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mentre nell’interno Tirzah dormiva ancora. La malattia aveva pur troppo fatto rapidi progressi in quei tre anni. Pienamente cosciente dell’orrore del proprio aspetto, la vedova principessa si teneva sempre gelosamente coperta dalla testa ai piedi, e, salvo qualche rara volta, non si mostrava neppure a Tirzah.

Quella mattina essa pigliava un po’ d’aria a capo scoperto, confortata dalla certezza di non essere veduta da alcuno. Vi era già abbastanza luce per lasciar scorgere la strage che la lebbra aveva fatta della sua persona. — I capelli bianchi, d’una ruvidezza ribelle a qualunque trattamento, le scendevano sulle spalle come fili di ferro inargentato; le palpebre, le labbra, le narici, la parte carnosa delle guancie erano, o del tutto scomparse, o ridotte a un fetido marciume. Il collo era una massa di croste color cenere. Una mano le pendeva fuori dalle pieghe della veste, rigida come quella d’uno scheletro; le unghie erano corrose; le articolazioni delle dita in parte scoperte sino all’osso, oppure raggruppate in nodi pieni di secrezione rossiccia. La testa, il collo e la mano indicavano in modo orribile quale, pur troppo, doveva essere lo stato di tutto il corpo. Vista così non arrecava meraviglia che la vedova del principe Hur fosse riuscita a mantenere l’incognito per tanti anni. L’infelice pensava che fra poco, quando il sole avrebbe dorata la vetta dell’Oliveto, Amrah sarebbe venuta, ch’essa si sarebbe fermata prima al pozzo, poi portandosi fino ad una pietra a mezza strada fra il pozzo ed il piede del monte, vi avrebbe collocato il contenuto della sua cesta e riempita l’anfora di acqua fresca. —

Dell’antica felicità questa breve visita era ormai tutto quanto rimaneva alla povera martire. Poteva così avere notizie dell’amato figlio, e confortarsi al pensiero ch’egli almeno era sano e prosperoso. Per quanto scarse fossero quelle notizie, costituivano pur sempre un balsamo pel suo cuore esulcerato. Quando sapeva che egli era di ritorno alla casa paterna, essa usciva all’alba dalla sua cella sepolcrale e rimaneva assisa fino a mezzogiorno e da mezzogiorno fino al cader del sole, immobile come una statua nella sua veste bianca, collo sguardo sempre rivolto laggiù, al di là del Tempio, ov’era la casa sua, così ricca di care memorie, ora più cara che mai, perchè abitata dal figlio.

No, più nulla le rimaneva. Tirzah andava annoverata fra i morti, ed essa stessa trascinava una vita che altro non era che un martirio lento di cui le era forza attendere la fine.