono?» —

— «Digli che l’ho amato.» —

La madre, che s’era chinata sull’affranta figliuola, s’alzò, e volse lo sguardo attorno disperata. La gioia che la speranza d’una guarigione aveva accesa in lei, era più per la figlia che per se stessa. Tirzah era giovine ed avrebbe avuto tutto il tempo per dimenticare gli anni terribili.

Nell’istante in cui quella donna eroica stava per rinunciare ad ogni ulteriore tentativo, abbandonandosi alla volontà di Dio, vide un uomo a piedi avanzarsi a passi rapidi sulla strada da oriente.

— «Coraggio, Tirzah! confortati!» — disse, sentendosi rinascere in seno la speranza, — «vedo qualcuno, che, ne sono certa, ci darà notizia del Nazareno» —

Amrah aiutò la fanciulla a sedere, e la sostenne in attesa dell’uomo che continuava ad avvicinarsi.

— «Nella tua bontà, madre, dimentichi che cosa noi siamo. Quello straniero ci fuggirà dopo aver imprecato contro di noi, se pur non ci prenderà a sassate.» —

[p. 456 modifica]— «Vedremo.» —

Era tutto quanto essa poteva rispondere, ben sapendo la povera madre quale trattamento veniva riservato dai suoi concittadini ai poveri lebbrosi.

Come già dicemmo, la strada sul ciglio della quale stavano aggruppate le tre donne, non era che un sentiero formatosi naturalmente dal passaggio dei viandanti, e serpeggiante fra cumuli di pietra calcarea. Se quello sconosciuto seguiva il sentiero, non poteva mancare di trovarsi faccia a faccia colle tre infelici. Così avvenne infatti.

Egli continuò sul sentiero finchè fu a portata d’udire il grido che la legge obbligava i lebbrosi ad emettere. La vedova s’era scoperta il capo e gridava: — «Siamo infette, siamo infette!» —

Con sua infinita sorpresa, lo sconosciuto non si fermò, ma venne tranquillamente a loro.

— «Che volete?» — chiese egli quando si trovò a soli quattro passi di distanza da loro.

— «Tu vedi il nostro stato. Sta in guardia» — disse la vedova.

— «Donna, io sono messaggero di colui il quale non ha che a parlare una volta a gente come te per guarirla. Non ho paura.» —

— «Il Nazareno?» —

— «Il Messìa» — rispose.

— «E’ vero ch’egli verrà oggi alla città?» —

— «Egli è in questo momento a Bethfage.» —

— «E per qual via verrà?» —

— «Per questa.» —

La donna giunse le mani ed alzò gli occhi al cielo.» —

— «Chi credi tu ch’egli sia? — chiese lo sconosciuto, in tono di commiserazione.

— «Il Figlio di Dio» — rispose con convinzione l’interrogata.

— «Attendilo qui allora, e poichè egli è accompagnato da una grande moltitudine, appoggiati a quella roccia bianca, sotto l’albero; quand’egli passerà non devi esitare a chiamarlo; chiamalo e non abbi timore. Se la tua fede è pari alla tua convinzione egli ti udrà quand’anche tuonasse il cielo in tempesta. Io vado ad annunciare il suo arrivo ad Israele raccolto dentro le mura e fuori della città. Pace, o donna, a te ed ai tuoi» — ed il messo proseguì la sua strada.

— «Hai udito Tirzah? Hai udito! Il Nazareno è in [p. 457 modifica]cammino, qui, per questa strada, e ci ascolterà. Vieni, figliuola; là, sino a quella roccia, — coraggio, non è che un passo.» —

Tirzah fece uno sforzo, e aiutata da Amrah si alzò, ma mentre si movevano, Amrah disse: — «Un momento! Quell’uomo ritorna» — e si fermarono ad aspettarlo.

— «Perdono, buona donna» — fece il messo allorchè le ebbe di nuovo raggiunte — «ma ho pensato che il sole sarà cocente prima dell’arrivo del Nazareno e che alla vicina città io potrò facilmente trovar ristoro se ne avessi bisogno, per cui quest’acqua ti sarà più necessaria che a me. Prendila e buon pro’ ti faccia. Non mancare di chiamarlo quando passa.» —

Così dicendo, le porse una zucca piena d’acqua, ed invece di porla a terra, gliela mise in mano.

— «Sei tu Ebreo?» — chiese essa con sorpresa.

— «Sono Ebreo, e meglio d’un Ebreo, sono un discepolo di Cristo, il quale giornalmente insegna colla parola e coll’esempio ciò che io in questo momento faccio per te. Da lungo tempo il mondo conosce la parola Carità senza mai averla compresa. Di nuovo dico pace a te ed ai tuoi.» —

Egli se ne andò, e le tre donne si trascinarono alla roccia loro additata, distante circa trenta passi dalla strada. Vi si accovacciarono all’ombra di un albero i cui rami sporgevano sopra la roccia, e assaggiarono l’acqua della zucca, che fu loro di gran sollievo.

In breve Tirzah s’addormentò. Le altre tacquero, perchè essa potesse dormire tranquilla.