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liii
     Muove il piè innanzi a’ suoi con quel furore,
Che Giove irato il folgore n’avventa;
Percuote entr’a i nemici col romore,
Ch’Etna le piagge sicule spaventa;
Trova Antifate, Alcanore ed Antore,
Catillo, Erminio, Remulo e Tarpenta
L’un doppo l’altro a sorte e tutti e sette
Nel suo primo arrivar per terra mette.
liv
     Morti i quattro; impiagato poscia il resto
Con l’urto del caval rotto e fiaccato,
Dell’asta intera ancor venne molesto
A Polidoro, Oronte, Erdo ed Asato,
Gli altri tre riversati e sopra questo
Della forte asta sua riman privato;
Solo il troncon gli resta in man, col quale
L’altro stuol che gl’incontra, intorno assale;
lv
     Ch’ei si sdegna di trar l’altera spada
Sovra il popol vicin, che vil gli sembra,
E si facea lassar larga la strada,
Or le fronti rompendo or l’altre membra;
Passa oltra sempre innanzi e nulla bada
A quel che faccia altrove; e gli rimembra,
Che sol contra il nemico Segurano,
Non contra altro, che sia, s’armi la mano.
lvi
     Ma fa quale il villan, che gire intende
Nella selva a tagliar la querce annosa,
Che quella spiana e questa a basso stende,
Ch’al passare in cammin gli vien noiosa;
Tal Lancilotto face a chi contende
Il ritrovar quel loco, ove si posa
Quel ch’ei sol cerca e che vorrebbe solo,
Perdonando ogni colpa all’altro stuolo.
lvii
     Ma no ’l può rivedere, ovunqu’ei muova
Con ratto corso il candido destriero;
Or quinci or quindi con desio rinuova
Dalla speme fallita il suo sentiero;
Or mentre ancide e fiacca si ritruova
Con Gallinante, il giovinetto altero
Di Giron nato e della bianca Arana,
Ch’era de’ suoi pensier donna e sovrana.
lviii
     Quando il vede vicin, ch’ardito viene
Col grande scudo d’oro traversato
Sol di porporea riga, risovviene
Al chiaro Lancilotto in altro lato
D’averlo visto e ’l suo troncon ritiene,
Per non far’onta a cavaliero ornato
D’una insegna sì nobil, ch’apparisse,
Che dal franco Girone in lui venisse.
lix
     Il quale ebbe in onor sovra ciascuno,
E morto più che mai l’apprezza e cole;
Nè gli cangia pensier l’esser del Bruno,
Sì come Segurano, onde si duole;
E pria che fare al giovin danno alcuno,
Con cortesi preghiere intender vuole
Chi sia, dicendo: Non vi spiaccia, ch’io
Sappia il nome di voi, come desio,
lx
     Valoroso signor, da poi che degno
Di portar tale scudo vi stimate
Del famoso guerrier, che ne fè degno
Il secol nostro e qualunque altra etate;
E per qual sia cagion, che ’l picciol segno
Del color porporino vi mischiate;
Perch’io intenda primier da cui riporte
Onorata vittoria o trista morte.
lxi
     Risponde il giovinetto: Volentieri;
Glorioso figliuol del gran re Bano;
Gallinante son’io, tra i liti feri
Nato d’Ibernia, al padre mio lontano,
Che fu Girone e per istran sentieri
Ho seguito il cugin mio Segurano,
Sperando esser con voi, non con Clodasso,
Ma di quanto bramai son nudo e casso;
lxii
     Ch’avendo egli sposata la figliuola,
In Avarco e tra’ suoi mi tiene a forza,
Ma l’alma ho con voi sempre e riman sola
Di me con lor la rilegata scorza;
La quale aver sotto la vostra scuola
Così tosto sper’io, come s’ammorza
Alquanto il guerreggiar; ch’e’ non si dica,
Che mi scacce il periglio e la fatica,
lxiii
     Che se ben mi fè il ciel di madre Iberna,
Vien la parte miglior dal terren gallo,
Ch’avrà sempre di noi memoria eterna,
E fora il lui lassar soverchio fallo;
Or perchè in nulla guisa non si scerna
Macchiato il mio dever, sendo a cavallo
In favor di Clodasso, alla battaglia
Di dimostrarvi bramo quant’io vaglia.
lxiv
     Così parlando, a guerra s’apparecchia;
Ma il nobil Lancilotto sorridendo
Dice: Il perfetto amor, quanto più invecchia,
Più si deve affinar, s’io ben comprendo;
Onde all’ultimo dir chiuder l’orecchia,
E d’oprar con voi spada non intendo;
Vi prego io ben, quando l’onore il porta,
Che deggiate d’Arturo essere scorta:
lxv
     E che vi piaccia or qui per nostro amore
Di portar sempre in guerra questa spada,
Che m’ha fatto talor sì largo onore,
Che i nemici maggior m’han fatto strada;
E si face ivi addur d’alto valore
Da Santippo fedel, che intento bada,
Un fortissimo brando e la cintura
Piena di gemme vaghe oltra misura.
lxvi
     La qual sempre portava s’avvenisse
Della miglior ch’avea, fortuna ria,
Che tra quante più fine erano affisse
Alla dogliosa guardia presa avia;
Il giovinetto a lui non contradisse,
Ma se la cinse allor con voglia pia,
E quell’altra, ch’avea, cerca con preghi,
Che di prenderla in vece non gli nieghi: