Canto XXII

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Canto XXI Canto XXIII

 
D’argentato color l’alba splendea,
a’ mortali e gli dei menendo il giorno,
quando, accusando ancor la sorte rea,
al morto Galealto era d’intorno
l’invitto Lancilotto e s’assedea
sovra lo scudo de’ suoi beni adorno;
ma come lei spuntar di fuora vede,
lassa ogni lamentare e quella sede.

E con alto chiamar risveglia i suoi,
che non molto lontano a lui si stanno,
dicendo a tutti: “O più famosi eroi,
ch’ebbe ancor mai l’esercito Britanno;
men ch’a quanti altri son conviene a noi,
ché deviam vendicar lo scorno e ’l danno
di sì altera corona e sì famosa,
che ’l dì quasi vicin ne trove in posa.

Or raccogliete in un le vostre schiere,
ch’ogni duce de’ suoi la cura prenda,
mentr’io vò il grande Arturo a rivedere;
acciò che il mio voler più certo intenda;
ch’io non vo’ più lo sdegno ritenere,
poi che l’irato ciel per se n’offenda;
e seguane che può, che di lui solo
sarò sempre guerrier, servo e figliuolo”.

Così dicendo, solo e disarmato
al padiglion reale a piè s’invia;
truova il buon re dal sonno già svegliato,
ché ’l romor, benché lunge, udito avia;
entra l’araldo Amaso e ch’arrivato
era ivi Lancilotto gli dicia:
fecel subito entrare e sovra il letto,
onde non move ancor, l’abbraccia stretto.

E pien di dolci lagrime l’accoglie,
dicendo: “Or non morrò se non contento;
or la speme ch’avea dell’altrui spoglie,
non temo più, che se ne porte il vento”:
in questo mezzo omai lì si raccoglie
l’altro drappel de’ duci in un momento,
ché del venir di lui senton la fama,
e ’l compagno e ’l vicin l’un l’altro chiama.

Venner tra’ primi i folgori di guerra
Maligante e Boorte a lento piede,
sopra l’aste appoggiandosi alla terra,
ché ’l dolor delle piaghe ancor gli fiede;
e Lionello entrambe si riserra,
perché degli omer suoi si faccian sede,
questo a sinistra e quello a destra mano;
poi seguiva il re Lago e ’l pio Tristano.

Doppo i quai Gargantino e Pelinoro,
Abondano, Uriano ed Agraveno,
Landone, il Brun, Mandrino e Talamoro,
e ’n tra i primi onorati iva Gaveno,
che del sommo piacer, che scerne in loro,
un non picciol dolor s’asconde in seno;
sol restò Florio e ’l cavalier Norgallo
di soverchio impediti e Persevallo.

Or nel cospetto lor l’alto guerriero,
poi che baciato avea la regia mano,
così dicea: “Gran re, di cui l’impero
ha di gloria ripien presso e lontano,
il terren gallo, il betico e l’ibero,
il nobil seno italico e ’l germano;
eccovi il traviato Lancilotto,
ch’al suo dritto cammino è ricondotto:

onde i passi torcea, non per orgoglio,
ma menato, credea, da giusto sdegno;
né per tama maggior di quel ch’io soglio,
al gran seggio reale umile vegno,
ma perché tardo omai troppo mi doglio,
ché del pio core uman passato ho il segno,
di lassar tanto stuol lasso perire,
e sì onorati duci a morte gire.

Deh quanto era il miglior per ambeduoi,
che non fosse mai nata Claudiana:
o ch’ella fosse morta e ’nsieme i suoi
frati, usciti quaggiù di stirpe strana?
Quel dì che prigionier gli fé di noi
fortuna, de’ miei ben sempre lontana;
ché mi diè gran vittoria e ricche spoglie,
perché mi fosser poi tristezza e doglie;

perch’io vedessi poi di morte avvolto,
degli avversari suoi trionfo e scherno,
del mio buon Galealto il regio volto
per la funesta man del crudo Iberno;
nudo, di polve e d’atro sangue avvolto
di tutti i miei pensier tormento eterno;
ch’ovunque io volga mai gli occhi e la mente,
qual’io ’l rividi ier mi sta presente.

Ma poi ch’altro non puosse, a noi conviene
por con necessità l’animo in pace
in quel ch’è già seguito; perché avviene
dal voler di colui che tutto face,
e dentro alle cui braccia il male e ’l bene
de’ miseri mortali accolto giace;
e ’l soverchio dolerse a donna aggrada,
ch’altro a sfogare il cor non ave strada.

Ma il forte cavalier col vendicarse
debbe aprire il sentiero al suo dolore;
e se trova in ciò far le stelle scarse,
sappia il mondo lassar con dritto onore:
or se in altra stagion questa fiamm’arse
d’altro offeso guerriero un nobil core,
arde ora il mio, che d’Etna il monte sembra,
se del suo Galealto gli rimembra.

E però tutto umile a voi ritorno,
ogni sdegno primier posto in oblio,
pregando, ch’a voi piaccia in tal soggiorno
prender tra i peggior vostri il brando mio,
ch’io possa ristorar l’avuto scorno
dall’empio Segurano e ’l fato rio
del dolce amico, che vedrà dal cielo,
che di lui mi riman l’istesso zelo”.

Qui finio Lancilotto; e quei che stanno
d’intorno ad ascoltar, ferma fidanza
han già di ricovrar l’antico danno,
tal della sua virtude è la speranza;
e ’l lieto bisbigliar, che ’ntorno fanno,
empiea d’alto romor la regia stanza,
fin ch’amico silenzio Amaso impose,
et allora il gran re così rispose:

“Valoroso figliuol del gran re Bano,
io non posso negar, che di ragione
non fosse il mio parlar tanto lontano,
che di farvi sdegnar mi diè cagione;
ma sappia il mondo pur, ch’alfin sia vano
de’ più saggi mortali ogni sermone;
ché spesso in questo o in quel la colpa stende
di ciò che ’l ciel fra noi dispone e intende.

Vero è ch’e’ non adempie il suo volere
sciolto d’ogni altro mezzo assai sovente,
ma dal bene o del mal dona il potere
in cui gli aggrada dell’umana gente;
l’altr’ier gli piacque delle nostre schiere
una parte, qual feo, render dolente,
e consentì fra noi l’ira e lo sdegno,
per conducer’ al fin l’aspro disegno.

Com’or forse bramando, a quel ch’io spero,
d’abbassar di Clodasso il duro orgloglio,
il fin per Segurano acerbo e fero
condusse in Galealto, in voi cordoglio,
onde spento riman lo sdegno altero,
ch’al nostro navigar si facea scoglio;
ma in tal guisa adoprando, scorta fida
è più sempre di quel, che ’n lui s’affida.

Però, caro figliuol, grazie rendemo
al suo santo volere, onore e lode;
ché pria che ’l danno suo giunga all’estremo,
del britannico stuol le preghiere ode;
il qual del nuovo amore, in che noi semo,
racconsolato in cor s’allegra e gode,
e per la vostra man bramoso aspetta
gloria, trionfo, onor, pace e vendetta.

E quanto oggi e poi sempre amica e cara,
e gioconda mi sia la pace vostra,
ve ’l mostrerà la man, che non fia avara
di quanto v’offeriro in vece nostra
Maligante e i compagni, poi che chiara
farem tornata alle paterne chiostra;
in cui voi tutto solo avrò più in pregio,
che quanti altri mai fur di nome egregio”.

Così parlava; e ’l chiaro Lancilotto
rispondea: “Assai mi fia quel puro maore,
ch’or mi mostrate; il qual m’ha solo indotto,
non desio di tesor, né d’altro onore;
or pria che ’l sole in alto ricondotto
sovra il nostro terren riscaldi l’ore,
chiamin l’altere trombe la battaglia,
e riprenda ciascun l’antica maglia.

Et io ’ntanto fra’ miei farò ritorno,
e vestirò volando l’armadura,
e di spinger’avanti il nostro corno
sì che vada il primier, prenderò cura,
vago di sciorre omai l’empio soggiorno
delle genti aspre e delle acerbe mura,
ove alberga colui, che tolto m’ave
chi solo il viver mio rendea soave.

E mostrerò, sper’io, se la virtude
di Lancilotto è morta o se indormita
fu dallo sdegno ardente, che si chiude
in lei, s’al suo signor poco è gradita;
e si potran veder tant’alme nude
prender nuovo sentier da questa vita,
ché maledetta ancor di Segurano
da mille madri fia la cruda mano.

Or non si lasse indarno il tempo gire,
moviam pur tosto ove il voler mi sprona”.
Ma il famoso re Lago a questo dire
si volge e parla: “Altissima corona,
poi ch’al vostro giustissimo desire
soccorre il ciel, che i buon non abbandona,
in farvi ritornar congiunto e fido,
chi d’ogn’altro gran duce avanza il grido;

mi par che omai si debba, quale ha detto,
tosto a battaglia uscir, ma in mente avere,
che non fia mai guerrier così perfetto,
che vaglia il lungo affanno a sostenere
assetato e con fame, a cui disdetto
dalla natura al fin non sia il potere;
e però il faticar, che molto fia,
prenda d’esca e di vin sostegno pria.

Vadan dunque gli araldi e ’n vostro nome
comandin che ciascun l’albergo trove,
solva il digiun; poi di lucenti some
d’arme esca carco alle battaglie nuove;
e questi regi e duci, ch’han le chiome
di lauri ornate in mille altere prove,
faran ghirlanda alla rotonda mensa,
ch’agguagliati gli onor per voi dispensa”.

Così disse il re Lago; e ’l grande Arturo
con lietissimo volto l’acconsente,
seguendo: “Poi che ’l fato acerbo e duro
impiagato mi tien, lasso, e dolente,
che ne assereni almen l’animo scuro
in veder qui di sì famosa gente
lo sconsolato e vedovo soggiorno,
e del suo Lancilotto essere adorno”.

Qui finito il parlar, già in mezzo appare
chi la mensa e chi l’esca conducea,
quando il figlio di Ban: “Certo mi pare
ottimo ogni consiglio”, rispondea;
“Che pochi pòn fra gli uomini durare
lunga stagion contra la fame rea,
ch’ogni vigor, ch’ogni valore ammorza,
e ch’al tartareo seno andar ne sforza;

pur vi supplico umil, ch’e’ non vi spiaccia,
glorioso mio re, che ’ndietro rieda,
a ciò che al voto mio non contraffaccia;
il quale è ch’al digiun già mai non ceda,
in fin che questa man vendetta faccia
di quel re miserel di morte preda;
e doppo lei, se ’n vita sarò ancora,
poco andrò poi di vostra vista fuora”.

Ma il saggio re dell’Orcadi, che ’ntese
il dannoso consiglio, gli risponde:
“La natura mortal mai sempre intese,
che la giovine età di forza abbonde;
la qual degli anni poi sentendo offese,
al più canuto viver si nasconde;
e però in questa parte non vorrei
indarno contrastarvi e cedo a lei.

Non è il senno così, ch’ei vien da gli anni,
e nel cor giovinil mal può trovarse,
ma da i passati sol travagli e danni,
e di se stesso e d’altri può impararse;
né sia chi indarno mai pensi o s’affanni
per grave studio in breve saggio farse,
che non meno è ingannato, ché chi spera
saper l’arte in un dì del fabbro intera.

E però s’io dicessi esser di voi
in questo per l’etade assai sovrano,
non vi sia sdegno il consentirlo a noi,
perché dal vostro onor non fia lontano;
e mi crediate quetamente poi,
ch’a voler bene adoprar l’arme e la mano
convien con l’esca fermo mantenere
il vigor, che di lei privato pere.

D’amarissime lagrime un sol giorno
render si deve onore a chi sia morto,
d’esse indi sendo e di sepolcro adorno,
prender’al faticar dolce conforto;
che per l’altrui doler non fa ritorno,
chi di morte al cammin dal fato è scorto;
e s’arme in chi l’uccise la vendetta,
non sopra il ventre suo, che ’l cibo aspetta.

Non cercate voi stesso in grado porre,
che non possiate poi seguir la voglia
così onorata in voi, di luce torre
a chi vi diè cagion di tanta doglia;
ma per ogni cammin tutta raccorre
la forza invitta, che i nemici addoglia,
donando or qui fra noi gioconda salma
d’esca alle membra e di dolcezza all’alma”.

Il gran figlio di Ban cortese in vista
al buon rettor dell’Orcadi rispose:
“Il vostro saggio dir tal fede acquista,
che riveder mi fa le strade ascose;
ma del mio fido ben la morte trista
ogni ragione al cor per modo rose,
che la salute sua gli sembra amara,
e la dannosa via soave e cara.

Né gli poss’io disdir, né voglio ancora;
però vi prego umil, che mi sia dato
girne all’albergo mio, dove dimora
tutto lo stuol, che già m’attende armato;
et io spero con lui, che ’n ciel s’adora,
pria che sia nell’occaso il dì corcato,
vendicar Galealto e scarco poi
alla mensa reale esser con voi”.

E dicendo così fece ritorno,
ove in ordin ritruova le sue schiere,
ch’han le squadre a cavallo fuor del corno,
e nel mezzo spiegate le bandiere:
va il tutto ratto visitando intorno,
e dicendo a ciascuno: “Ogni uomo spere
di fare oggi tal pruova, che sia ditto,
che ’l vostro alto valor fu sempre invitto:

e non senza cagione al mondo sembri,
ch’a voi servata sia la prova estrema,
e del buon Galealto vi rimembri,
l’alma chiara di cui di spoglia è scema;
ché de’ suoi sanguinosi e ’ncisi membri
sol la speranza in voi loca suprema,
che la vendetta sia così per tempo,
che non ne rida Avarco lungo tempo”.

Così detto, ritorna al suo soggiorno,
ove giacea disteso Galealto;
il qual discopre e pon le braccia intorno,
poi doppo un gran sospir focoso ed alto
gli dice: “Anima eletta, in questo giorno,
o ch’io sarò dal doloroso assalto
teco congiunto in cielo o che vedrai
in altrui più che in noi terrestri guai”.

Indi appella Santippo il suo scudiero,
che le sue celesti arme gli appresenta,
ond’ei ratto si cuopre e ’n su ’l destriero
tutto snello e leggier poscia s’avventa:
al qual ragiona: “O mio Nifonte altero,
non sia in te la virtù per oggi spenta,
ch’alzò già il nome tuo per ogni loco,
ove del guerreggiar più ardesse il foco.

E ’n questo ultimo dì ti risovvegna,
quanto al mio, lasso, anzi al tuo stesso onore
fallisti ier; ché chi nel mio cor regna,
lassati in preda all’altrui rio furore;
sì ch’or più bello oprar convien, che spegna,
la tua larga vergogna e ’l mio dolore;
riportando di lui la spoglia opima,
ché posti n’ha d’ogni miseria in cima.

O t’appresta animoso ad esser privo
oggi insieme, quand’io, di questa luce;
ch’e’ non s’intenda mai che resti vivo
doppo il primo signor sott’altro duce”.
Così parlando e d’ogni indugio schivo,
dell’arme squadra la splendente luce,
onde sovra ’l mortal lieto si goda,
poi le braccia e le spalle accoglie e snoda.

E prova ad uno ad un se stringa o grave,
o se ’l moto da lor vegna impedito;
ma il tutto gli è più acconcio e più soave,
che di serico filo il drappo ordito;
prende poi l’asta in man sì grossa e grave,
che non fu mai guerriero in alcun lito,
che crollar la potesse, se non solo
ei, che par non avea sott’altro polo.

Indi fra’ suoi si spinge a’ quali apparse
Marte, quando più irato a terra scende;
nulla cometa in ciel sì lucida arse
qual’essa il dì, ch’al suo cimiero splende;
presso all’aurato scudo erano scarse
le chiome vaghe, che l’aurora stende;
parean l’elmo e l’altr’arme fiamme vere
scese a lui intorno dalle stelle altere.

Ma Gaveno, il re Lago e ’l pio Tristano
con gli altri duci poi le genti accoglie;
che parean da gli alberghi uscendo al piano
api, ch’al gran mattin le regie soglie
lassan, quando l’april resta sovrano
del tempo rio; che fior novelli e foglie
van depredando avare, ovunque intorno
l’almo prato o ’l giardin si mostre adorno.

Poi da’ destrier percossa alta fremea
la bassa valle e la sua nuda arena
d’argentato colore esser parea,
e d’ardenti faville intorno piena;
che si come la torma il piè movea,
sembrava tutta il ciel, quando balena
più sovente la notte, onde si vede
ora il chiaro ora il brun che l’aria fiede.

Né le schiere d’Avarco d’altro lato
stanno al muover di quei nel sonno avvolte,
ma per l’onor primiero guadagnato
han più larghe speranze in core accolte;
e ’l trionfante Iberno s’era ornato
delle chiare armi al gran nemico tolte;
e riducendo a’ suoi la forma antica
salutava ciascun con voce amica.

Dicendo: “Oggi è quel dì, ch’aperto spero,
che l’intera vittoria in noi pervegna,
se ’l giovin Lancilotto irato e fero
del miser Galealto a guerra vegna;
ch’or più non ave, ond’egli andava altero,
l’arme incantata, che securo il tegna,
sì come già gli avvenne altra fiata
con l’aiuto immortal della sua fata”.

E così ragionando, innanzi sprona
con Clodino e Brunoro e Palamede,
Gallinante e Rossano e tutta dona
la cura a Terrigan degli altri a piede:
or già da tutti i lati s’abbandona,
per l’altrui guadagnar, la propria sede;
solo il gran Lancilotto il piè ritarda,
e dove aggia a ferir d’intorno guarda.

Quale ardito leon, ch’al prato scorge
di cervette e di damme e vili armenti,
che non degna seguirli e innanzi porge
gli occhi, ch’a maggior preda erano intenti;
poi ch’aspro orso o cinghial vede, che insorge,
arma sol contr’a quei gli artigli e i denti,
e i fianchi percotendosi e la terra
con la setosa coda muove a guerra.

Tale il gran Lancilotto acceso d’ira;
e d’ardente desio d’alta vendetta,
s’ei vedesse l’Iberno gli occhi gira,
perché contr’a lui sol trovarse aspetta;
poi conoscendo in sé, che ’ndarno mira,
né ’l porria riveder, tanto era stretta
la turba che veniva e tal la polve,
che ’l sabbioso sentier di nube involve;

Or chi potrà narrar, senza l’aita,
che vien sola da voi, di Giove figlie,
il valor sommo e la virtù gradita
di Lancilotto e l’alte meraviglie,
che tanti chiari cor privò di vita,
e fé l’onde dell’Euro adre e vermiglie?
Siate dunque al mio dir sostegno fido,
ch’ei se ne senta almen dappresso il grido.

Muove il piè innanzi a’ suoi con quel furore,
che Giove irato il folgore n’avventa;
percuote entr’a i nemici col romore,
ch’Etna le piagge sicule spaventa;
trova Antifate, Alcanore ed Antore,
Catillo, Erminio, Remulo e Tarpenta
l’un doppo l’altro a sorte e tutti e sette
nel suo primo arrivar per terra mette.

Morti i quattro; impiagato poscia il resto
con l’urto del caval rotto e fiaccato,
dell’asta intera ancor venne molesto
a Polidoro, Oronte, Erdo ed Asato,
gli altri tre riversati e sopra questo
della forte asta sua riman privato;
solo il troncon gli resta in man, col quale
l’altro stuol che gl’incontra, intorno assale;

ch’ei si sdegna di trar l’altera spada
sovra il popol vicin, che vil gli sembra,
e si facea lassar larga la strada,
or le fronti rompendo or l’altre membra;
passa oltra sempre innanzi e nulla bada
a quel che faccia altrove; e gli rimembra,
che sol contra il nemico Segurano,
non contra altro, che sia, s’armi la mano.

Ma fa quale il villan, che gire intende
nella selva a tagliar la querce annosa,
che quella spiana e questa a basso stende,
ch’al passare in cammin gli vien noiosa;
tal Lancilotto face a chi contende
il ritrovar quel loco, ove si posa
quel ch’ei sol cerca e che vorrebbe solo,
perdonando ogni colpa all’altro stuolo.

Ma no ’l può rivedere, ovunqu’ei muova
con ratto corso il candido destriero;
or quinci or quindi con desio rinuova
dalla speme fallita il suo sentiero;
or mentre ancide e fiacca si ritruova
con Gallinante, il giovinetto altero
di Giron nato e della bianca Arana,
ch’era de’ suoi pensier donna e sovrana.

Quando il vede vicin, ch’ardito viene
col grande scudo d’oro traversato
sol di porporea riga, risovviene
al chiaro Lancilotto in altro lato
d’averlo visto e ’l suo troncon ritiene,
per non far’onta a cavaliero ornato
d’una insegna sì nobil, ch’apparisse,
che dal franco Girone in lui venisse.

Il quale ebbe in onor sovra ciascuno,
e morto più che mai l’apprezza e cole;
né gli cangia pensier l’esser del Bruno,
sì come Segurano, onde si duole;
e pria che fare al giovin danno alcuno,
con cortesi preghiere intender vuole
chi sia, dicendo: “Non vi spiaccia, ch’io
sappia il nome di voi, come desio,

valoroso signor, da poi che degno
di portar tale scudo vi stimate
del famoso guerrier, che ne fé degno
il secol nostro e qualunque altra etate;
e per qual sia cagion, che ’l picciol segno
del color porporino vi mischiate;
perch’io intenda primier da cui riporte
onorata vittoria o trista morte”.

Risponde il giovinetto: “Volentieri;
glorioso figliuol del gran re Bano;
Gallinante son’io, tra i liti feri
nato d’Ibernia, al padre mio lontano,
che fu Girone e per istran sentieri
ho seguito il cugin mio Segurano,
sperando esser con voi, non con Clodasso,
ma di quanto bramai son nudo e casso;

ch’avendo egli sposata la figliuola,
in Avarco e tra’ suoi mi tiene a forza,
ma l’alma ho con voi sempre e riman sola
di me con lor la rilegata scorza;
la quale aver sotto la vostra scuola
così tosto sper’io, come s’ammorza
alquanto il guerreggiar; ch’e’ non si dica,
che mi scacce il periglio e la fatica,

che se ben mi fé il ciel di madre Iberna,
vien la parte miglior dal terren gallo,
ch’avrà sempre di noi memoria eterna,
e fora il lui lassar soverchio fallo;
or perché in nulla guisa non si scerna
macchiato il mio dever, sendo a cavallo
in favor di Clodasso, alla battaglia
di dimostrarvi bramo quant’io vaglia”.

Così parlando, a guerra s’apparecchia;
ma il nobil Lancilotto sorridendo
dice: “Il perfetto amor, quanto più invecchia,
più si deve affinar, s’io ben comprendo;
onde all’ultimo dir chiuder l’orecchia,
e d’oprar con voi spada non intendo;
vi prego io ben, quando l’onore il porta,
che deggiate d’Arturo essere scorta:

e che vi piaccia or qui per nostro amore
di portar sempre in guerra questa spada,
che m’ha fatto talor sì largo onore,
che i nemici maggior m’han fatto strada;
e si face ivi addur d’alto valore
da Santippo fedel, che intento bada,
un fortissimo brando e la cintura
piena di gemme vaghe oltra misura.

La qual sempre portava s’avvenisse
della miglior ch’avea, fortuna ria,
che tra quante più fine erano affisse
alla dogliosa guardia presa avia;
il giovinetto a lui non contradisse,
ma se la cinse allor con voglia pia,
e quell’altra, ch’avea, cerca con preghi,
che di prenderla in vece non gli nieghi:

dicendo: “Ella fu già del mio Girone,
della qual don mi fé quando morio,
e per narrare il vero, altra stagione
più matura convienle al poter mio;
ch’oggi ha il terz’anno pur, che ’n su l’arcione
montai, partendo dal terren natio,
e di tre lustri soli era il natale,
sì che meglio è per voi brando cotale”.

Prendela Lancilotto e ponla in mano,
poi che grazie rendeo, dello scudiero;
poscia il domanda: “E ’l vostro Segurano,
che del nostro dolor va così altero,
ov’or si sta, che presso né lontano
non si vede apparir sovra il sentiero?
Dite per cortesia, dove il lassaste,
tra cavalieri armati o pedestri aste?”

Risponde Gallinante: “Ei non è lunge
con Clodin, con Brunoro e Palamede,
e verso il buon Tristano il destrier punge,
vicino ove l’Euro ha l’umida sede;
ch’or questi spinge innanzi, or ricongiunge
quei ch’e’ vede ire sparsi e ben provvede
ove il bisogno vien, da poi ch’ha inteso,
che sete in guerra voi di sdegno acceso”.

Il ringrazia egli allor; poi ratto sprona
verso la destra mano, ove ha sentito,
ch’è l’avversario suo; né spinge e tuona
più il cruccioso aquilon nel tracio sito,
quand’Eolo al più gran verno lo sprigiona
a percuoter crudel questo e quel lito,
e nell’aria e nel cielo movendo guerra
abbata i legni in mar, le mura in terra.

Incontra al cominciar la gente stretta
sì, che non può trovar sì tosto strada;
che da quei, che son doppo, in guisa eretta,
ché non si vede alcun, che ’ndietro vada;
ma Lancilotto allora il troncon getta,
e pon la mano alla divina spada,
di cui l’ardente e ’nsolito splendore
empiea ciascun d’orribile terrore.

Sì come al peregrin talora avviene,
che si ritrove sol la notte fosca,
che sovra l’orizzonte accesa viene
con la fiamma crudel, che ’l mondo attosca,
l’empia cometa; che ’ngombrata tiene
del ciel gran parte ed ei non la conosca,
ma tema il miserel, che da quel loco
tutto il mondo di poi si volga in foco;

tale avvien tra costoro e ciascun fugge
col core almen, poi che col piè gli è tolto;
ma qual fero leone, intorno rugge,
che da cani e pastor si trove avvolto,
e tutto il miser popolo distrugge,
percotendogli il cor, le spalle, il volto,
come prima s’avvien, sì che i sentieri
empie d’uomini, d’arme e di destrieri.

Sembra alla calda estate, quando cade
grandine spessa e subita tempesta,
che tronca e fiacca le mature biade,
che né spiga né paglia intera resta,
ma si vede calcar l’afflitte strade
quella in polve conversa e trita questa;
che la pia villanella grida e piange,
e si squarcia i capelli e ’l volto frange.

E dal fero Nifonte, in core acceso
di far vendetta anch’ei di Galelalto,
era l’afflitto stuol non meno offeso,
ch’or de’ piedi, or de’ denti innuova assalto;
quel sopra il volto e quel supin disteso
fa nella trista valle orrido smalto;
et ei dove più d’essi scorge insieme,
con più caldo furor la terra preme.

Quasi come il cultor che adeguar vuole,
per le biade mondar, l’eletta parte,
che le sue rozze genti al caldo sole
a calcarle il terreno ha in cerchio sparte;
poi con rotondi marmi spiegar suole
in grave rivoltar la forza e l’arte,
tal che più nullo in lei, ch’offenda il piede,
sasso, gleba, né sterpo esser si vede.

Così facea il destrier; che s’alcun vivo
degli abbattuti ancor rimane in terra,
si ritrovava poi di spirto privo
dal secondo aspro peso, che l’afferra;
e benché Lancilotto appaia schivo
d’uccider gente tal; poi che gli serra
il cammin di trovar l’Iberno altero,
vien contra l’uso suo spietato e fero.

Era il brando già lucido ricinto
di cervella atre e di sanguigno orrore;
di lordissime macchie era dipinto
dell’altro arnese il candido splendore;
l’argentato suo scudo parea tinto
nell’onde stigie d’infernal colore;
gli occhi già dolci e ’l grazioso volto
in quel d’aspe mortal parea rivolto.

E per nuovo timor la gente molta,
ch’all’invitto furor forza non ave,
qual’era in schiera numerosa e folta
dentro all’onda si pone armata e grave,
e di doppio periglio insieme avvolta
più Lancilotto assai, che morte pave;
e tanti in un si gettan dall’arena,
che la riviera omai n’è intorno piena.

Sembran come talor che ’l cielo ingombra
d’affamate locuste i lieti campi,
che ’l villanel da’ frutti suoi le sgombra
con alta fiamma, che ’l terreno avvampi;
ch’elle tra ’l foco e ’l fumo, che l’adombra,
non trovando altra guisa, che le scampi,
del fiume più vicin, ch’ivi si mostri,
empion saltando in lui gli umidi chiostri.

Né per empier del rio le placide onde
quella squadra nemica, ch’è infinita,
può il famoso guerrier lungo le sponde
trovare al suo desir la via spedita;
tal che l’ira maggior, che Marte infonde,
a mischiarse con lei ratto l’invita;
e con sì gran romor s’avventa ivi entro,
ch’ei fé, credo, tremar Pluton nel centro.

Fersi l’acque spumose e in aria alzarse
al profondo saltar del gran destriero,
e la chiarezza lor vider cangiarse
in aspetto per lui sanguigno e fero;
sta sotto alquanto e poi di sopra apparse,
come mostro marin pronto e leggiero;
e dove scorga più le calche strette,
col sanguinoso brando ivi si mette.

Né per leve fuggir, che ’l popol faccia,
al disegnato fin secur riesce,
ch’ei senza abbandonar l’umida traccia,
or con questi or con quei ratto si mesce,
qual rapace dalfin, che segua in caccia
doppo il lungo digiuno il minor pesce,
ch’or rifugge nel porto, or sotto il sasso
dello scoglio vicin più stretto e basso.

Tal rifuggendo quei, su l’altra riva
cercan levi posar l’afflitto piede;
ma il feroce guerrier prima gli arriva,
ch’e’ sien montati alla più asciutta sede;
e numero cotal di vita priva,
che con grave dolor, lasso, si vede
già l’Euro miserello avere il seno
vie più di sangue assai, che d’onde pieno:

e di tant’arme colmo e di tant’aste,
di tanti elmi, di scudi e di destrieri,
che la forza impedita omai non baste
per distender più il corso a’ suoi sentieri;
le vaghe ninfe sue nitide e caste
lamentando fuggir gli assalti feri;
et ei per non veder, l’erbosa fronte
ascosa avea sotto al Cemenio monte.

Poi ch’ha sfogato alquanto Lancilotto
contra il popol laggiù l’avuto sdegno,
sopra l’asciutta terra ricondotto
in ritrovar l’Iberno opra l’ingegno;
e dove è men lo stuol fugato e rotto,
scorge un gran cavalier, che mostra segno
di nobiltade insieme e d’alte prove,
e che ’nverso di lui correndo muove.

Fecesi lieto in core e seco spera,
ch’esser potesse il chiesto Segurano;
poi che gli vide in man l’insegna altera
del leon brun, conosce Dinadano,
e gli dice: “Signor, per quella vera
virtù dovuta a gran guerriero umano,
non mi negate il dire, ove or dimora
il vostro Seguran, ch’ogni uomo onora”.

Risponde il cavaliero in vista acerba:
“Io non son qui, signor, per cura avere
qual loco Seguran ne rende o serba,
ma per alte spiegar le mie bandiere,
e per largo punirte, alma superba,
d’aver percosse le germane schiere,
qual lupo al bosco le smarrite gregge
senza il cane o ’l pastor, che le corregge.

Ché mentre in altra parte io stava inteso
a drizzar di Clodino il destro corno,
udì lontano il nostro stuolo offeso
da stran nuovo guerrier di bianco adorno;
e ’l cammin verso lui volando ho preso,
per vendicar de’ miei l’avuto scorno;
e questo è il Seguran, ch’ite cercando,
il qual vi mostrerrò con questo brando”.

Risponde Lancilotto: “Io non rifiuto
a chi mi invita mai nuova battaglia;
ma ben di Segurano avrei voluto
più tosto che di voi, tentar la maglia;
ché da voi nullo oltraggio ho ricevuto,
ma da lui tal, che nullo gli s’agguaglia;
or s’ei vi piace pur, facciasi presto,
ché ’l soverchio indugiar saria molesto”.

Così detto alza il brando e dallo scudo
l’oscuro suo leon per terra getta,
e ’l forte Dinadan di quello ignudo
pensa di tosto far larga vendetta,
e di colpo qual può più acerbo e crudo
nel lucid’elmo il fere, che saetta
faville tante, che d’ardente foco
fece intorno avvampare il vicin loco.

Ma bisogna altro colpo, che mortale,
o che di Dinadan la forza passe,
per fare a Lancilotto sì gran male,
che pur la fronte alquanto se n’abbasse;
la spada indietro rimontando sale,
quasi che ’l duro porfiro toccasse;
ma il figliuol del re Bano il ripercuote,
ove di scudo avea le spalle vòte.

E ’l trova a punto in quel medesmo nodo,
ove il braccio era all’omero commesso;
e ’l getta in terra in quello istesso modo,
che suol ramo di faggio o di cipresso
il pastor, che vuol far selvaggio chiodo
per la mandra dubbiosa, che sia presso
del bosco folto o delle alpestri rupi,
ove insidie maggior tendano i lupi.

Tale il sinistro braccio si disciolse
dal famoso guerriero e ’n basso cade,
e tra le arene misero s’avvolse,
e del sangue che versa empieo le strade;
raddoppia il colpo Lancilotto e ’l colse
in loco onde convien che a morte vade,
ove appunto la testa al collo assiede,
e del suo gran destrier la pose al piede:

e fé dentro al terren profonda stampa,
qual faro suol, che ’l popol pio ripose
sovr’alta torre, a far notturna lampa
al nocchier dubbio alle stagioni ombrose;
che ’l folgore crudel, che ’l cielo avvampa,
col possente furore in basso pose
dalla parte contraria alle sals’onde,
che nel lito arenoso il mezzo asconde.

Come il vede cader, chiamando i suoi
Lancilotto dicea: “Diletti amici,
di riportar pongh’io la cura in voi
costui, con quanti avrò duci nemici
condotti a morte, al padiglion di noi
con tutte l’arme, a ciò che l’infelici
essequie sian di tai guerrieri ornate,
e di chiare vendette a i morti grate”.

Risponde un suo scudier, chiamato Eleno:
“Non fia ’l vostro desir vòto d’effetto”;
e di quattro de’ suoi l’ha posto in seno,
che assai tosto il portaro, ove gli ha detto;
ma il cavaliero Ercinio, il pio Drumeno,
vedendo allor con doloroso affetto
morire il buon vicino, il caso rio
di vendicar, potendo, avea desio;

ma perché non ha speme essendo solo
di poter contrastare a forza tale,
Estero e ’l suo Faran con largo stuolo
del suo corno german, che in arme vale,
chiamando dice: “Ora sproniamo a volo
sovr’a questo crudel, che i nostri assale
in così stran furor, che par ch’e’ voglia
sol di noi riportar trionfo e spoglia.

Or leviamlo di terra e si dimostre,
ch’anco nudre virtù l’Albi e Visera,
che lunge inondan le campagne nostre
non men ch’or faccian qui la Sena e l’Era;
e se la lancia mia con l’altre vostre
andando verso un sol non avrà intera
la gloria, assai ne fia l’avere spento
chi sembra oggi di noi morte e spavento”.

In cotal ragionar, son giunti insieme
venti chiari guerrier, ch’uniti vanno
contra il gran Lancilotto e ciascun preme,
o di lancia o di brando a mortal danno;
ma non crollan le membra o l’alma teme
del fero Gallo a i colpi che gli danno;
ché di valor fornito e d’alta spene
con magnanimo ardir tutto sostiene.

Sì come orso talor nell’alpe suole;
se di rozzi mastini ha schiera intorno;
ché mentre questo e quel ferir lo vuole,
fa più a sé, ch’al nemico, oltraggio e scorno,
e di offendere in van si lagna e duole
l’ispido vel d’ogni fortezza adorno;
ned ei si muove pria, che veggia tutto
ristretto il cerchio in un con poco frutto:

poi surge in piede e le nodose braccia
ambe in giro menando, quanti arriva,
o latrando feriti a terra caccia,
o morti stende alla nevosa riva;
salvo è sol chi lo scampo si procaccia
col ratto corso e l’altra gregge priva
riman di spirto; ed ei rabbioso in vista
contro a chi si fuggia rugge e s’attrista.

Così il figlio di Ban, poi ch’ha lassato
l’arme sfogar de’ miseri Germani,
il suo estremo potere ha riversato
in essi ad uno ad un, ch’ha men lontani;
Farano il primo fu ch’egli ha trovato,
che già, rotta la lancia, ad ambe mani
alza ’l brando a ferir, ma pria ch’abbasse,
feo le voglie ch’avea di forza casse;

ch’una punta gli pose, ove le coste
dan curvate su ’l petto al ventre loco;
l’eterne nubi alle sue luci imposte
furo, e spento nel cor lo spirto e ’l foco;
Estero poi, che di Clodasso l’oste
con quei di Sclesia rallumò non poco,
trova il secondo, e ’l parte dal cimiero
in fin dov’egli inforca il suo destriero.

Drumeno è il terzo, che degli altri duce
fu in questo assalto e con più ardir si muove;
ma nell’istessa forma esso conduce,
né gli giovar con lui l’antiche prove;
ché Lancilotto alla sinistra luce
gli mise il brando e passa, ove ritrove
della memoria il seggio; onde partio
tinto avanti al morir d’eterno oblio.

Sovra gli altri da poi stende la mano
l’ardito Lancilotto, infin ch’egli ave
tutto il drappello omai versato al piano,
fuor solo alcun, che rifuggendo pave;
e ’l suo fidato Eleno a mano a mano
fa la schiera che ’l segue intorno grave
del peso di ciascun, ch’ivi era duce,
ch’al padiglion con gli altri gli conduce.

Ma il fello Arvin, che quelli in guerra avea
nati, ove alla Pomeria è il mare aggiunto,
dell’aspra sorte de’ compagni e rea
di dovuto dolor l’alma compunto,
ove il nobil Brunoro combattea
col possente Tristan, volando è giunto,
e gli dice: “Il protervo Lancilotto
ha il corno ove noi semo a fin condotto.

Egli ha, chiaro signore, il fratel vostro,
l’altero Dinadan sospinto a morte,
il quale in van contra l’orrendo mostro
si vide più ch’altrove ardito e forte;
ma né ’l suo gran valor, né l’altro nostro
più riverito stuol, ch’ivi era a sorte,
poteo ben rintuzzar di lui la rabbia,
ch’ha di spirto infernal le fosche labbia.

Ch’oltra molti ha Drumen della Fontana,
con Estero e Faran dal mondo tolto;
or tra la gente misera germana
è qual fero leon nel sangue avvolto;
ch’ha la strada a’ suoi danni aperta e piana
sendo ogni duce suo di vita sciolto,
tal che ’n brevissima ora il popol tutto,
senza aiuto novel, sarà distrutto”.

Quando il fero Brunor l’aspre novelle
dell’amato fratel misero intende,
alzando gli occhi al ciel, contra le stelle
lo spietato parlar cruccioso stende:
“Crude faci” - dicendo - “inique e felle,
dalle quali ogni mal fra noi discende,
e nel cui duro sen, d’ogni virtude
somma invidia e velen lassù si chiude.

Voi non potete far danno maggiore
al germanico lito e al mondo tutto,
or che per vostro oprar, l’alto valore
nel mio buon Dinadan giace distrutto;
ma seguane che può, che brevi l’ore
saran della mia vita o del mio lutto;
ché questo istesso dì lui vendicato,
o me seco vedrà cangiando stato”.

Poi rivolto ad Arvin, dice: “Or vi piaccia
di menarmi ov’è il figlio del re Bano,
ch’al volere e ’l dever si satisfaccia
per sì famoso duce e pio germano”.
Così parlando, alla famosa traccia
si mettono ambedue; né ’l fanno in vano,
che poco andar, ch’apparve Lancilotto,
che ’l popolo uccidea fugato e rotto.

Come il vide Brunoro, in vista fasse,
qual lupa irata, che ’l leon scorge,
che dal nido a lei lunge i figli trasse,
e che cibo ne fa tardi s’accorge;
che quantunque a tal fera umili e lasse
sue forze estimi, tale ardir le porge
la materna pietade, e ’l duol che stringe,
ch’a disperata guerra il dente accinge.

Tal l’irato German, ch’aperto vede
troppo alto al suo potere il guerrier Gallo,
pur pensando al fratello, al dolor cede,
e quanto può ver lui muove il cavallo,
gridando: “Il seguitar sì basse perde
in cavalier d’onore è troppo fallo;
torni a me il volto Lancilotto e prove
se chi l’agguaglie o ’l vinca si ritrove”.

Volgesi al suo chiamare il gran guerriero,
e che ciò sia Brunor gli è tolto avviso
al bianco scudo, in cui tra rosso e nero
ha il surgente leone il pel diviso;
tutto umil poscia al suo parlare altero
“Signor” - risponde - “se ’l mio brando ucciso
ha del popol più vile, anco sentiti
han talor de’ suoi colpi i più graditi.

E se di lui tentar desio v’assale,
mi parria rifiutando oltraggio farme;
pur con altro guerrier, che non men vale,
molto più che con voi, vorrei provarme;
perch’al nobile spirto mai non cale
contr’a chi non l’offese muover l’arme,
com’or farò con voi, che mai nemico
non tenni in questo o in altro tempo antico”.

Ma il superbo Brunoro allora irato
più ch’ancor fosse mai crudo favella:
“Se voi non sète a noi nemico stato,
a voi son’io per la cagion novella,
ché del caro fratel resto privato;
il qual l’aspra fortuna empia e rubella,
non la vostra virtù, condusse a morte,
ché più d’altro e di voi fu ardito e forte.

E con fermo voler di vendicarlo
vengh’io, se foste ben tutto adamante;
e se ’l mio reo destin negherà il farlo,
morrò qual duce e cavaliero errante;
e che mi roda il cor, qual legno tarlo,
non mi fia mai sempre il gran germano avante
la notte e ’l giorno e mi rammente ch’io
debba per lui compir l’uficio pio”.

Al parlar disperato di Brunoro
Lancilotto alla fin così risponde:
“Se ’l cipresso cercate o ver l’alloro,
né vi cal qual si sia delle sue fronde,
agevol vi sarà l’una di loro
meco trovar; che in questa man s’asconde
di quei la morte, ch’ostinati vanno
bramosi contra lei del proprio danno”.

Tacque il fero German d’ira e di doglia
premendo il chiuso core e ’l brando scarca
in Lancilotto, il qual più che mai soglia
sente la destra spalla esserne carca,
ma il sacro acciaro e l’incantata spoglia
al securo difender non fu parca,
et oprò sì, ch’alla percossa stanca
nel suo primo arrivar la forza manca.

Ma raddoppia il crudel presso al cimiero
del lucid’elmo in su ’l medesmo lato,
sì che d’esser sì forte ebbe mestiero,
ch’ogn’altro ne saria rotto e fiaccato,
e quel rimase pur sì saldo e ’ntero,
che non più ch’adamante, cangiò stato;
ripone il terzo colpo al proprio loco,
e sol d’ampie faville accese il foco.

In così gran prestezza e ’n tal furore
i colpi van, che Lancilotto a pena
puote armar verso lui la mano e ’l core,
e ripigliar la traviata lena;
pur rivestendo alfin l’usato ardore,
onde gli ha il quinto ciel l’alma ripiena,
mena il brando ver lui con quella forza,
ch’ogni possa mortale abbatte e scorza:

e gli vien sovra l’elmo, che non dura
più ch’a grave martel vetro ben frale:
partegli il capo e ’nfino alla cintura
scese squarciando il ferro aspro e mortale:
di sangue aspersa e d’atra nube oscura
l’anima diperata aperse l’ale,
e del regno tartareo volò in seno,
lassando aperto il carcere terreno.