Canto V

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Canto IV Canto VI
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CANTO V

ARGOMENTO

      Segue la fera pugna, in cui fan pruove
Chiarissime, stupende Eretto e Lago;
A Brunoro ed a’ suoi, sempre con nuove
Riscosse dan tormento, e fer presago:
Domi però cadean; ma a lor si muove
Boorte invitto di salvarli vago;
Giunge, e di sangue empie d’intorno il campo.
Tal che i prodi guerrier trovano scampo.

i
Ma in quella parte ove le picciol’onde
Per sentiero arenoso l’Euro spinge,
Non più ch’altrove il suo furore asconde
Marte, o con meno ardor, la spada stringe:
Anzi le verdi pria fiorite sponde
D’altro fero color bagna e dipinge,
E tutto intorno all’infelice fossa
Ha stampato il terren di sangue e d’ossa.
ii
     Ivi il buon re dell’Orcadi tenea
La vece di Gaven, mentre e’ ferito,
E con senno e con arte si movea,
Non però tal che men si mostri ardito;
Ma il valore e ’l consiglio correggea
Sì ben tra lor, che nullo era impedito,
Ed avea già con l’aste sue primiere
Oppresse di timor l’avverse schiere:
iii
     De’ quai fu conduttor Brunoro il Nero,
Però che il re Clodino era lontano,
Seco estimando in nobil cavaliero
Opra di cor rozzissimo e villano
Sì tosto ripigliar l’ingiusto impero,
E contra ogni ragion muover la mano
Sopra la gente pia ch’a torto offesa
Pur credea che dal ciel fosse difesa.
iv
     Così l’un corno e l’altro il proprio duce
Avea cangiato, e non con men virtude
Di lor ciascuno all’opra si conduce,
Nè di quei men valor nel petto chiude:
Ben che d’anni ineguali, in ambe luce
Gloria sembiante, perchè in mille crude
Battaglie si trovar contrari e ’nsieme,
In cui senno mostraro e forze estreme.
v
     Or, mischiati fra lor da ciascun lato,
Non si discerne alcun che muova il piede,
Ma sta qual torre o sasso alto piantato
Che d’aperti confin termine siede;
Poi col braccio e col ferro insanguinato
Contra il fero vicin spinger si vede,
E senza cura aver della sua sorte
Solo inteso restar nell’altrui morte;
vi
     E fra molti miglior più d’altro appare
Il figliuol del re Lago, il forte Eretto,
Tutto pien di desio d’alto montare
In brevissimi giorni al fin perfetto
Di somma gloria, e ’n dietro a sè lassare
Gli altrui canuti onor, lui giovinetto:
Così dove scernea più gran periglio
Di più innanzi passar prendea consiglio;
vii
     Nè a sì nobil disegno fu nemica
Nel primo incominciar fortuna infida,
Che con sommo valor ratto s’intrica
Tra i più folti nemici, ed ella il guida
Ove Bucalïon danno e fatica
Dava a i Britanni, e loro appella e sfida
Dicendo: Ove son or quei tanto arditi
Che minaccian sì spesso i nostri liti,
viii
     E quando son lontan sembran lioni,
Poi pecorelle vili, ove noi semo?
E s’al calcar le nostre regïoni
Hanno oprato in cammin la vela e ’l remo,
Al tornar fia mestier più che di sproni,
Per chi non fosse pur di vita scemo:
I quai pochi saranno, in fin che basta
Questa mano a portar la spada e l’asta.
ix
     E mentre dice pur, sopra gli viene
Il valoroso Eretto, e dritto pose
Il ferro entro la bocca, ch’ancor tiene
Parlando aperta, e tutto in essa ascose:
Così senza altro dir, qual si conviene,
Al folle ragionar silenzio pose;
Cadde egli a terra come sciolta salma,
E mordendo il terren si fuggì l’alma.
x
     Oltra varcando poi, trova Mecisto,
In Frisia nato e nel medesmo loco,
Che del compagno suo doglioso e tristo
Per desio di vendetta ha il cor di foco;
Ma il fero giovinetto, al nuovo acquisto
Volto il pensiero, il passo affrena un poco
Fin ch’ei s’appresse, e poi ver lui si getta
Come d’arco miglior leve saetta;

[p. xl modifica]

xi
     E pria ch’a lui ferir presto il vedesse
Il colpo gli addrizzò dove le coste
Son nel mezzo del petto aggiunte e spesse,
Delle parti migliori in guardia poste:
E passò levemente oltra per esse
Nelle spine del dorso, a quelle opposte;
Così la man, percosse quelle a pena,
Lasciò l’asta cader sopra la rena,
xii
     Ed ei tutto incurvato, e riversando
Per la bocca doglioso l’esca e ’l vino,
Andò col volto in giù di vita in bando
E diè l’ultimo fine al suo destino.
Trovò doppo costui, che van cercando
Se sarà il ferro lor del suo più fino,
Astillo, Polipete, Ablero, Elato
Ai quali ad uno ad un la morte ha dato;
xiii
     Tutti nati in Usfalia, in mezzo l’onde
Di Visurgo e d’Amasio a cui del Reno
La destra foce di non molto asconde
L’acque ch’all’oceàn ripone in seno.
Segue oltra Eretto, e qual l’aride fronde,
Poi che il calore estivo già vien meno,
Nel tardo autunno d’Aquilone al fiato
Caggion, nudo lassando il tronco amato;
xiv
     Tal da colpi di lui cader si vede
Gente infinita poi di sangue oscura,
E ’n guisa fa ch’omai ciascun col piede,
Non con la man la vita s’assecura:
Già tutto il corno a lui soletto cede,
Chi per forza d’altrui, chi per paura,
Perchè i pochi e miglior di tema sciolti
Son via portati dal fuggir de’ molti.
xv
     Ma il feroce Brunoro e Dinadano,
Il suo caro fratello, han tosto udito
Il gran danno de’ suoi molto lontano
Da Marigarto il grande, che ferito
Vicino al braccio nella destra mano,
Non potendo altro far, volando è gito
E grida in alto suon: Drizzate il passo
Ove il popol vi chiama afflitto e lasso;
xvi
     E senza oltra più dir ratti gli mena
Ove d’un sol temea la folta schiera,
All’apparir de’ quai tutta ripiena
Tornò di gioia e di speranza altera:
Non altrimenti, allor che rasserena
Il ciel, doppo l’algente orrida e fera
Del rio verno stagion, tornan gli augelli
Sopra i rami a cantar gaietti e snelli.
xvii
     Cotal si scerser tutti rivestire
Lo smarrito vigore, alta marcede
Rendendo a Dio che non volea soffrire
Che lungo fosse il danno che gli diede.
Or già ricinto il dispogliato ardire
Ciascun verso i nemici torna il piede,
E col favor de’ duo gran duci insieme
Ove indietro fuggiva, innanzi preme.
xviii
     Avea Brunoro il Nero in quella parte
Onde allor si movea, l’asta troncata;
Però dal suo scudier, ch’era in disparte,
Lo scudo ha tolto, dove in argentata
Sede surge il leon, che in estrana arte
Di rosso e brun la veste avea cangiata:
Poi tratta fuor la sua pesante spada
Facea col suo valore a gli altri strada.
xix
     In compagnia non solo ha Dinadano,
Ma Nabone il fellone ed Agrogero,
Che fu chiamato il crudo, e Terrigano
Il grande insieme, e Gracedono il fero;
E perchè da quel loco iva lontano,
Di quei che dimorar lassò l’impero
A Margondo, Galindo e Gunebaldo,
Che ’l tenesser composto, unito e saldo.
xx
     Ma come all’arrivar de i can più fidi
Suol l’orecchie levar lupo rapace
Ch’avea trovata in solitari lidi
La greggia stanca che nell’ombra giace,
Che la fame al predar vuol che s’affidi,
E ’l contrario di lei temenza face:
E mentre è ’n dubbio ancor, tal forza ha sopra
Che del bosco convien s’asconda e cuopra;
xxi
     Così nel sorvenir di guerrir tali
Fè il valoroso Eretto, che si duole
Ch’aggian tarpate a tal vittoria l’ali,
E desia di seguir come pria suole:
Ma l’arme di costor, ch’han pochi eguali,
Già lo sforzano a far quel che men vuole,
Onde i colpi schifando accolto e basso
Si ripose fra’ suoi con lento passo,
xxii
     E quanto puote il meglio lui conforta
Ciascuno a non temer l’atra tempesta
Ch’una subita nube loro apporta,
Che quanto ha più furor, più tosto resta;
E per ben lor fermar salda la porta
Raddoppia insieme alla primiera testa
Quanti scudi ha quel lato, e curvi a terra
Vuol che sostengan sol, non muovan guerra.
xxiii
     Ma quei, rimessa in un la miglior parte,
Mossi d’alto disio di vendicarse
Venian con tal ardir, che ’l propio Marte
Quasi avria contr’a lor le forze scarse:
E ben ch’ivi ritrovin con molta arte
A i disegni animosi contrastarse,
Non perdon la speranza, anzi l’impresa
Van seguitando più ch’è più difesa.
xxiv
     Son le due schiere già sì giunte insieme
Che ’l braccio con la man resta impedito;
Nessun ritira il passo e ciascun preme
Senza avanzarsi il termine d’un dito,
Ciascun gli altri minaccia e nessun teme,
Nè del suo percussor cura il ferito:
E non gli scudi pur, ma dansi in alto
Le celate e i cimier l’istesso assalto.

[p. xli modifica]

xxv
     Ma il feroce Brunoro, che non vede
D’ottener la vittoria alcuna via,
Mentre il suo Dinadano a quei provvede,
Con pochi de i miglior queto s’invia
In quella parte ch’alla destra siede,
Ove la minor gente e la più ria
Stava di quei d’Arturo, chè l’eletta
All’insegna d’Eretto era ristretta.
xxvi
     Creuso il Senescial soletto trova
Che presago di ciò d’intorno chiama:
Il passo in ver di me correndo muova
Chi la vita salvar cerca e la fama,
Chè la schiera ch’or viene altera e nuova
Il nostro sangue e la nostr’onta brama,
E se non provveggiam con sommo ardire
Porria forse adempir lo suo desire.
xxvii
     Così diceva; e poi ch’insieme ha posto
Lo stuol che di Cornubia avea menato,
Per dar baldanza a’ suoi, quanto può tosto,
D’assalir cerca il gran nemico armato:
Il quale è nel suo cor fermo e disposto
Che ’l passar indi non gli sia vietato,
E con impeto tal fra lor percuote
Che la valle al romor la fronte scuote.
xxviii
     Ma non cede per questo il buon Creuso,
Che lo scudo tien saldo e ’l ferro spinge,
Che in altra parte e in altri tempi era uso
Ove il terren di sangue si dipinge;
Ma poi che ’l suo sperar torna deluso
Brunoro irato contro a lui s’accinge,
E con la spada nello scudo il fere,
Che non potè più intero rimanere:
xxix
     Che, quantunque sì fin fosse l’acciaro
Che pochi altri n’avea simili ad esso,
Tutte l’ottime tempre no ’l salvaro,
Che ’l sinistro suo lato ha in terra messo.
Creuso gli rendeo colpo più amaro,
Che di vibrante punta il colse presso
Della gola in quel loco che sostiene
L’osso che dalla spalla al petto viene,
xxx
     E passò alquanto dentro, ma il periglio
Fu del danno in quel punto assai maggiore,
Chè, se ben ne tornò ’l ferro vermiglio,
Non gli tolse però spirto o vigore.
Ma in questo mezzo rivolgendo il ciglio
Creuso ove sentia più gran romore
Nabon vede, Agrogero e Gracedono,
Che quasi tre leon fra’ cervi sono.
xxxi
     Degli oscuri guerrieri uccisi han tanti
Che la terra di lor parea coperta:
D’altri poi duci e cavalieri erranti
O scudieri o cugin di fama aperta,
Morto è Lamete, che in destrezza quanti
Ebbe mai la Cornubia al corso esperta
Vincea già tutti, e vincerebbe ancora,
Se dallo stadio suo non uscia fuora;
xxxii
     Ma di pregio maggior desire il prese,
Chè di Creuso allor l’orme seguìo,
Fin che, in van sospirando il suo paese,
Per le man di Nabon miser morìo.
In Cinero e in Asseo non men si stese
Per quel ferro medesmo il destin rio,
Che gli fè d’un sol parto uscire insieme
E d’una istessa morte ivi gli preme.
xxxiii
     Uccise Gracedono il bel Dolopo,
Che della vaga Alarta era figliuolo,
Di Creuso sorella, ch’assai dopo
Il partir venne del Britanno stuolo;
Nè le ricchezze nè la forma ad uopo,
Nè l’esser di tal madre uscito solo,
Lasso, gli furo allor, chè l’empia spada
Se gli fece nel cor mortale strada.
xxxiv
     Di quella stessa man cadde Lampeto,
Nato in Asforda al promontorio Uvallo,
Che fu nudrito in luogo ermo e segreto
Da chi temea la pena del suo fallo:
Perchè Fileda del famoso Cleto,
Che del suo padre Ivano era vassallo,
Il partorì nel bosco, e ’n guardia diede
D’un pastor vecchio alla sincera fede;
xxxv
     Poi, palesato in ver, doppo il perdono
Fu dell’amante suo la donna sposa:
Ma quanto era per lui più largo dono
D’incognito abitar la selva ombrosa?
Ch’or non saria dal fero Gracedono
In troppo acerba età, qual fresca rosa
Ch’ancor non apra il sen, disteso al piano
Dalla marmorea testa sì lontano.
xxxvi
     Ma Terrigano il grande Orone uccise,
Lo scudier valoroso di Mandrino,
Che al più basso del ventre il ferro mise
E tremando il gettò col capo chino;
La fronte in fino al ciglio poi divise
A Calenor, che fu di Brestolino,
Dell’isola vicina a Bangarìa,
Ove l’arte piratica il nutrìa;
xxxvii
     Ed Agrogero il crudo presso a loro
Non men bagna il terren di nuovo sangue,
Ch’avea reciso al misero Banoro
Tutto il destro ginocchio, e fatto esangue:
Questi del re Gaven l’ampio tesoro
In guardia aveva, ed or povero langue,
Senza sepolcro sopra o pompa intorno,
Lontan di Conturbìa, suo nido adorno.
xxxviii
     Uccise appresso Clizio e Palidarco,
D’Essesia questo e di Mildesia quello:
Percosse l’un dove congiungon l’arco
Le ciglia insieme, e trapassò il cervello;
Dell’altro al manco lato orribil varco
Fece dove più il cor si addrizza in ello.
Or quando tai cader la gente vede
Tutta allo scampo suo rivolge il piede.

[p. xlii modifica]

xxxix
     Quai giovincei leon che in lacci avvolta
O in mezzo a i cacciator la madre morta
Scorgon dogliosi, ond’ogni speme è tolta
Ch’aver solean della fidata scorta:
Ch’ove la selva è più spinosa e folta
E dove è più la strada ombrosa e torta
Fuggon, per ritrovar, se pon, l’albergo,
Nè per temenza mai guardano a tergo;
xl
     Tal si vedeva allor l’afflitta schiera,
Che di tai cavalier si sente priva.
Seguonla quanto pòn, con vista altera,
I quattro buon guerrier lungo la riva,
Perchè non possa mai tornare intera
Nell’ordin primo che disperso giva;
Ma poi che lungi assai mostran le spalle
Si ritiran fra’ suoi per altro calle:
xli
     E dove Dinadano e ’l forte Eretto
Han di pari fra lor palme e cipressi
Drizzansi al fianco in un drappello stretto
Ove i Britanni scudi eran più spessi;
I quai guardando a quei ch’aveano a petto,
Questi avvisar de’ lor compagni istessi;
Che chi ha nella vista o lancia o spada,
Non può scerner sì ben chi venga o vada.
xlii
     Trovansi adunque d’ogn’intorno cinti,
Chè con quei quattro poi sono altri molti
Che da’ lor duci fur ratti sospinti
Pria che la sorte sua contraria volti:
Perchè maravigliando hanno dipinti
Di temenza e di duol già tutti i volti,
Ma il giovin valoroso nulla teme,
Anzi con più furor minaccia e freme,
xliii
     Dicendo: Or ch’egli è ’l tempo vi sovvegna,
Onorati compagni e fratei cari,
Della virtù che anticamente regna
Ne’ maggior nostri sopra gli altri chiari,
E che seguite or qui l’altera insegna
Del gran re Lago, a cui non visse pari
Oggi in consiglio, e già in opre leggiadre,
E ch’è non men di voi che di me padre;
xliv
     E che là sotto il fosco e freddo cielo
Dell’Orcadi, il terren nostro natio,
Non si teme di morte il crudo gielo,
Ma di pigra viltà l’effetto rio,
Non s’onora chi in pace cangiò il pelo,
Ma chi con l’arme in man giovin morìo:
Folle errore è il salvar la vita in sorte
Che ti fia grave poi più ch’altra morte.
xlv
     Con tai parole il giovinetto ardito
Di sostenere i suoi pregando adopra;
E non in van, chè da’ migliori udito,
Il suo chiaro voler’ fu messo in opra.
Ma il popolo inimico, ch’è infinito,
Al breve stuol ch’avea venuto è sopra,
Tal ch’è forzato Eretto a poco a poco
Senza fronte voltar cedere il loco.
xlvi
     E si congiunge a quei che indietro stanno,
Che tra gli ordin più larghi l’han raccolto;
Poi tutti insieme unitamente vanno
Ove il fero avversario era più folto,
E nuova altra battaglia insieme fanno
Ove non apparia vantaggio molto
Tra’ primi colpi loro, in fin che venne
Chi gli altrui mise in fuga e’ suoi sostenne.
xlvii
     Venne il gran Marabon della Riviera
Con l’aspra gente che trall’Alpi giace
Onde scendendo rapida Lisera
L’Allobrogo terren fecondo face;
Margondo ha in compagnia, con pari schiera
Di quei che stanno ove riposo e pace
Il Rodan porge al suo veloce piede
E ’l mar di Gallia con due corna fiede.
xlviii
     Non può il valor degl’Orcadi durare
Contro a numero tal, che nuovo è giunto;
Ma in questa al vecchio re le nuove amare
L’orecchie insieme e ’l core hanno compunto:
Ond’egli, ordin lassando che restare
Debba in suo loco Ivan, l’istesso punto:
Appellando i miglior, con ratto corso
Dell’amato figliuol viene in soccorso;
xlix
     Di cui l’ardente amor, l’onor del regno
Di tal foco avvampò l’annoso petto
Che di vecchiezza fuor non mostrò segno:
Ma come fosse ancor d’età perfetto
Le membra ha pronte, e di vaghezza pregno
Di tosto pervenir dove era Eretto
Così veloce va, che gli altri a pena
Han di lui seguitar sì sciolta lena.
l
     Leva quanto alto può lo scudo aurato
Con le vermiglie teste del dragone,
Ch’a suoi, che di lontan l’aggian mirato,
Sia di fermo sperar dritta cagione.
Or come fu tra’ suoi lieto arrivato,
Cominciò con dolcissimo sermone:
Non temete figliuoi, ch’ora è con voi
Chi sempre vincitor condusse i suoi.
li
     Nè vi spaventi, no, se gli inimici
Son più numero assai che voi non sète,
Chè sempre i pochi e i buon son più felici,
Come per prova ancor tosto vedrete:
Abbatte un sol falcon molte cornici,
Un leon mille gregge mansüete;
Nè quello il primo dì sarà che i molti
Ho già solo o con pochi in rotta volti.
lii
     Tenete pure in man forte la spada
E ’n petto di virtù smaltato il core,
Che in simil casi alla medesma strada
Va la dolce salute e ’l chiaro onore:
Chè più perde la vita chi più bada
A voler lei scampar con suo disnore,
E per propria difesa il ciel ne diede
La mano e l’arme, e non la fuga e ’l piede.

[p. xliii modifica]

liii
     Confortando così, tanto oltra passa
Che ’l prode Eretto in gran periglio truova,
Perchè parte è ferita e parte lassa
La gente sua che ’n vita si ritruova.
Or vedendo il figliuol congiunta e bassa
Al soccorso venir la schiera nuova
E ’l pio vecchio e magnanimo parente,
Gran dolcezza e dolor nell’alma sente;
liv
     E dice: O sommo onor de’ canuti anni,
O dolcissimo padre, e qual mia sorte
Rea vi conduce or qui tra tanti affanni
In rischio, a mia cagion, d’amara morte?
Troppo m’era il soffrir gli avuti danni
Sovra i cari compagni e fide scorte,
Senza che s’aggiungesse quel per cui
Mille vite darei, salvando lui.
lv
     Deh tornate, signor, poi che v’è stato
Amico il cielo in tale aita darme;
Ch’altra forza bisogna in questo stato,
Più integri difensori e più salde arme.
Rispose il vecchio re con volto irato:
Dunque vuoi tu, figliuolo, oggi privarme
Di quel ch’io bramo più, ch’è d’esser teco,
Per cui dolce m’è solo il mondo cieco?
lvi
     Lassami pur venir, chè poche notti
Ha in sua forza di me fortuna fera;
E i giorni a tanto onor fin qui condotti
Qual mai chiuder porria più degna sera?
Esser ben ponno a te troncati e rotti
Mille disegni, ch’hai l’etade intera;
A me il sepolcro sol puote esser tolto,
Che non fu da i migliori in pregio molto.
lvii
     Così detto va innanzi, e vicin truova
L’Allobrogo Alcitoo, di cui la testa
Percuote sì ch’a lei salvar non giova
Ferro ben saldo, che partita resta;
Poi vago d’acquistar vittoria nuova
Segue oltra a suo poter, nè mai s’arresta
Fin che truova Agastrofo e Peonide,
E de’ duoi questo impiaga e quello uccide:
lviii
     Perch’al primo passò la destra tempia
E tutta l’altra poi l’aguta spada,
Ma la fortuna sua men dura ed empia
Ebbe il secondo poi, che vuol che vada
Il colpo indarno, e non del tutto adempia
L’incominciata pria mortale strada,
Ch’entrò nel petto, e non andò sì adentro
Che potesse toccar dell’alma il centro.
lix
     Tale all’alto valor che ’n core avea
L’invittissimo vecchio allarga il freno,
Che quello stesso allora esser credea
Ch’al verde tempo, e di vigor ripieno;
E tanto oltra varcò che non potea
Ritrarsi indietro, ch’a’ nemici è in seno:
Nè sbigottito vien per questo o stanco,
Ma più che fosse ancor sicuro e franco.
lx
     Ma il giovin miserel, come s’accorge
In che stato dubbioso il padre sia;
Non più dogliosa appar, se ’l figlio scorge
Dentro all’onde cader, la madre pia,
Che qual può lagrimando aiuto porge
E chiamando ciascun che truva in via:
Tale er’egli in quel punto, e in alte grida
Tutti appella color cui più s’affida,
lxi
     Dicendo: Ora è, signor, quel tempo eletto
Nel qual fia guadagnar perder la vita
Per salute di quel dentro al cui petto
Ripose il ciel la sua virtude unita;
Nè possa esser già mai saputo o detto
Che fra sì altera gente e sì gradita
Fosse ucciso dell’Orcadi il re Lago
Senza ampissimo far di sangue un lago.
lxii
     E ’n tai chiare parole oltra si mise,
E ben seguito fu dagli altri suoi:
Ippologo, Difrono, Anero uccise,
Tutti Borgondi, e Sicofando poi;
Tal che la stretta schiera si divise,
La porta aprendo a’ valorosi eroi.
Così spingendo co i compagni appresso
Trovò il famoso re da molti oppresso;
lxiii
     E ’n tra’ primi Nabone ed Agrogero
Quasi del tutto all’ultimo suo punto
L’avean condotto, e bene avea mestiero
Che ’l soccorso di lui fosse ivi giunto.
Ma quando udì vicino il grido altero
Del carissimo figlio, fu compunto
Di tal dolcezza, che ripreso ardire
Rincominciò di subito a ferire,
lxiv
     Dicendo: Or vegg’io ben che da i leoni
Non usciron già mai damme nè cerve,
Nè bisogna al buon cor verga nè sproni
Perchè ’l dritto sentier d’onore osserve.
Non van con tal romor folgori e tuoni
Per l’aria errando alle stagion proterve,
Che ’l prode Eretto per la schiera avversa,
Che tutto il suo poter nel padre versa.
lxv
     Dona un colpo a Nabon, che più vicino
E con forza più grave il vecchio offende;
Ma fu d’ottima tempra e troppo fino
Il ferro che la testa gli difende:
Pur dal grave suo peso a capo chino,
Tutti smarriti i sensi, si distende;
Poscia in verso Agrogero il brando mosse
E ’l destro braccio in alto gli percosse,
lxvi
     Per cui gli fè cader la spada a terra.
Così impedito l’uno e l’altro duce,
Trïonfator della pietosa guerra
In securo sentiero il padre adduce.
Ma in questo mezzo si ristringe e serra
Gran gente, che di nuovo riconduce
Brunoro il Nero e ’l forte Gracedono
Con altri cavalier che ’ntorno sono;

[p. xliv modifica]

lxvii
     E vedendo turbar l’amico stuolo
Ritorna indietro il giovin valoroso,
Com’aquila talor che stenda il volo
Verso il suo nido in alti monti ascoso,
Là dove i cari figli in aspro duolo
Ha veduto il serpente esser noioso.
Così fece egli, e poi minaccia e prega
Sì che l’ordin sostien che ’n dietro piega.
lxviii
     Ma spinge in guisa tal la gente nuova
Che poco altrui virtù può quivi oprare
Che la schiera percossa non si muova
Per viva forza indietro a ritornare;
Tanto che ’n breve Eretto si ritruova,
Che pur vuole ostinato contrastare,
In mezzo quasi sol degli inimici
E tralle avverse insegne vincitrici.
lxix
     Patride al cerchio d’oro e Matagrante
Eran con lui rimasi, e ’l suo Plenoro,
Di tutti quanti quei ch’aveva avante,
E che malgrado lor disgiunti foro.
Or già, come leon per fame errante,
Con altissime grida vien Brunoro,
E quai quattro cinghiai ne i lacci avvinti
Scontra i guerrieri alla difesa accinti;
lxx
     E contra Eretto sol muove la mano,
E di punta mortal lo scudo coglie.
Ma l’altro il porge innanzi, e ’l tien lontano,
E tutto indietro quanto può s’accoglie.
Passò il colpo tutt’oltra, ma fu invano,
E non ben di leggieri indi si scioglie,
Chè per tirar ch’ei fesse allor la spada
Di riaverla mai non trovò strada:
lxxi
     Onde irato Brunoro in dubbio resta
S’ei debba ivi lassar la fida aita.
Ma il giovinetto ardito pria la testa
E la spalla di poi gli avea ferita;
Pur l’una e l’altra fu poco molesta,
Nè la forza o la vista gli ha impedita,
Chè sì salde eran l’arme, ed ei sì oppresso,
Che ’l colpo ne scendea frale e dimesso.
lxxii
     La spada alfin dal trapassato scudo
Tirò Brunoro, e quale impiagato orfo
Torna a ferirlo micidiale e crudo,
E Galindo e Margondo è seco accorso;
E gli rendean del vel lo spirto nudo,
Se come leopardi al suo soccorso
Patride e Matagante non venia
Col famoso Plenoro in compagnia.
lxxiii
     Non si porria pensar l’alto valore
Che mostraron quei quattro in tale stato.
Ma chi vorrà narrar l’aspro dolore
Del magnanimo re, poi ch’ha tornato
Il volto indietro al marzïal romore
Nè il suo caro figliuol si scoge a lato,
Ma il sente e vede che da lui ben lunge
Ricinto è intorno da chi ’l batte e punge?
lxxiv
     Viene in sì gran furor che come egli era,
Senza gran compagnia, ratto si mosse
E per entro passò la stretta schiera,
Non curando di lei piaghe o percosse;
E giunge a forza ove a battaglia fera
Truova i buon cavalier, che l’arme rosse
Avean fatte a più d’un di quei che stanno
A cerchio intorno e con men guardia vano.
lxxv
     Come ha scorto del vecchio il pio figliuolo
Il subito arriver, la nobil alma
Quasi che per lassare aperse il volo
Di lei spogliata la terrestre salma;
E se pria la bramò per l’onor solo,
Or per doppia cagion ricerca palma.
Ei volea molte cose indarno dire,
Ma gli contese il duol la bocca aprire.
lxxvi
     Pur con discreto avviso in mezzo il mette
Ove più mostra il loco esser sicuro;
Poi rivolte tra lor le spalle, e strette,
Fanno intorno di lui difesa e muro.
Ma non molto così l’impresa stette,
Chè ’l gran popol che vien noioso e duro
Apporta sopra lor sì grave incarco
Che da due parti già s’ha fatto il varco.
lxxvii
     Già si trova Patride sulla testa
In tal guisa percosso da Brunoro
Che come morto alla campagna resta.
Il medesmo avvenuto era a Plenoro,
A cui la gente d’ogni parte infesta
D’intorno sta come i mastini al toro:
E mille colpi asprissimi gli han dato,
Tal ch’anch’ei senza sensi è riversato.
lxxviii
     Riman sol Matagrante e ’l padre e ’l figlio,
Il cui sommo valor pur non s’arrende.
Avea ’l famoso re fatto vermiglio
Tutto il terren dove la spada stende:
Imonio il Provenzal passò dal ciglio
Tutta la fronte, onde lo spirto rende,
Dicendo: Appressa pur, turba negletta,
Che non mi anciderai senza vendetta.
lxxix
     Con costui poscia del medesmo nido
Uccise Arpalïone e Perifete;
Ma sempre a lui congiunto il figliuol fido
Come fieno il villan la gente miete:
Pur sì grande è lo stuol che corre al grido,
Come i cani al leon ch’è nella rete,
Che la forza e ’l valore in van s’adopra,
S’altra aita maggior non viene all’opra.
lxxx
     Ma il famoso Boorte, che non lunge
Co’ suoi levi cavai ferendo giva,
Come a lui messaggier volando giunge
Di quanto in danno loro ivi seguiva,
Con sollecito core il destrier punge
Dov’è dell’Euro l’arenosa riva,
E seguito da’ suoi quanto più puote
Per traverso i nemici aspro percuote.

[p. xlv modifica]

lxxxi
     Qual, l’estiva stagion, talora avviene,
Quando il più caldo dì le piagge fende
Che d’atre nubi inghirlandando viene
L’austro, che sovra il mar l’ali distende
E scurando le luci al ciel serene
Cerer, Bacco, Pomona e Palla offende
Con grandine sassosa, orrida e cruda
Che le piante e la terra ha fatta ignuda;
lxxxii
     Tal sopra i suoi nemici allor Boorte
Il valore e ’l furore in un distese:
A quello aspro minaccia, a quel dà morte,
L’uno empiè di timore e l’altro offese.
Poi, rotte avendo le primiere porte,
Intento solo a quello, il sentier prese
Ove il re Lago e l’onorato figlio
Giunti eran ambo all’ultimo periglio:
lxxxiii
     Perchè quel senza scudo e senza spada,
Che gli si ruppe in man, si vede e lasso;
Il forte Eretto ha l’elmo su la strada,
E del destro braccial si truova casso:
Pur con l’altro a guardar la fronte bada,
E col brando, ch’ha intero, cuopre il basso;
Il terzo è poco men che sbigottito,
Che ’l sinistro ginocchio avea ferito.
lxxxiv
     Come al tempo novel, doppo la pioggia
Che da Zefir sospinta inondi e bagne,
Che veder ponsi in disusata foggia
L’erbe abbattute e i fior per le campagne,
Che ’l sol poi chiaro e bel che in alto poggia
Porti dolce conforto a chi si lagne
E di sì bel ristoro il mondo adorni
Che quanto era il dolor la gioia torni;
lxxxv
     Tai fur da prima, e tai si fero appresso
I guerrier, di Boorte all’apparire,
Per timor più d’altrui che di se stesso,
Che nessun cura il proprio suo morire.
Or poi che ’n fra le schiere oltra s’è messo,
Con l’urto del cavallo e col ferire
Sì larga e bella piazza intorno face
Ch’ei pon l’arme ricòr che ’n terra giace.
lxxxvi
     Ripon sopra i destrier ch’avea de’ suoi
Il vecchio re dell’Orcadi e ’l figliuolo,
Patride al cerchio d’oro e gli altri duoi
Che fur feriti dal crudele stuolo,
Che possan dare a i loro ordine; e poi,
Quei sicuri lassando, prende il volo
In ver Brunoro il Nero e Terrigano,
Che ’n luogo eran di là poco lontano:
lxxxvii
     E messosi tra loro ambo gli atterra,
L’un colla groppa e l’altro con la testa
Del suo nobil corsier, che in aspra guerra
Or col piede or col morso altrui molesta;
Poi nel popol vicin ratto si serra,
Che ’n nuova tema e sbigottito resta,
Ch’ove pria si credea vittoria avere
I due duci miglior vide cadere.
lxxxviii
     Lì non ad un ad un, ma a schiera a schiera
Stende tutti all’arena, e molti uccide;
Nulla parte di lor rimane intera,
Ch’ove insieme gli scerna gli divide:
In fin che Marabon della Riviera,
Che par che nel valor troppo s’affide,
Con gli Allobrogi suoi ristretto truove
Che spiegate l’insegne incontra muove.
lxxxix
     Tosto che ’l vide tal, l’accorto duce
Cangia a’ consigli suoi novelle forme,
Che ’l fren tanto ritien, che si conduce
Marabon per ferire all’ultim’orme;
Apresi poi nel mezzo, e i suoi riduce
Egualmente divisi in doppie torme,
E nel lor destro e lor sinistro lato
Dietro a gli ordin primieri è ratto entrato.
xc
     Così, l’aste schivando delle fronti,
Con sua più sicurtà percuote i fianchi,
In prestezza coltal ch’ancor che pronti
Voltar non ponsi, ove la forza manchi;
Poscia, entrato fra lor, confusi monti
D’arme e di gente fà, che vinti e stanchi
E calcati son tutti dallo intoppo
Feroce de’ corsier, che pesan troppo.
xci
     Ma con sommo valor secura strada
A i suoi mostra il magnanimo Boorte:
Sempre ha in danno d’alcun la grave spada
Di sangue aspersa e di color di morte.
Tosto ch’ei può trovar chi incontra vada
Gli mostra aperte le tartaree porte,
E di stuol popolare uccisi ha tanti
Che del credere uman vanno più innanti:
xcii
     Poi tra’ duci Aretaone e Pidita,
Del Rodan nati alla sinistra riva
Dentro la nobil Vienna, in cui gradita
Di Roma è ancor la gran memoria viva.
Fu quello offeso di mortal ferita
Ove al collo congiunto in alto arriva
Della spina del dorso il nodo primo,
E traverso il tagliò dal sommo all’imo;
xciii
     L’altro nel destro lato fu percosso
Ove l’omero al braccio si contiene,
E tutto interamente tagliò l’osso
Che più largo e sottil di dietro viene.
Isandro ancor, che da pietà è commosso
Di vendicarli avea fallace spene,
Con la testa in due parti compagnia
Fece a i cari cugin per l’atra via.
xciv
     Melantio poi, che la nevosa valle
Dell’aspro Tarantasio patria avea,
Con la testa troncata dalle spalle
Diè fine acerba alla sua vita rea:
Chè quanto ivi contien l’alpestre calle
Di giogo insopportabile premea,
Nè vi poteva alcun goder sicuro
La famiglia nè i ben nè il patrio muro.

[p. xlvi modifica]

xcv
     Adresto poi, del qual mai più felice
Non vide alcun la rapida Lisera,
Che sposa avea la vaga Berenice
Che fu dell’alma sua la vita intera;
Per le man di Boorte, l’infelice
Innanzi al mezzo dì fu giunto a sera,
Ch’alla gola il percosse: ed ei morendo
Il suo lontano amor chiamò piangendo.
xcvi
     Ma il valoroso Lago, ch’è disciolto
Dal numero infinito ch’avea intorno,
Sopra il caval montato e ’n sè raccolto,
Alla guerra intermessa fa ritorno,
Dicendo a gli altri con allegro volto:
Or gimo a vendicar l’avuto scorno,
Chè ben provvide il ciel fidate scorte,
Poi che qui spinse il nobile Boorte.
xcvii
     Così col figlio Eretto e gli altri insieme,
Ove la gente avversa è più ristretta,
Con impeto crudel la punge e preme
E sotto sopra attraversata getta.
Quel morto è in tutto e quel languendo geme,
Quel d’uscir dalla calca in van s’affretta,
E quel che più scampar credea la vita
Più da gli stessi amici l’ha impedita.
xcviii
     Pur, fra quei che fuggir, resta Piroco,
Che ’n sul lago Lemanno avea la sede,
In cui gli abitator del fertil loco
Avean, più che in altrui, sparanza e fede,
E quello dio fra lor ch’ha in guardia il foco
Il sommo sacerdozio gli concede:
Ma questa volta, in van da lui pregato,
Non potè in suo favor vincere il fato;
xcix
     Chè mentre al vecchio re con l’asta intende,
Disegnando a ferir quello e ’l destriero,
Nel forte scudo di traverso il prende,
E sfuggendo ha fallito il suo pensiero.
Ma il re spronando avanti in basso scende
Un colpo che ’l trovò dritto al cimiero,
Ove sopra la incude avea Vulcano
Ch’un dorato martel sostiene in mano:
c
     Quello abbatte lontan, poscia divise
La celata ch’avea di doppio acciaro,
Là fabbricata in maestrevol guise
Ove il Rodan riprende il corso chiaro
Da’ servi del suo dio, ch’all’opra arrise;
Ma non per tutto ciò fè gran riparo,
Perch’oltra ancor la già sacrata testa
In due parti disgiunta in essa resta.
ci
     Ucciso Eretto avea Bellorofonte,
Che così s’appellò costui, chè nacque
Nelle fredde radici del gran monte
Ch’a Lisera dà ber le gelide acque,
Perchè là intorno al suo nevoso fonte
Vinto per le sue mani e morto giacque.
Un morto rio, di vista orrenda e fera
Che fu simil tenuto alla Chimera.
cii
     Ma il braccio, contro a quel sì forte allora,
Verso il giovine ardito or parve frale:
Perch’ove, più il ginocchio spinge infuora
Percote in van, ch’a trapassar non vale;
E l’altro a lui nella medesim’ora
Sovra il collo drizzò colpo mortale
Che ’n basso gli gettò la fronte d’alto,
E fè in terra rotando amaro salto.
ciii
     Patride al cerchio d’or l’empio Proete
Con la gola impiagata morto stese,
Cui di torto regnare ingiusta sete
Indusse a tal che ’l proprio frate offese,
Nè il sen della pia madre Filemete
Nè l’aspro lagrimar, lasso, il difese;
Doppo il qual fu tiranno ingiusto ed agro,
Lungo il Rodan del popolo Veragro.
civ
     Plenoro, ch’abbatuto era pur dianzi
E ch’ha d’offender quei dritta cagione,
Come gli altri a caval si mette innanzi,
Là dove incontra il misero Etïone
Ch’a’ dolci versi e placidi romanzi
Più ch’all’opre di Marte studio pone:
Ma seguia Gracedon della Vallea,
Che di lui spesso udir diletto avea.
cv
     Tra lauri, aranci e mirti era nodrito
De’ colli provenzai, che ’n contra stanno
Al mai sempre a’ nocchier securo lito
Che le Stecade in cerchio all’onde fanno:
Or qui l’empio destin l’ha fatto ardito
Di gir contro a Plenoro, a suo gran danno:
Perchè, mentre ch’ei pensa ove ferire,
Può il cor sentir di greve punta aprire.
cvi
     Pianser le Muse allor, ma non potero
Col dolce lagrimar disdire al fato.
Matagrante anco spinse il suo destriero
Ove scorge Scamandro a lui voltato:
Dona un colpo alla spalla, e tutto intero
Il braccio della spada gli ha troncato;
Cadde il meschino, e piange entro al suo seno
Che lassò mai di Sorga il lito ameno.
cvii
     Or poi che vendicato in maggior parte
Ha gli oltraggi sofferti da’ nemici,
L’antico re dell’Orcadi si parte
E torna ove aspettato è da gli amici:
Che sbigottiti ancor sono in disparte,
Senz’ordine tener, lassi e ’nfelici
Come greggia in tra’ lupi che lontani
Aver senta da lei pastori e cani.
cviii
     Ma quando vider lui lieto apparire
Come sceso dal ciel gli vanno intorno.
Ivi ciascun narrando vuole aprire
Il ricevuto danno e ’l sommo scorno:
Di vendicarse ogni uom mostra desire
Pria che nell’ocean s’attuffe il giorno,
Poi sopra la fortuna o in altrui pone
Di quanto avvenne lor l’aspra cagione.