Canto XXIV

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Canto XXIII Canto XXV

 
Morto il gran Segurano e rifuggito
tutto l’oste avversario dentro Avarco,
lassa il Britanno stuol già d’Euro il lito,
e ’n verso i padiglion di gioia carco
volge il piè vincitore e del gradito
Lancilotto lodar nessuno è parco,
dicendo: “Ei tanto più d’ogni altro vale,
che non si dee stimar cosa mortale:

e ben si può biasmar l’aspro consiglio
dello sdegnoso Arturo e di Gaveno,
che n’avea tutti posti a gran periglio,
e la parte miglior di morte in seno”.
In tai parole il popolar bisbiglio
correa d’intorno di licenza pieno;
gli altri duci maggior taciti stanno,
e l’invidia di lui celando vanno:

onde tutti son colmi, fuor che solo
il generoso cor del pio Tristano,
che non teme poter di pari il volo
stender’ un dì, che poco avea lontano;
or poi che le sacr’arme e ’n parte il duolo
s’ha dispogliato il figlio del re Bano,
con fresche onde alle mani, al collo, al volto
l’altrui sangue e ’l sudor s’aveva tolto.

E cangiato il vestir, ma bruno ancora,
il qual sempre portar dispose poi,
s’invia tutto soletto, ove dimora
il re, senza volere alcun de’ suoi:
come il sente appressar, portarse fuora
fa il grande Arturo da famosi eroi
sovra un’aurato seggio e ’n su le soglie
qual figlio dilettissimo l’accoglie.

Dicendo: “Or chi potrà ’l valore invitto
a pien lodar del chiaro Lancilotto?
Che ’l nostro stato misero ed afflitto
al sommo del suo ben solo ha ridotto?
E di chi fea tremar l’India e l’Egitto
oggi ha di vita il fil troncato e rotto,
con tanti altri famosi duci e regi,
che d’onore immortal merita fregi?

Ma poi ch’altro non posso per mercede
vi dono io ’l nostro scettro e tutto il regno,
e d’esser meco d’ogni cosa erede,
qual’unico figliuol, vi appello degno;
ma il cortese guerrier chinato al piede,
e di somma umiltà mostrando il segno,
doppo il baciar la man, che no ’l volea,
con riverente amor così dicea:

“Invittissimo re, non la virtute,
non l’ardire o ’l valor, che in me si chiuda,
han portato altrui danno, a noi salute,
ma la voglia del ciel semplice e nuda,
alla qual sol le grazie son dovute,
però che indarno s’affatica e suda
l’oprar nostro mortal, che s’alza o cade
secondo il suo parer per dubbie strade.

Ma poi che per mia man questo consente,
e che darmene pregio a voi pur piace,
ne voglio un sol, se la cortese mente
oltra ogni merto mio degno mi face;
che per sua regia man sacra e possente
di vittorie e di fé, che in essa giace,
mi sia sprone allacciato e brando cinto,
in memoria di quei, che a morte ho spinto.

Le corone, i terren, le gemme e l’oro,
l’altre cose maggiori al mondo care
serbate a gran perigli per coloro,
che n’aggian più di noi le voglie avare;
ch’a me sol basta il marzial lavoro
allumar di virtù con l’opre chiare,
e ’mpiegar le mie forze e questa vita
a gli oppressi e i miglior porgendo aita”.

Così parlando ancor, l’invitto Arturo
con le braccia il sollieva e tienlo stretto,
poi lagrimando dice: “Animo puro
per essempio del ciel fra’ nostri eletto,
ogni ben chiaro onor verrebbe oscuro
del vostro alto splendor sendo al cospetto;
ma per far la mia man, non voi più degno,
della cavalleria vi darò il segno”.

Poi chiamando Agraven sommo scudiero,
gli comanda portar la spada istessa,
che dal gran padre suo famoso Utero
per la propria cagion gli fu concessa;
ch’ha d’or l’albergo e sì lucente e altero
di gemme tutto appar, che a chi s’appressa
la vista abbaglia intorno, come suole
quando è nel dì seren più chiaro il sole.

Né men di lei la serica cintura
di preziose pietre splende e d’oro;
ché sembra, ove l’april con maggior cura
tesse d’erbe e di fior più bel lavoro,
o ’l ciel quando più appar la notte pura,
ch’aggia di stelle in sen ricco tesoro;
ond’ei fu pria di Vortimero erede,
venuta a lui tra le sassonie prede.

Con quella gli spron, ch’ebbe allor’anco,
ch’alla guisa medesma erano ornati;
le stelle, ch’al destrier pungono il fianco,
son d’aguti adamanti assai pregiati:
ma in questo mezzo il bel drappello stanco
de’ duci al lungo giorno affaticati
doppo alquanto riposo, al proprio punto
desiato dal re quivi era giunto.

Al cospetto de’ quai lieto rivolto
al chiaro Lancilotto gli ragiona:
“Qualunque duce o re mai fosse accolto
a sì gran degnità ch’a voi si dona,
giurar si face, che ’l pio core avvolto
avria di quel desio, ch’al cielo sprona,
confidando in lui sol, che ’l guado mostra
del torrente mortal dell’età nostra;

né che mai giusta aita negheria
a chi fosse con forza offeso a torto;
e ch’a donne e donzelle onesta e pia
saria difesa e nel dolor conforto;
né che battaglia mai refuteria
fin che sia dal destin battuto e morto;
e più che della vita cura avere
della promessa fede mantenere;

né mentir mai di sé con torta lode,
né del biasimo altrui rendersi adorno;
scoprire al suo signor l’ascosa frode,
che gli potesse far dannaggio e scorno;
esser sol per virtude ardito e prode,
non per turbare il placido soggiorno
della gente miglior, che in dolce pace
con la famiglia sua secura giace;

et altre cose assai, ma perché intendo,
che mai sempre per voi viveste tale,
sol di farvi giurar la cura prendo,
che siate ognora a voi medesmo eguale;
poi vi prego, signor, s’io non v’offendo,
o se de’ miei desir punto vi cale,
che vi piaccia abbracciar Gaveno omai
con quel candido amor, ch’aveste mai”.

Risponde Lancilotto: “Il sommo impero,
ch’io voglio aggiate in me quanto avrò vita,
non di spogliarmi sol lo sdegno fero,
che m’avea contro a quel l’alma ferita,
ma forza ha tal, che nullo amico intero,
ond’ogni voglia sua resti compita,
troverrà più di me; così vi giuro
qual guerrier senza biasmo e servo puro.

Tanto poi più ch’ogni discreto core
quella offesa in oblio lassar devria,
ché non premendo adentro il vero onore
fiamma ardente d’amor cagion ne sia,
come in lui fu; che mosso dal dolore
d’esser di cosa privo, ch’ei desia,
volse più tosto irato il guardo avere
al proprio danno suo, ch’al mio devere”.

Così detto l’abbraccia e lui Gaveno,
poi fur sempre fra lor fidati e cari;
or già il divo Germano, ornato il seno
qual ne’ più festi giorni a i sacri altari,
il santissimo libro ch’è ripieno
de’ precetti divini e detti chiari,
porge al figlio di Ban, ch’umile e piano
rivoltandosi al ciel, vi pon la mano.

Dicendo: “Al sommo Dio giuro e prometto,
se la grazia di lui mi vegna scorta,
di mai non traviar di quanto ha detto
il Britannico re, con voglia torta;
qui l’uno e l’altro arnese all’opra eletto
Agraven nel suo dir correndo porta;
ch’al re Lago gli sproni in guardia ha dato,
come al chiaro Tristano il brando aurato”.

Il qual baciato in atto riverente
dentro alla regia man tosto il ripone;
Arturo in vista placida e ridente
del nobil Lancilotto al fianco il pone;
diegli nel modo istesso umilemente
l’Orcado invitto l’uno e l’altro sprone
et ei pur di sua man non sdegna ancora
di cingergliene i piè, ch’ei tanto onora.

Poi ch’è giunto al suo fin l’onore altero,
che suggetto maggior non ebbe unquanco,
non alcun re, non duce o cavaliero
di lodar sue virtù si vide stanco;
ma il buon re Lago a cui dona l’impero
sovra tutti il color canuto e bianco,
cominciò in chiara voce: “Oggi mi tegno
miglior, ch’io non solea, di questo segno;

poi ch’un sì chiaro duce mi ritrovo
compagno aggiunto per cavalleria,
avvegna io di molti anni ed esso nuovo;
e ch’io d’Utero ed ei d’Arturo sia;
e quantunque a lui pare io non m’approvo,
pur venni anch’io per la medesma via,
il dì, che ’l gran Sadocco a Camelotto
di Pandragon l’esercito avea rotto.

Ch’io duce sol da quattro miei seguito,
Sibilas, Sinadosso ed Arfazaro,
e Randon Persian, sovra quel lito
fui contra al vincitor scudo e riparo,
in fin che ’l popol nostro sbigottito
co’ cavalieri a guerra ritornaro,
poi ch’udir, che Sadocco per mia mano
premea senz’alma l’arenoso piano.

Perché nel luogo istesso e tutto armato
sovra il destriero ancor da Pandragone
mi fu il proprio suo brando posto a lato,
e di lui cinto a i piè l’aurato sprone;
e ’l duodecimo lustro è già passato
in questa, ove noi siam, calda stagione;
ma piacesse oggi al ciel ch’io fossi ancora
di forza e di valor qual’era allora”.

Così dicendo, per dolcezza il volto
bagna di larghe lagrime e l’abbraccia;
ma già di servi stuolo insieme accolto
della cena apprestar ratto procaccia;
chi del gran padiglione ha intorno tolto
ciò che ’l fa impuro o che lo spazio impaccia;
chi adorna in giro la rotonda mensa
di delicati lin, chi fior dispensa.

Quel del frutto di Cerere l’ingombra,
quel di Bacco il liquor pone in disparte
in argentati vasi e ne disgombra
il calor che dà il ciel con onda ed arte;
quel loca i ricchi seggi ove fanno ombra
di seta, d’ostro e d’or cortine sparte;
e già la lunga pompa i passi spande,
ch’apporta in lei le splendide vivande.

Già schiera di donzelli in urne aurate
all’alte regie mani umil presenta
le chiare acque freschissime odorate
tal che l’aer vicin se ne risenta;
l’imperiali insegne il dì spogliate
Arturo a quanti sono egual diventa,
e questo e quel per suo compagno chiama
re, duce e cavalier di maggior fama.

Ma il chiaro Lancilotto e ’l buon Tristano
sovra quanti altri sono onora e cole,
l’uno e l’altro di lor tira con mano,
e l’invita in dolcissime parole;
indi il vecchio re Lago in atto umano,
qual suo padre onorato, come suole;
poscia appella Gaven, Florio e Boorte,
che pure infermi ancor vennero a corte.

Assiso al fine ogni uom tra l’esca e ’l vino
al passato sudor restauro dona,
mentre ch’or altamente, or col vicino
delle fatiche sue basso ragiona;
poi tutti insieme con favor divino
dan della intera palma la corona
al gran figlio di Bano a cui pur piace
il lodar tutti gli altri e di sé tace.

Or poi che della sete e del digiuno
il natural desio rimane spento,
scarca la mensa al fin, sedea ciascuno
con le membra più salde e ’l cor contento;
solo il pio Lancilotto orrido e bruno
tiene il pensiero al caro amico intento;
e per altro compir, che in mente avea,
già drizzatosi in piè così dicea:

“Invittissimo re, poi che concesso
m’ha il ciel di vendicar chi tanto amai,
vorrei dar fine a quel che viene appresso,
ch’è di pregio maggior che l’altro assai,
di porger preghi al ciel, che voglia in esso
spiegar la sua bontà, se ’l volse mai
in altro pio guerriero, e le sue colpe
nel sangue del figliuol pietoso scolpe.

E quantunque lassù niente vaglia
pomposo onor, ma le preghiere umili,
per mostrar pur quanto di lui mi caglia,
e che i suoi che qui son non tenga vili,
come il sol co’ suoi raggi al mondo saglia
vorrei ch’a voi co’ nobili e gentili
vostri duci maggiori in negro manto
piacesse esser presente al nostro pianto:

e dar l’estremo don, che qui si deve
a così altero cor, come il vedeste;
e far poi comandar, che pronto e leve
tutto anco il nostro esercito s’appreste
d’esser’ al santo officio e non gli greve
mover le voci pie devote e meste
a Dio per quel guerrier ch’a morte è corso
sendo a’ perigli suoi fido soccorso”.

A sì giusti desir l’alto Britanno
risponde: “Per fratel, padre e figliuolo,
che gli fosse cagion d’eterno affanno,
non pianse alcun già mai con tanto duolo,
come al pubblico nostro estremo danno
di quel, che di bontà fu al mondo solo,
ho fatto il primo giorno e ’l farò sempre,
mentre sia integra in me l’umana tempre.

E di fargli ogni onor quasi immortale
non cesserò già mai per ogni sorte,
perché l’amor di noi fu del suo male
cagion, come diceste, e di sua morte;
ma quando ciò non fosse, or son’io tale,
che della cortesia chiugga le porte
a Lancilotto mio, dove conviene
il dever, la pietà, l’onore e ’l bene?”

Così detto, l’araldo Amaso appella,
e gli ragiona: “Voi con gli altri insieme
gite dell’oste in questa parte e ’n quella
comandando a ciascun che m’ama o teme,
tosto che il sol diman caccia ogni stella
vegna in guisa di quel, cui doglia preme,
senz’arme al tempio a far con umil core
a Galealto il re dovuto onore”.

Dopp’esso il re dell’Orcadi e Tristano
con la schiera famosa ch’ivi assiede,
securo il fan, ch’al giorno prossimano
seco faran nella sacrata sede;
così fermo in fra tutti a mano a mano
ogni uom verso l’albergo volge il piede
col congedo del re, desideroso
d’aver nel sonno omai qualche riposo.

Ma il famoso Tristan pria che ritrove,
benché assai travagliato, il padiglione,
verso gli ultimi fossi il passo muove,
e l’usate sue guardie intorno pone;
che ancor che ’ntenda, che l’andate prove
d’esser senza timor gli dian cagione,
e bench’ei sia guerrier d’invitto ardire,
della guerra al dever non vuol fallire.

Già rimbrunito il cielo e la campagna
si ritrova ciascun nel sonno avvolto,
discarco il cor, come chi assai guadagna,
e ’l sospetto e ’l dolor del seno ha tolto;
solo il buon Lancilotto ancor si lagna
di dogliosi pensier l’animo avvolto,
e dispiace a se stesso d’esser vivo,
poi che d’amico tal si sente privo.

Pure stanco alla fin verso l’aurora
come un leve dormir gli occhi gli ingombra;
più che mai fosse lieto scorge allora
di Galealto suo la placid’ombra,
non men lucente e vaga che l’aurora
quando al ciel più seren la notte sgombra,
e gli dice: “Fratel, perché piangete
del divin, ch’era in me, le sorti liete?

Io mi trovo or lassù tra le più chiare
anime, che ’l Fattor seco raccoglia,
di quei che d’opre sol lodate e rare
nella vita mortale ornan la voglia,
e ch’alla sua bontà salda fermare
osar la speme lor, ch’a quella soglia
di salire il cammin gli mostreria
per aperta, secura e dritta via.

Non vi dolete più della mia pace,
e che d’aspra prigion sia fuore omai,
se ’l ben di chi v’onora non vi spiace,
o non piangete i miei, ma i vostri guai;
l’amor ch’ho visto in voi, troppo mi piace,
né vendicato pur mi tengo assai,
ma troppo ancor; perché quassù non spira
il rabbioso furor di sdegno e d’ira.

Le gloriose pompe e gli altri onori,
che ’n memoria di noi di far bramate,
a schivo non avrò, pur che sien fuori
degli altrui danni e d’empia crudeltate;
ma perché il sol montando, i suoi colori
rende al mondo quaggiù, lieto restate,
senza turbar mai più co’ pianti vostri
la pace eterna mia ne gli alti chiostri”.

Mentre parlava ancor, di Bano il figlio
l’avide braccia a prenderlo stendea;
lagnasi al fin con lagrimoso ciglio,
ch’aria vana e non lui seco stringea;
poi molto più ch’al candido e vermiglio
ciel rivolgere il vol, lasso, il vedea,
dicendo: “E perché m’è sì presto tolto
il quetar gli occhi miei col vostro volto?”

Ma nel dir questo e porger preghi al cielo,
che ’l lassasse restare alquanto seco,
l’umido sonno già l’oscuro velo
gli scioglie e fugge al suo nascoso speco;
ond’ei surgendo con ardente zelo
gli occhi volge d’intorno e riman cieco,
ché non l’alluma più l’andata luce,
e l’aurora anco acerba poco luce.

Poi donando al gran sogno fede intera,
dell’amico beato assai s’allegra;
pur seguendo il costume, la sua schiera
tutta fece coprir di vesta negra,
e mostrarse a ciascun come a chi pera
caro padre, o figliuol, dogliosa et egra,
non men di quella, ch’al principio venne
con Galealto e seco si mantenne.

Or si stava tra lor pensoso e muto
fin che con gli altri Arturo ivi arrivassi;
né fu lungo l’attender, che venuto
e chi il lassa lontan non molti passi;
drizzasi allora in piè, poi che veduto
l’ha presso al padiglion, né ’ncontra fassi,
ma la fronte inchinando, alle sue soglie
tacito e in atto semplice l’accoglie.

Fecel tosto asseder su ’l manco lato,
ch’ebbe il dì Lancilotto il primo onore;
indi ogni cavaliero e ’l più pregiato
vien primo sempre a dimostrar dolore,
poscia si riponea dove locato
era il seggio per tutti ivi di fuore,
in doppio ordine posto, ove chi siede
di quel che incontra sia la fronte vede:

assegnata in tra’ duoi sì larga strada,
che possa il varco dar, che largo sia
a famoso drappel, che in guisa vada,
che i pedestri guerrieri usan per via,
come ripiena fu l’ampia contrada
della reale e nobil compagnia,
e ch’assisa fu alquanto, in alto dire
comanda il regio araldo indi partire.

Drizzansi tutti allora e ’l mezzo tiene
del primier rigo il figlio del re Bano,
seco in su ’l destro lato Arturo viene,
il buon re Lago alla sinistra mano;
preme indi appresso le dogliose arene
sotto avendo Gaven, sopra Tristano,
re Soriban, che Galealto solo
amò come fratel, come figliuolo;

ché d’Andromeda uscito a lui sorella
il seguio fedelmente in ogni sorte;
poscia il giovin Candor, nato anch’ei d’ella,
vien tra il buon Maligante e ’l pio Boorte;
i quai mal fermi, ove pietà gli appella,
volser pure onorar sì chiara morte;
poi seguir tutti quei, che seco furo,
in mezzo a’ cavalier del grande Arturo.

Così taciti van con lento passo
dentro al sacrato tempio, ivi construtto
non di pietra porfirea o Pario sasso
dall’Egeo, né dall’Issico condutto,
ma in marzial lavoro inculto e basso
di più d’uno edificio ch’han destrutto;
pure in tal l’ampio spazio si stendea,
che gran parte dell’oste ricevea.

Cinto era tutto quel sopra e d’intorno,
chiuso il lume solar, di drappo oscuro,
ma tante faci ha in sen, che fanno scorno
al dì ch’aggia l’april più vago e puro;
poi tutto è in giro mestamente adorno,
per mostrar del suo re l’effetto duro,
do scudi, ove il leon vermiglio assiede
tra perse stelle in argentata sede.

Giunto il famoso stuol, sì come innanti
trova i seggi ordinati, ove si posa
ascoltando devoto i preghi santi
della sacerdotal turba pietosa;
alle lor note umili, a’ tristi canti,
ch’hanno in voce or pienissima, or’ ascosa,
chi con tacite labbra e chi col core
va invocando del ciel l’alto favore.

Poi ch’al sacrato uficio il fin s’impone,
tutti al mondo primier ritorno fanno
del mesto Lancilotto al padiglione,
ove poi che rassisi alquanto stanno,
grida l’araldo allor: “Regie corone,
duci alti e cavalier del preso affanno
vi rendon grazie Lancilotto e i suoi,
e ’l partire e ’l restar sia posto in voi”.

Drizzasi il primo Arturo e salutati
tutti quei che restaro, indi si parte;
cotal di grado in grado i più pregiati
il seguon tutti alla medesma parte;
ma Lancilotto e gli altri sconsolati
presso al re morto asseggono in disparte,
l’un dall’altro lontan, bagnando il volto
con l’estremo dolor, ch’è in essi accolto.

E così notte e dì nel nono giorno
questo angoscioso pianto si distese;
come il decimo sol fece ritorno,
fu imposto il fine al lamentar palese;
e ’l buon figlio di Ban per fare adorno,
come l’uso chiedea del suo paese,
il gran funebre onor, subito chiama
Tarquiro araldo suo di maggior fama;

e gli dice: “Or va intorno a tutto l’oste,
e ’n mio nome dirai, che chi desia
gloria e palme acquistar, che fien proposte
a’ giuochi militar, qui tosto sia;
ma primiere al gran re vengano esposte
le mie ambasciate, ed egli in cortesia
voglia di sua presenza addurne onore,
per ch’ogni altro al venir disponga il core”.

Non ritarda il Tarquiro e ’l cammin prende,
e come al sommo Arturo il tutto ha detto,
per congedo di questo il passo stende
ove sia duce o cavalier più eletto;
or poi che ’l campo le novelle intende,
ogni miglior guerrier s’infiamma il petto
di tosto all’alte prove ritrovarse,
e mostrar che non ha le forze scarse.

E ’l ciel che favorir l’impresa vuole,
fa che quei che ’mpiagati erano avanti,
il buon Serbin con l’erbe e con parole,
con sacri impiastri e con divini incanti
sanati ha sì, che ciò che aggrava e duole
era fermo e risaldo in tutti quanti,
sì che possan venire in tutte prove,
come facesser mai più forti altrove.

Or già primo il gran re si rappresenta
con vesti aurate al destinato loco;
ogni altra gente al lui seguire intenta
stampa l’orme reali a poco a poco;
ciascun d’esser più ornato s’argomenta,
che ’l piacere a tal’uom non prende in gioco;
il nobil Lancilotto Arturo accoglie,
né d’onorarlo assai sazia le voglie.

Fa il medesmo da poi secondo il merto
a quanti eran con lui regi e signori,
sott’ampio padiglion, ch’era coperto
dentro d’oro e di seta e d’ostro fuori;
ov’era il ciel con le sue stelle inserto
con la luna e col sole in tai lavori,
ch’ogni uom dicea con nuova maraviglia,
che non più il vero al vero s’assimiglia.

Questo fu del re Archindo, che tenea
la dolorosa guardia in suo potere,
il qual già Lancilotto a morte rea
sospinse e vinse l’animose schiere;
e quante altre ricchezze ivi entro avea,
a i compagni e gli amici donò intere;
e sol volle di questo essere adorno,
il qual mai non spiegò fino a quel giorno.

Sotto del quale allor fece locare
l’aurata mensa, ove soletto assise
il gran Britanno e di vivande rare
fu più volte carcata in varie guise;
poi sotto ombre frondose all’aure chiare
non molto a lui lontana di fuor mise
una rotonda tavola, dov’era
de gli altri cavalier l’ornata schiera.

Poi per gli altri guerrier, che tanti furo,
che ’l numero contar poteano a pena,
senz’ombra ricercare all’aer puro
avean per seggio l’infiammata arena,
che di gregge e d’armento orrido e duro
fu tutta intorno riccamente piena,
ma tal ridotto al lungo foco e grave,
ch’al popol marzial venia soave.

Poi di vin preziosi erano sparsi
con misura maggior vasi infiniti,
all’intorno de’ quali allegri farsi
s’udian del gran romore i vicin liti;
né di lodar fra loro erano scarsi
di Lancilotto poi gli alti e graditi
atti cortesi e più l’invitta mano,
ch’avea tanti altri uccisi e Segurano.

Ma in altro grave suon tra i duci e i regi
si sentian fuor venir le sagge note
di senno adorne e di bei detti egregi,
d’invidia in tutto e d’altrui biasmi vòte;
e sovra tutti quel ch’ha mille pregi
tra le propinque genti e le remote,
dico il gran re dell’Orcadi, ogni core
riempiea di dolcezza e di valore.

Poi che d’esca e di vin queto è il desio,
guardando va l’esercito britanno
i pregi del certar, che lungo il rio
sovra verdi troncon sospesi stanno,
tutti di gran valor; ché ’l guerrier pio
d’amico sì fedel doppo il gran danno
vorria quante ha ricchezze, oro e terreno
del gran feretro suo versare in seno.

Già di sonore trombe cinto intorno
l’onorato Tarquir si mostra fuori,
di ricco argento e di vemiglio adorno,
che del figlio di Ban sono i colori;
e da poi che tre volte d’ogni intorno
fé risonare il ciel d’alti romori,
grida: “Il gran Lancilotto per memoria
del buon re Galealto e per sua gloria

oggi intende propor l’ottava prova
a’ duci illustri e chiari cavalieri;
il primier fia di chi più ratto muova
il corso steso a i nobili destrieri;
l’altro di chi più saldo si ritrova
nella lutta e più integro e più leggieri;
il terzo poi nell’impiombato cesto
chi col pugno al nemico è più molesto.

Indi chi armato in bellicose giostre
meglio addrizzi la lancia e ’l brando stringa;
il quinto, chi più pronto il piè dimostre,
ch’al corso velocissimo s’accinga;
poi chi fia quel, che fra le forze vostre
grave e ferreo baston più innanzi spinga;
il settimo sarà, chi ’l segno tocchi
più vicin con lo stral, che d’arco scocchi.

L’ultimo alfin, chi con più dotta mano
più dritto e più lontano il dardo avventa;
i pregi saran tai, che non in vano
sarà il sudore, ond’altri si ripenta,
sì come allora il figlio del re Bano
a quei, ch’avranno al gir la voglia intenta,
co ’l suo proprio parlar farà palese
in atto benignissimo e cortese”.

Così detto si tacque, e ’n suono altero
mille tube di nuovo si svegliaro;
sfoga in lieto gridare il suo pensiero
il popol lieto e di vedere avaro;
ogn’altro duce illustre e cavaliero
va rivolgendo in core, onde più chiaro
possa ritrarre onore e chi più stime,
che contenda con lui le palme prime.

Ma il chiaro Lancilotto in alta sede,
ove lor più spedite sian le viste,
e scernan dritto, chi del pregio erede
sia veramente e per qual via l’acquiste,
il gran re Lago e ’l buon Lambego assiede;
ben che quel dì tal grado si contriste,
dicendo: “Io che già fui più d’altro buono,
or dall’opre d’altrui giudice sono”.

Con lor Sicambro poi, che d’anni grave
ha l’usato valor volto in consiglio,
e ’l re Rion, ch’amò Benicco e Gave,
e Lancilotto poi qul proprio figlio;
il quinto era Mandrin, che seguito ave
per segno in quella guerra il franco giglio,
il qual per lunga etade e per la prova
d’ogni lite dubbiosa il ver ritrova.

E perché Lancilotto non volea
sendo il dator de’ pregi essere in prova,
al grande Arturo e gli altri umil dicea:
“Spogliate i cor di maraviglia nuova,
s’a me, chiari signor, che pur solea
volentier faticare, or l’ozio giova;
ché di quel, ch’amai più, l’acerba morte
ha chiuse a’ miei piacer l’antiche porte.

Pregovi dunque in quella riverenza,
che ’l mio stato bassissimo richiede,
non sdegniate mostrar vostra eccellenza
in quella arte miglior, che Dio vi diede,
non per me sol, ma per colui che senza
s’e’ m’ha fatto di miseria erede,
e che tanto amò voi, che queste arene
d’altrui sangue e di suo lassate ha piene.

Or chi s’estima aver destrier più leve,
e che quante ne siano al corso passe,
di spronarlo egli stesso non gli aggreve
al presente paraggio, che farasse;
e ’l primo vincitor la fronte greve
avrà d’aurea corona, in cui vedrasse
di beltade e di prezzo gemme assai,
onde il gran re Sassonio dispogliai.

Né senza premio ancor sarà il secondo,
che del forte corsier di Palamede,
nato in tra’ monti Betici, ch’al mondo
pochi ha par di bontade, il faccio erede;
né il terzo ancor con l’animo ingiocondo
si lasserà partir di questa sede,
ch’avrà la sopravesta d’oro fino
del figliol di Clodasso Massimino.

Avrà il quarto la sella e ’l ricco arnese
del caval di Vittorio il suo germano,
ove il mastro famoso tutta intese
in farlo unico allor l’arte e la mano;
del quinto fia la coppa, in cui l’Inglese,
ch’uccisi in Catanesia, il re Velano,
bevea ne’ festi dì, ch’ha l’auro intorno
di mille varie gemme aspro ed adorno”.

Al dir di Lancilotto in un momento
surge il giovin re Franco, il pio Clotaro,
a cui il vecchio Sicambro fu contento
di donare il destrier pregiato e raro,
leve non men che sovra l’onde il vento,
che dall’Orse ci vi nel verno chiaro,
nato all’orrida Tracia e fu credenza,
che dell’antico Borea era semenza.

Fu il secondo Gaven, che seco estima,
ch’anco il suo buon corsier non aggia pare;
ch’al britanno terren la palma prima
d’ogni altera tenzon solea portare;
il terzo è Perseval, che tien la cima
di saver regger bene e ben guidare
a tempo e con ragione ogni destriero,
e ’l più grave e ’l più vil fa snello e fero.

E se ben non ha quel ch’egli amò tanto,
che dal gran Seguran ne fu privato,
spera con l’arte sua d’avere il vanto
sovra ogni altro caval poco onorato;
vien Nestor poi, che men si pregia alquanto;
non però sì che non gli vada a lato;
ch’ove dell’arte altrui temenza il preme,
la bontà del caval gli aggiunge speme.

Il quinto a presentarse è il forte Eretto,
che di certa fidanza ha cinto il core;
che ’l giovinile ardor gli scalda il petta,
il natural’ ardire e ’l gran valore;
ha il paterno destrier che fu perfetto
mentre che ’n lui fiorì l’alto vigore,
or di tre lustri carco era pur tale,
ch’al breve faticar più d’altro vale.

Quando vede il re Lago che ’l figliuolo
alla lodata prova s’accingea,
in parte il chiama ov’egli ascolti solo,
e in amorose note gli dicea:
“Perché chi affisse l’uno e l’altro polo
m’empie di nobil’arte, ond’io solea
nel corso de’ destrieri in simil forma
d’ogni altro cavalier trapassar l’orma;

e perch’io veggio voi giovin novello
co’ più saggi e miglior mettervi in prova;
vi dirò che lo sprone e che ’l flagello
adoprar con furor niente giova,
e ’l passar nel principio questo e quello
al fin gloria dannosa si ritrova;
che a mezzo il corso poi sì frale e stanco
e ’l misero caval ch’ei ne vien manco.

Non con la forza sola a terra stende
l’arbor, ma più con l’arte, l’architetto;
né spesso traviando il cammin prende
il discreto nocchier, ma dritto e stretto;
più securo il suo gir mai sempre rende
quel che d’ogni periglio aggia sospetto;
tardo sia il cominciar di chi desia
poter salvo compir la lunga via.

Il primiero spronar sia dolce e piano,
che non faccia al destrier timore o sdegno;
sia il corso dritto e miri di lontano
a cui debbe arrivar l’eletto segno;
stringasi sempre alla sinistra mano,
con ragion vera e debito ritegno
di non urtar la meta o gir sì lunge,
ch’entri fra quella e voi chi dietro punge.

Ma poi ch’essa varcando al lato manco
per tornar qui fra noi sete rivolto,
allor potete all’uno e l’altro fianco
porre in opra lo spron, di tema sciolto,
che ’l corrente caval divegna stanco;
che ’l sentier, ch’ei dee far, non è poi molto,
e ’n breve spazio al trapassarvi poi
non basterebbe Achille e i destrier suoi”.

Così detto s’assise e già in brev’ora
i cinque cavalier sono in arcione;
e Lancilotto di ciascuno allora
dentro un elmo serrato i nomi pone,
poi gli trae ben mischiando e ’l primier fuora
venne il giovine Eretto, ch’a ragione
s’empié di gioia, ch’al sinistro lato,
che vien più in ver la meta fu locato.

Il secondo è Gaven, poi Persevallo,
Nestore il quarto e l’ultimo Clotaro,
ch’è di ciò lieto, perché il suo cavallo
tien sovra quanti fur nel mondo chiaro,
dicendo fra suo cor: “Se maggior fallo
non fa, ch’ei soglia, è mio quel pregio caro,
e se ciò avvien, di appenderlo divoto
al tempio parigin fò certo voto.

Lì secondo la sorte in breve riga
il proprio Lancilotto gli dispose,
dicendo: “Or sia ciascuno ottimo auriga,
sì come ottimo è sempre in maggior cose”.
Poi questo e quel del popolo gastiga,
che ’n mezzo al lor viaggio s’interpose;
indi col terzo suon, ch’al ciel rimbomba,
ch’omai sproni chi vuol grida la tromba.

Mosser tutti in un punto, come insieme
fosser legati o fosse un corpo solo;
ogni uom distende il freno e ’l fianco preme
al veloce caval, che fugga a volo;
surge la polve in alto, il terren freme,
e ’ntorno applaude il riguardante stuolo;
van molti passi in un congiunti al paro,
in fin che volse il franco re Clotaro:

il cui Tracio corsier dal vento sembra,
ch’a tutti gli altri innanzi sia portato;
non par che adopre le correnti membra,
ma qual’aquila in ciel si mostre alato;
il valoroso Eretto a cui rimembra
del paterno ammonire, il manco lato
si va intero servando e con le grida
più ch’oprando lo sprone, il caval guida.

Il nobil Persevallo che si vede
vie più che di destrier fornito d’arte,
tanto col fren sollecita e col piede,
che ’l primo vien dalla sinistra parte;
poi mentre alquanto di prestezza cede,
al più stretto cammin la via comparte,
lieto che questo e quel nagando giva
perdendo tempo assai per altra riva.

Ma il giovinetto Franco in cui la speme
già di certa vittoria si nutrìa,
ritrova un fosso in fra le trite arene
sepolto sì che fuor non apparia,
ponvi il Tracio ambe i piedi e gli conviene
batter la fronte su l’ascosa via,
pur senza danno alcun del suo signore
di periglio e d’affanno il trasse fuore.

Ma il buon Nestor di Gave che lui segue,
quanto fu indietro pria d’avanti acquista;
né lo spron né la sferza han paci o tregue,
che l’una e l’altra vien disgiunta e mista;
ma il risurto corsier par si dilegue
qual nebbia al vento, e subito racquista
il perduto vantaggio pria che vegna
ove indietro tornar la meta insegna.

Né più il mosse il valor che la vergogna,
che sentia lamentarse il giovinetto,
e che spargendo lagrime il rampogna,
dicendogli: “Or sei tu quel Tracio detto
al mondo senza par, ch’ogni uomo agogna,
e ch’oggi pur da me sei stato eletto
tra mille ch’io n’avea, come il migliore,
per farmi in cotal loco un tal disnore?”

Passa oltra adunque e nullo omai contende,
mentre a lui ben vicino era Gaveno,
a cui venendo al pari il corso stende
Eretto, ch’ha fermato entro al suo seno
d’altro dì non veder, che quel che splende,
o del pregio secondo ornarse almeno;
e perché è già vicin molto alla meta,
il sollecito andar non gli si vieta.

Così quanto può più spinge il destriero,
né men facea Gaven dall’altra parte,
quando han trovato che stringea ’l sentiero,
un’alto sasso che i confin diparte
tra due vicin, per discoprire il vero
a i possessor che vivono in disparte,
dall’altra era il gran vallo, ond’era poco
al caper tutti due l’angusto loco.

Quando il vede Gaven, con aspro ciglio
grida: “Il vostro corsier fermate alquanto,
né vogliate oggi porne a tal periglio,
ch’a chi ne porta amor ne vegna pianto”.
Allor più sprona del re Lago il figlio,
e di lui non udir si finge in tanto,
e quel seguita ancor: “Voi folle sete
né di voi né d’altrui cura tenete.

Non si convien sì poco reverire
chi di regno e d’età vi sia maggiore”.
Ma il giovine sprezzando ogni suo dire
al corrente destrier cresce il furore;
onde Gaven temendo ivi perire,
prepon la vita al guadagnato onore,
e ’l lassa avanti gir, né il poté poi
racquistar più con gli argomenti suoi.

Ma in questo contrastar già Persevalle,
che lor dietro era ancora, innanzi è gito,
e già del mezzo per più accorto calle
il corso primo a tutti avea compito,
ma nel voltar su l’arenosa valle
venne al girar la meta il piè fallito
al suo destriero e l’uno e l’altro in essa
ebbe la manca spalla insieme oppressa.

Surge tosto il meschin, benché si senta
della percossa asprissima impedito;
ma il suo caval, che a muover s’argomenta,
vie più che non è lui trova impedito;
e doppo lungo aver la forza intenta,
a pena il può drizzar sopra quel lito;
onde accusando il ciel doglioso e lasso
il tira per lo freno a lento passo.

Or già di Clodoveo l’altero figlio
primo a quanti altri sono al segno arriva,
e ’l popol tutto lieto l’aureo giglio
va innalzando alle stelle in voce viva;
e Lancilotto a lui con lieto ciglio
dice: “Chiaro signor, non vegna schiva
questa corona omai di questa chioma,
che d’altre assai maggiori attende soma”.

Così di propria man d’essa gli cinge
la nobil fronte e ’l giovinetto adorno
d’onorato rossore il viso pinge,
e ’n fra’ suoi tutto lieto fa ritorno;
né il buon vecchio Sicambro anco s’infinge
d’appellar felicissimo quel giorno,
in cui quel ch’ei nodrisce e ’l suo destriero
di così chiaro pregio ir vede altero.

Vien doppo il franco re l’Orcado Eretto,
che si trova Gaven che sprona a lato,
e correa sì vicin, ch’avea col petto
quasi l’arcion di dietro trapassato,
e se ’l spazio del corso ivi perfetto
si fosse, pochi passi prolungato
era forse il secondo, ma in quell’ora
con grave ira e dolor terzo dimora.

Fu il quarto all’arrivar Nestor di Gave,
che ’l tirar d’un buon arco indietro viene,
per ch’aveva caval possente e grave,
cui più del corso il guerreggiar conviene;
e ’l suo signor, ch’altissimo cor’ ave,
di così basso onor cura non tiene,
ma per far cosa grata a Lancilotto
fu con poca speranza a ciò condotto.

L’ultimo è Perseval che frale e stanco,
biasmando il suo destin contrario troppo,
conduce il me’ che può traendo il fianco,
per la briglia il destrier debile e zoppo,
come bifolco il bue, che venne manco
arando al mezzo dì, che ’l fero intoppo
d’aguto legno entro alla siepe ascoso
al rivolger l’aratro ebbe noioso.

Del quale a Lancilotto che lontano
già il vedeva apparir, prende pietade,
e dice sorridendo: “Or chi sovrano
vive in quest’arte della nostra etade,
se la sorte ebbe avversa, fia che ’n vano
senza premio calcar debba le strade?”
E ’n tal dire il destrier di Palamede
prende e far ne lo vuol famoso erede.

Ma l’infiammato Eretto che ciò mira,
tosto al figlio di Ban di mano il toglie;
e con note tremanti e colme d’ira,
e ch’a gran pena dalle labbra scioglie,
gli dice: “Alto signore al torto aspira
chi cortese si fa dell’altrui spoglie;
non più vostro è il caval, ma fatto è mio,
poi ch’io fussi il secondo piacque a Dio.

E se di sua virtù vi astringe amore,
non vi mancan corsieri, oro ed argento
da dargli anco del mio pregio maggiore,
ond’ei resti più lieto ed io contento”.
Rise del giovinil semplice ardore
il nobil Lancilotto a gloria intento,
et abbracciandol dice: “Io veggio scorto,
caro più che figliuol, ch’oprava il torto.

Riprendete il caval vostro a ragione,
et io d’altro miglior sarò cortese”.
Poi Tarquir manda tosto al padiglione,
che quel di Seguran, ch’era ivi, prese,
il qual tutto dorato avea l’arcione,
e di prezzo infinito il ricco arnese,
e ’l presenta dicendo: “A Persevalle
questo fia più securo in ogni calle”.

Or mentre in altra parte il chiaro Eretto
ne mena il pregio suo di gloria pieno,
d’alto sdegno infiammato e di dispetto
all’incontro di lui surge Gaveno,
e dice: “Di tai principi al cospetto
vo’ che ’l ver qual’ei sia si senta almeno;
e giudichin da poi, se ragion fia,
che ’l caval più che nostro di voi sia.

Non consentite voi che per inganno
fuste, non per valor, vittorioso?
Che mentre io mi temea portarvi danno,
ritenni il mio corsier di voi pietose;
e voi spronando mi rendeste affanno
in vece del ben fare; ond’io doglioso
mi trovo il terzo, ove il secondo o ’l primo
potea forse venir, s’io dritto estimo”.

Quando il re giovinetto il vide irato,
e del padre e d’altrui biasmo temea,
gli dice: “Per tornar nel primo stato
del vostro buono amor, com’io solea,
non sol questo caval, ch’ho guadagnato,
ma quanti mai n’avrò, quanti n’avea,
che sien vostri, signor, contento sono,
e d’ogni mio fallir chieggio perdono”.

E così ragionando, in man gli pone
la briglia del corsier che seco adduce.
Non alle spighe all’arida stagione
la pioggia estiva più dolcezza induce,
che fé del giovinetto il pio sermone
nel petto irato dell’Orcanio duce;
l’abbraccia e stringe e gli risponde appresso:
“A voi dono il cavallo e poi me stesso.

E riconosco or ben, ch’è tutta in voi
la paterna virtù che non ha pare;
e prego il ciel, che voglia gli anni suoi,
e l’alta sua fortuna in voi versare”.
Volgesi a Lancilotto e ’l prega poi,
che voglia il terzo pregio a lui donare;
et ei di Massimino in atto umano
la sopravesta allor gli reca in mano.

Ebbe il suo quarto don Nestor di Gave,
che di Vittorio fu la regia sella;
riman l’altera coppa d’oro grave
e di gemme e di perle ricca e bella,
ch’è il quinto pregio che cursor non ave,
che più possa sperare ornarsi d’ella;
onde il pio Lancilotto in man la prende,
e con essa al re Lago il braccio stende.

Dicendogli: “Io vi prego tutto umile,
o chiaro re dell’Orcadi famoso,
che non vi sia da noi prendere a vile
il basso don ch’a presentar sono oso;
perché poscia possiate in Bura o in Tile
dentro al bel regno vostro in gran riposo
bevendo tra’ miglior del valor’alto
ricordarvi talor di Galealto.

Né si conviene a voi farne rifiuto,
poi che di guadagnar pregio altramente
vi contendono or gli anni e ’l pel canuto,
che le membra guastando ornan la mente”.
Lieto l’antico re del ricevuto
onor fra tanta e sì fiorita gente
risponde: “Troppo è ver, figlio onorato,
che ’l tempo ogni vigor m’aggia spogliato.

Deh mi trovass’io tal quale allor’era,
che ’l gran re Catanesio fu sepolto;
ché non fu alcuno in quella festa altera,
che contro al mio poter valesse molto;
feci io del cesto alla battaglia fera
restar quasi Roncon di vita sciolto;
vinsi Ombrone alla lutta e ’l leve Anceo
nel corso a me la palma concedeo,

nell’avventar del dardo Aficle ed Ati,
ch’avanzavano ogn’uom, privai d’onore;
sol de’ destrieri in prova più pregiati
fur di me alquanto Arantico e Fanore;
non dirò più nell’arte ammaestrati,
ma perché il mio corsier nel gran furore
fece al proprio tornar l’istesso fallo,
ch’ora il suo far vedeste a Persevallo.

Or di natura all’ordine m’arrendo,
pascendo il cor della passata gloria;
e ’l vostro amico don gioioso prendo,
per la vostra e d’altrui chiara memoria;
né di farmene adorno meno intendo,
ch’io facessi unque mai d’altra vittoria;
ch’esser del vostro amor tenuto degno
e d’intera virtù non dubbio segno”.

Rise il figlio di Ban; rivolto poi
verso i duci più forti e cavalieri,
dice in atto cortese: “Or chi di voi,
che tanti ce ne son di nomi alteri,
fia che luttando gli avversari suoi
stender ad uno ad un su l’erba speri,
surga per onorar morto, chi solo
fu vivo il primo onor di questo stuolo.

E gli avem destinato il primo pregio
nobil vaso d’argento e cinto d’oro,
in cui scolpio la terra il mastro egregio
fra l’onde accolta con sottil lavoro,
e verso i labbri in alto il ricco fregio
ha Febo in seno e delle Muse il coro;
e grande è sì, che in esso il vincitore
potrà lavar giacendo il suo sudore,

né il vinto anco sarà senza mercede;
che d’irsuto leone avrà la spoglia,
con la testa d’argento e ciascun piede,
qual’Ercole e Teseo portar si soglia;
e l’uno e l’altra fu tra le mie prede,
ch’acquistai già dentro alla regia soglia
del Cimbrico Pireo, che volea, lasso,
soccorso contra noi dare a Clodasso”.

Così paralava ancor, quando Malchino,
Malchino il grosso, che gigante appare,
del popol di Moravia, a cui vicino
il porto di Salute affrena il mare;
ivi avanza ciascun, sì come il pino
suol gli altri arbori intorno sormontare;
getta ogni vesta all’arenosa valle,
e mostra nude fuor l’orride spalle.

E quanti in giro son tanti ne sfida,
dicendo: “Or venga a noi di sì gran gente,
chi più di tutti al suo valor s’affida,
e che si pensi meco esser possente”.
Nessun risponde all’orgogliose grida
per lungo spazio ed ei più fieramente
le voci addoppia e le sue forze pregia,
come quelle d’altrui biasma e dispregia.

Non sa più il buon Tristano omai soffrire
il superbo parlar, ma poi che vede,
che pure altr’uom non vuole incontra uscire,
verso lui tutto queto addrizza il piede;
quando il mira Malchin, comincia a dire:
“O di Meliadusse invitto erede,
usare il vostro ardir sovra il cavallo,
ch’a piedi e meco poi sarete in fallo”.

Tace il saggio guerriero e spoglia intanto
ciò che ’l copriva e nudo si presenta;
il gran Malchin poi ch’ha tardato alquanto,
tutto pien di furore a lui s’avventa,
qual’ il geloso tauro ch’aggia a canto
la sua cara giovenca e guerra tenta
contra il leone e d’atterrarlo spere,
per aver più di lui le membra altere.

Cingel sotto le braccia e cerca in vano
d’alzarlo e sentel fermo su l’arena
più ch’aspra quercia il vento Sussolano,
nata in fra dure pietre e d’anni piena;
lo scuote appresso or su la destra mano,
or su l’altra più volte e ’n giro il mena;
né ’l ritrova men saldo in ogni sponda,
ch’alto scoglio marin di Teti all’onda.

Ma il sagace Tristan, ch’è sempre inteso
di fare un colpo solo e ’l tempo aspetta;
come il vede sforzando esser sospeso,
e non tener co i piè la terra stretta;
alzandolo più ancor, con tutto il peso,
ch’ha di petto e di braccia, ivi si getta,
ove il sente più in aria e tal s’accampa,
che delle spalle fa che il lito stampa;

con quello alto romor ch’argine o ponte
combattuto dall’onde caggia in esse;
parve un colle minor sovra un gran monte
Tristan, quando Malchin col petto oppresse;
le genti attorno con allegra fronte,
cui nuova maraviglia i cori impresse,
alzan le grida al ciel miste di riso,
di vedere il maggior da lui conquiso.

Drizzansi entrambi e ’l misero perdente
forbendo in alto l’omero arenoso
di vegogna ripieno è sì dolente,
che ’l cortese Tristan ne vien pietoso,
e dice in alta voce: “Assai sovente
fa la fortuna l’uom vittorioso,
che di minor virtù fornito sia,
come forse oggi a me fatto ha la mia.

Però, s’a voi paresse, io non rifiuto
d’esser con voi nella seconda prova”.
Risponde quel: “Pria ch’ora ho conosciuto
il magnanimo cor che ’n voi si trova,
siami assai d’una volta esser caduto,
senza cercar da voi percossa nuova;
e basti ch’io vi cedo con lo scudo,
con la lancia, co ’l brando, armato e nudo”.

Il chiaro figlio allor del gran re Bano
si fa tosto portare il vaso aurato,
e dice: “Or sia condotto al mio Tristano,
che questo ed ogni pregio ha guadagnato,
ove vorrà spigar l’arte e la mano,
e ’l valor suo che per vittorie è nato”.
Risponde a lui Tristano: “E chi porria
Lancilotto agguagliar di cortesia?

E ben si prova in voi che la virtude,
che si conosce in sé non aver pare,
dell’altrui gloria nulla invidia chiude,
certa di quella e tutte sormontare;
non convien più che s’affatiche o sude
per acquistare omai palme più chiare
la vostra altezza, ch’all’estrema punta,
ove arriva il mortal, d’onore è giunta”.

Ride il pio Lancilotto e dice: “Assai
mi fia premer di voi l’orma vicina”.
Col vello del leon poi gli aspri guai
di Malchin sana e l’alta sua ruina;
indi si volge a gli altri e dice: “Omai
poi che già il sol dall’alto punto inchina,
venga qualcun con l’impiombato cesto
ad onorar se stesso e ’l giorno festo.

E pregio simigliante avrà il vittore
all’arme onde acquistò gradita palma,
ch’un nobil cesto fia cinto di fuore
con piastre d’oro fin di grave salma,
di seta ordito d’ostrico colore
dentro, ove della man cuopre la palma;
e se ’l ver di sì lunge si conduce,
fu il più onorato arnese di Polluce.

L’altro un’anfora d’or di giusta altezza
di preziosi unguenti fido albergo,
per dar conforto alla dogliosa asprezza
di braccio intorto o d’impiagato tergo”.
L’orgoglioso guerrier, ch’ogn’altro sprezza,
tosto ch’ode il parlar si mostra a tergo,
Taulasso è costui della Montagna,
nato dove il Solveo nel mare stagna.

Quante avea vesti intorno avventa a terra,
e d’impiombati cesti arma le mani,
poi snodando le braccia invita a guerra
quanti ha buon cavalier pressi e lontani,
e dando colpi al cielo or apre or serra
le pugna in giro e dice: “Come vani
saran tutti color che penseranno
altro ritrar da me che morte o danno?

E piacesse oggi al ciel, ch’a ciò venire
volesse un de’ miglior che chiude Avarco,
ch’io ’l potessi percuotere e ferire
d’ogni clemenza e penitenza scarco;
ch’assai mi fia pur duol veder morire,
chi per nostra salute è d’arme carco,
e questa man contra Clodasso accinta
del pio sangue civile aver dipinta”.

E per ch’al chiamar primo alcun non viene,
ché quel ritien vergogna e quel timore,
prende il gran pregio aurato e si conviene,
dic’egli, a me questo primiero onore;
e l’altro ancor poi che nessun si tiene
possente a contrastar co ’l mio valore;
Risponde Lancilotto: “Io vel consento,
se nullo or di mostrarse aggia ardimento”.

Quando Florio il Toscan, che vicin’era,
vede tacere ogni uom, pietade il prende
della negletta e vilipesa schiera,
e ’n ver l’inviatore il passo stende,
alto parlando: “Or questa vita pera,
ch’a passo a passo nel suo fine scende,
solo in un punto; prima che soffrire
di tanto e tale stuolo il biasmo udire”.

Grida il popol d’intorno e lieto fasse,
ch’un sì nobil guerrier si metta in prova;
e ’l famoso Tristano ivi si trasse,
e ciò che fea mestier, per lui ritrova;
non volle ch’altra mano il dispogliasse,
né che ’n porgergli aita altri si muova;
ei sol gli apporta i cesti, ei sol gli cinge,
e la vittoria aperta gli dipinge.

Or già s’è in guerra posto Taulasso,
e del fato di Florio assai gl’incresce;
ch’al suo colpo primiero ei caggia in basso
sì tosto spera, che con lui si mesce;
drizzasi l’un ver l’altro a largo passo,
e quanto può su ’l piede alto s’accresce;
poi più vicin con sollevate braccia
esamina ciascun ciò ch’altri faccia:

e con finte percosse va tentando
come trove il nemico acconcio all’opra;
or ferendo leggiero, ora schivando,
più l’occhio e l’arte che ’l valore adopra;
e vanno in giro attorno; ma poi quando
vide il Toscano il suo vantaggio sopra,
che ’l nemico scoperta avea la gola,
di ferirlo aspramente il tempo invola.

Ma perch’era pur grande, ivi no ’l coglie,
che gli venne a cadere in mezzo al petto,
e ’l ferì tal, che d’ogni carne scioglie
l’osso più in alto in tra le coste astretto;
all’ira il fer Britanno il fren discioglie,
e col folto cader ch’arbore o tetro
batte grandine al maggio, i colpi versa
con l’una e l’altra man dritta e riversa.

L’ammaestrato Florio che s’accorge,
che conviene al furor conceder loco,
ora il cesto, ora il braccio innanzi porge,
e dell’ira mortal tien lunge il foco;
l’altro mentre s’abbassa e mentre insorge,
va le forze scemando a poco a poco,
e col molto ferir già frale e ’ncerto
or questo loco or quel lassa scoperto.

Et ei, che qual l’accorto cacciatore,
che nascoso il leon tra frondi aspetta,
che quando gli è più al dritto, in mezzo il core
gli scocca inevitabile saetta;
come vede al Britanno il capo fuore
della dovuta guardia, a lui si getta,
e nella manca tempia in modo il fere,
che co’ sensi smarriti il feo cadere.

Va con la fronte in basso, sì che appare
combattuto dalfino al lito spinto,
quando è più irato e tempestoso il mare,
dal fero austro vernal di nubi cinto;
come il vede in tal guisa a terra andare
il cortese Toscan, da pietà vinto
ratto il sollieva in alto e ’n seno il porse
della schiera de’ suoi, che al caso corse.

E ’l portaro all’albergo, dove sembra,
quantunque vivo pur, peggio che morto;
nullo appar moto all’indormite membra,
e ’l capo inchino e ’n su la spalla intorno;
tutto il popol miglior tosto s’assembra
intorno al vincitor, pien di conforto;
che temea ch’un guerrier sì chiaro e forte
non venisse al suo fin per simil morte.

Ma sovr’ogn’altro lieto era Tristano,
che più caro il tenea che proprio frate;
né men di quello il figlio del re Bano,
ch’era a lui simil d’anni e di bontate,
e ’l meritato don gli pone in mano
dicendo: “Questo integro riservate
per segno eterno dell’avuta gloria,
e questo altro da poi per mia memoria”.

E gli fé don di tutta l’armadura,
ch’al superbo Clodino aveva tolta,
con la spada incantata e la cintura
di finissime gemme e d’oro avvolta;
poi che fosse portata prese cura
a chi la guadagnò con pena molta
l’anfora preziosa; indi si muove
per seguitar l’incominciate prove.

E dice: “Alti signori, in cortesia
e per l’alta virtù di chi s’onora,
quella coppia miglior che di voi sia
più in arme esercitata, si mostri ora
sovra il destriero a giostra e poi che fia
rotta la forte lancia, tragga fuora
la spada micidiale e del primiero
sien l’arme di Brunoro e ’l suo corsiero.

Del fratel Dinadan le spoglie opime,
che ricchissime son, saran di quello,
che del brando ferir più forte estime
de’ gran giudicatori il pio drappello”.
Non finì a pena le parole prime,
che sovra alto caval possente e snello
arrivar Maligante vede armato,
e ’l cavalier Norgallo d’altro lato.

Ride il gran Lancilotto e dice: “Omai
non fia senza favor la lite nuova,
poi che i miglior guerrier che fosser mai,
per tal giorno onorar vengono in prova;
or di voi l’uno e l’altro, come assai
aggia spazio acquistato, il corso muova”.
Poi di trombe svegliar quel grido face,
per cui Marte s’accende e spegne pace.

Sprona l’un verso l’altro in tal furore,
che la vista mortal gli segue a pena,
qual austro e borea ch’alle torbid’ore
si vengano a ’ncontrar sovra l’arena;
truovansi a mezzo il corso e del romore
tutta la chiusa valle e l’aria è piena;
troncansi ambe le lancie e l’un destriero
trapassò via volando al suo sentiero;

ma quel di Maligante al crudo intoppo
di volersi arrestar si mise in forse,
pur’ oltra andò con debile galoppo,
non come infino allor, volando corse;
ché l’asta, che per lui fu dura troppo,
dritto al suo buon signore il colpo porse
nel volante frontal sovra la vista,
onde il buon cavalier più lode acquista.

Il percosso guerrier si piega alquanto
con l’elmo indietro che la testa aggreva;
ma il gran core e ’l vigor gli giova tanto,
che in breve spazio in alto la rileva;
ma più dolor gli apporta, ch’altro tanto
danno il prode avversario non riceva;
ché no ’l ferisce in fronte, ma in quel loco,
che vien sotto la gola basso un poco.

Volge il caval ciascuno e con la spada
tosto al secondo onor bramoso riede;
l’accorto Maligante opra che vada
ben grave il colpo e sol la fronte fiede;
l’altro ferisce lui per ogni strada,
ove ha più il modo e più scoperto il vede;
mena più spessi i colpi e non gli cale
se quel più che quell’altro in guerra vale.

Trovagli pure al fin la destra spalla
con forza tale e così viene a pieno,
che ’ndormita la man di poco falla,
che non lass’ire il brando su ’l terreno,
dicendo: “Or prove la virtù Norgalla,
se di quella di Gorre possa meno”.
Ma si rinforza il fero Maligante,
e più saldo e leggier che fosse innante;

con mille colpi e tutti nella testa,
il cavalier Norgallo ripercuote;
non rivolge tant’onde atra tempesta,
quando più soffia il vento di Boote;
ned ei per tutto ciò queto s’arresta,
né le speranze sue rimangon vòte,
ma col cor’alto e con la spada stretta
fa del duol che gli vien chiara vendetta.

Ma il nobil Lancilotto, ch’ha timore,
che ne possa avvenir più grave danno,
entra in fra loro e frena quel furore,
che dolce sembra e poi n’apporta affanno;
e ’l re Lago e i compagni il primo onore
al cavalier Norgallo uniti danno;
perch’al correr dell’asta fu sovrano,
come l’altro alla spada oprar la mano.

Così quel di Brunoro ebbe le spoglie,
l’altro di Dinadan senza contesa;
indi il buon Lancilotto si raccoglie
con l’altra schiera a muover liti intesa,
dicendo: “Qual di voi spronin le voglie
d’esercitare i piedi all’alta impresa
del leggier corso, innanzi si dimostri,
e nessun vòto andrà de’ pregi nostri;

che due famosi cani avrà il primiero,
ch’avanzan di grandezza ogni molosso;
e ciascuno è di lor sì forte e fero,
ch’ave e l’orso e ’l leon di vita scosso;
e d’oro ornate con lavoro altero
tutto armato ha di piastre il petto e ’l dosso;
del medesmo ave al collo aspro monile,
ch’ogni aguto ferir si tiene a vile.

Avrà il secondo un animoso pardo,
che di spoglia ricchissima è coperto;
al cui correr veloce è il vento tardo,
snello e vago ha il saltare e ’l morder certo;
sarà premio del terzo un leve dardo,
di cui d’ebano è l’asta e ’l ferro ha inserto
di sì incantata e sì mirabil tempre,
che ciò ch’ei può ferir l’uccide sempre.

Né fien vòti di pregio gli altri ancora,
e sia quanto potrà lunga la schiera;
ch’assai tesor di spoglie mi dimora,
ond’io possa gradir la gloria vera”.
A sì dolce invitar già mostra fuora
la persona ch’avea sciolta e leggiera,
di veste scarca il suo cugin Boorte,
appellando i vicini a quella sorte.

Surge Landone il destro, che ’n su ’l passo,
che più guarda all’Ibernia, avea la sede,
poscia Alibel di Logres e Finasso
nodrito in Catanesia sol di prede;
vien doppo il bel Nortvallo Meliasso,
alla cui gran beltade ogni altro cede;
poi s’aggiunge Mandoro e Bandegamo
vaghi di riportar di pino il ramo.

Mettegli Lancilotto insieme eguali,
poi dà il segno la tromba e quei repente,
qual la rigida corda i levi strali,
lassano il seggio lor velocemente;
Boorte va il primiero e s’avess’ali
d’aquila, non porria gire altramente;
seguelo assai vicin Landone il destro,
che tra i primi cursori era maestro.

Poi venia Bandegamo e presso a quello
il vago Meliasso, che vincea
de’ giovinetti il nobile drappello,
che della pari età nell’oste avea;
poco lontan Mandoro ed Alibello;
ma indietro a tutti gli altri rimanea
con suo troppo dolor Finasso il Bianco,
che pur quanto potea veniva al fianco.

Già nel mezzo del corso avea Landone
racquistato Boorte e innanzi giva;
ch’al cominciare, il fren più che lo sprone,
in sé medesmo usato, or rifioriva
il servato vigor, ma il ciel s’oppone
alla speranza sua già ferma e viva;
ch’ove i destrier giacean di Lancilotto
la notte a rinfrescarse, era condotto.

E ’n fra l’umida paglia e ’l lordo fimo,
non riguardando ben col passo scorse,
tal che si trova in basso e ’l volto il primo
nel bagnato terren cadendo porse;
ogni uom che rovinar dal sommo all’imo
il quasi vincitor sì presso scorse,
grida per la pietà, poi seco ride
quando il viso asciugarse irato il vide.

Non s’arresta Boorte e con gran gioia
di ciascun riguardante ha il sommo loco;
ratto spedito dell’avuta noia
arrivato è Landon dopp’esso poco;
vien Bandegamo il terzo e se n’annoia
tale il franco Mandor, che par di foco;
che poi ch’esser non può fra’ primi dui,
ferma speranza avea di vincer lui.

Alibel doppo lor venne e Finasso
così giunti fra lor, che mal porria
alcun ben giudicar chi s’abbia il passo
posto più innanzi o chi ’l perdente sia;
l’ultimo a tutti gli altri è Meliasso,
la cui tenera età la lunga via
mal poté sostenere e ’l volto ha pieno
d’amaro lagrimar di doglia il seno.

E la vergogna e l’ira in lui raccresce
lo splendor giovinil che ’l face adorno;
volgesi a Lancilotto e lasso mesce
le note tra i sospir con greve scorno,
e dice: “Io veggio ben ch’al ciel rincresce
di chi visse quaggiù più lungo giorno,
se di tutto lo stuol di me più antico
solo abbassando noi si mostra amico”.

Ride il pio Lancilotto e gli risponde:
maggior d’essi mercede avrete certa,
ch’alto desio che ’n giovin core abbonde,
quanto l’altrui vittorie il pregio merta”;
indi una aurea ghirlanda, che le fronde
agguagglia dell’allor, di gemme inserta,
sovra i biondi capei gli pone e dice:
“Al buon vostro voler portarla lice”.

I due famosi can Boorte prende,
Landon quasi sdegnoso il leve pardo,
dicendo: “Tale onor, signor, vi rende
più il mio fero destin, che l’esser tardo”;
e l’altro a lui ridendo: “Se v’offende
il cielo e del mio bene ha tal riguardo,
assai mi pregio io più, perché più vale
favor divin ch’ogni virtù mortale”.

Il prezioso dardo ha Bandegamo,
Lancilotto a Mandoro una cintura
dona arricchita di sottil ricamo,
con la spada ch’è forte oltra misura;
e per mai non aver giusto richiamo,
d’adeguar bene il pregio assai procura
in tra Finasso il Bianco ed Alibello,
senza offender la mente a questo o a quello.

Et uno aureo monile, il qual gli avea
il gran re Clodoveo l’altr’ier mandato;
che nove volte il collo gli cingea;
per richiesta di lui gli fu portato;
e due d’esso eguai parti ne facea,
poi di par n’ha ciascun cortese ornato;
indi prega la schiera, ch’è più degna,
ch’a nuova altra tenzone innanzi vegna.

Così fa in mezzo addur di grave peso
grossa sbarra di ferro e dice poi:
“Chi di questa in più spazio avrà disteso
il corso per sua man di tutti voi,
avrà il famoso brando che Galeso
oprò, quantunque indarno, sovra noi,
quando al fin cadde a terra; ed è cotale,
che no ’l può bene alzar forza mortale.

Dell’altro fia il suo scudo, ch’è sì grande,
che tre simili a noi porria covrire;
qual convenne a gigante, onde si spande
l’aspra fierezza, che facea morire
i guerrier vinti e in orride vivande
sovra la mensa poi gli fea venire;
il terzo avrà di lui l’elmo e ’l cimiero,
ov’ha Marte legato e prigioniero”.

Non contò gli altri don, che Maligante
era già ratto accorso e Gargantino,
poscia il re Pelinoro poco innante,
all’incontro Agraven che gli è vicino;
più d’un re duce e cavaliero errante
già per esser con lor prende il cammino,
ma vedendo Tristan già surto in piede,
privo d’ogni speranza indietro riede.

Fu il primo Gargantin, che in man si prende
la salda sbarra e ’ntorno la rimira;
le forze e ’l peso esamina e comprende,
e tutto intento alla vittoria aspira;
alza quanto sa il braccio, indi lo stende,
e col poter quanto ha spingendo tira
la ferrea salma, che volando freme,
e ben lunge da lui l’arena preme.

Doppo il primo avventar viene Agraveno,
a cui il loco secondo in sorte è dato;
che di manco poter non parve pieno,
che fere al par di lui l’istesso lato,
ma ben d’arte maggior; che nel terreno
meglio è confitta e in modo più lodato;
Pelinoro, ch’è ’l terzo, innanzi passa,
e i colpi d’ambe due più indietro lassa.

Vien Maligante appresso e certo stima
di potere avanzar quei tre di molto;
ma perché vuole aver la palma prima,
usa tutto il saver ch’ha in sé raccolto;
ch’or la prende al più basso, ora alla cima,
or l’ha nel proprio mezzo il pugno avolto,
e va intorno librando il come e ’l d’onde
al securo avventar meglio risponde.

Poi chinandosi a terra, dell’arena
rende aspro il ferro e la sudante mano,
stringel ben poscia e la nervosa schiena
forma in arco incurvato, indi pian piano
ritorna in alto e poi con tanta lena
il gettò da’ suoi piè così lontano,
ch’al segno de i tre primi innanzi vada
quanto lunga due volte avea la spada.

L’ultimo fu Tristan ch’a lento passo
alla prova ordinata si presenta;
recasi il ferro in man, che giace in basso,
così leggiero a lui ch’a pena il senta;
poi d’ogni cura il cor mostrando casso,
qual’asta il cacciator, sì forte avventa,
che il nobil Maligante ha superato
quanto tira il baston pastore irato.

Grida il popol d’intorno e ’l chiaro nome
del vincitor Tristan porta alle stelle;
e Lancilotto a lui: “Le vostre chiome
già di mille corone ornate e belle
non devranno sdegnar, che di vil some
il loro antico onor si rinnovelle”;
e gli porge d’oliva una ghirlanda,
ch’ei guadagnò nella famosa Irlanda.

Dicendo: “In cotal prova guadagnai
questa nel suo terren dal buon re Claro;
e perch’altro miglior non vidi mai
infino a questo dì, né vissi avaro;
or perché cedo a voi, s’io meritai,
che dono alcun de’ miei vi fosse caro,
prendetela, vi prego, e non vi sia
a sdegno il suo valor, poi ch’ella è mia”.

L’accetta il buon Tristano allegramente,
dicendo: “E come vostra oggi la prendo,
non perch’a voi non ceda interamente,
che ’l vostro al mio valor supremo intendo;
la spada ben’avrò come vincente,
poi che più di quei quattro il ferro stendo”.
Maligante lo scudo e Pelinoro
ha il grand’elmo lucente ornato d’oro.

Una possente scura ad Agraveno
diede pur Lancilotto, ch’ebbe insieme
del medesmo Galeso e fa sereno
il cor di Gargantin, che d’ira freme,
con la mazza d’acciar ch’avea Drumeno,
che dell’Ircania nelle parti estreme
fu fabbricata in sì mirabil tempre,
che ciò che percotea squarciava sempre.

Al dritto saettar propone i pregi,
dato a quel fine, il gran figliuol di Bano;
una faretra pria d’aurati fregi
piena di strali e l’arco Soriano;
serba al secondo degli arcieri egregi
un forte anel, che per tirar lontano
la corda incocche, ove un rubin riluce,
che del foco e del sol vincea la luce.

Una fromba è del terzo ornata e bella,
di serico lavor contesta e d’oro:
già s’appresenta il primo e gli altri appella
il Nortfolco onorato Ganesmoro,
dicendo: “Quei che spinge amica stella
a commetter’a i venti i colpi loro,
vengan senz’aspettar nuova richiesta
a sì onorata impresa come questa”.

Surge Baveno allora il pio cugino
del chiaro Lancilotto, indi il fratello
del fer Boorte, ch’era a lui vicino,
muove seco anco il Franco Lionello;
son già i tre insieme e ch’al voler divino
chi sia in prova il primiero o questo o quello
consenton si rimetta e i nomi d’essi
al profondo d’un elmo son commessi.

Fu tratto innanzi il Gallico Baveno,
poi Ganesmoro e Lionello appresso;
ivi congiungon legni alti non meno,
che nell’Ida Cretea pino o cipresso;
pongon poi d’essi nell’estremo seno
una colomba candida, ch’oppresso
ha l’uno e l’altro piè da laccio breve,
ch’esser de’ loro strali il segno deve.

Alza il re Ganesmoro il suo forte arco
con lo stral, ch’alla corda avea la cocca;
poi disegnato assai con l’occhio il varco,
che più dritto il conduce, il nervo scocca;
va la saetta ben, ma il colpo è parco,
che del segno più in basso alquanto tocca;
suona il verde sostegno e per la tema
l’ali il pavido uccel scotendo trema.

Vien Baveno il secondo e dritto coglie
il laccio che la tien, col forte strale,
tal che senza suo danno la discioglie,
et ella indi fuggendo spiega l’ale;
ma Lionel che scorge le sue spoglie
portarne il vento e l’aspettar non vale,
lo stral che sovra l’arco avea già posto,
ove la vide gire addrizza tosto:

e quasi in fra le nubi in alto ascosa
il colpo micidial l’ha ritrovata;
percuotela ove all’omero si posa
la sinistra ala, onde riman privata;
tal che poi moribunda e disdegnosa
rivolgendo per l’aria e ’nsanguinata
a i piè del percussor venne a cadere,
e ’l popol riempie il ciel di grida altere.

Poi molto doppo lei quell’ala ancisa
raggirata dal vento in basso scende;
l’una e l’altra raccoglie in lieta guisa
il nobil Lionello e ’l pregio prende;
così fan gli altri e Lancilotto avvisa,
che ’l dì, che in occidente il corso stende,
non l’ammonisce in van, che l’ottav’opra
prima si rechi a fin, ch’e ’l sol si copra.

E dice: “Chi vorrà venire in prova
della lancia avventar dritta e lontana,
avrà, sendo il miglior, non d’opra nuova,
ma di mano antichissima e sovrana
lo scudo che donò, se ’l creder giova,
Teti al figliuolo alla città Troiana,
da Vulcan fabbricato ed a me il diede
Viviana e che sia tal mi facea fede.

L’altro un’asta bellissima ch’ancora
si pensa esser d’Achille in Pelio colta”.
Creuso il Senescial si drizza allora,
e doppo forse poi schiera più folta;
ma il magnanimo Arturo, che vien fuora,
e con la maiestà ch’era in lui molta,
dice: “Io sarò con voi”; fu la cagione,
che non vennero in prova altre persone.

E Lancilotto stesso, che s’accorge
della troppa umiltà, va riverente,
e lo scudo fatato in man gli porge,
dicendo: “A voi convien veracemente,
perché in voi tal valore o più si scorge,
che già nel suo signor primieramente;
e poi senza provar, tutti intendemo,
che in ogni parte a noi sete supremo.

Però vi piaccia il prenderlo e volere,
che del vostro Creuso l’asta sia”.
Ride il famoso Arturo e “Dispiacere”,
dice, “Non voglio a tanta cortesia,
e ’n memoria di voi m’aggrada avere
il prezioso dono e per tal via
prenda l’asta Creuso”; e ’l pregio porge,
che gliel serbi Agraven, che presso scorge.