Avarchide/Canto IV
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CANTO IV
ARGOMENTO
Rotta la fede si dispone Arturo
Entrar co' suoi guerrier nella battaglia;
Va pur Clodasso al periglioso e duro
Ballo di Marte, e fa veder che vaglia.
Palamede, con mano e cor securo,
Semina il campo di nemica maglia;
Tristano accorre, e fa strage altrettante.
Con Palamede a fronte è Gossemante.
i
In questo tempo già d’Avarco l’oste
Tutte l’arme lassate avea riprese,
E nell’ordin medesmo eran riposte
Le genti, apparecchiate a nuove offese.
Già l’insegne che fur per terra poste
Hanno al ciel minaccianti l’ali stese,
Già le trombe sonore in ogni parte
Sveglian d’alto romor Bellona e Marte;
ii
Perchè tosto Tristano e Maligante,
Boorte e Lïonello e gli altri insieme
Dicon ch’è tempo omai di gire avante
Verso ’l nemico che vicin gli preme.
Ma il magnanimo Arturo, che le sante
Di lassù leggi e gli spergiuri teme
Più che l’armi mortali, ordine diede
Ch’affrenasse ciascun la mano e ’l piede;
iii
Poi riguardando al Ciel dicea: Signore
Che vedi aperto il tutto e ’l tutto sai,
Rivolgi sovra il popol peccatore
L’aspra giustizia e i meritati guai;
E ’n quei che senti d’ogni colpa fuore
Drizza di tua pietà gli ardenti rai.
La ragion pia col tuo poter difendi
E sciolto me d’ogni promessa rendi.
iv
Così detto fe’ alzar la bianca insegna
E chiamar d’ogni loco alla battaglia:
E già sopra il destrier lieto s’ingegna
Di mostrar nel sembiante che gli caglia
Poco de’ suoi nemici, e che si tegna
Tal la vittoria in man, che non l’assaglia
Alcun nuovo timore; e ’n cotal dire
A i miglior, ragionando, apporta ardire:
v
Valorosi miei duci e cavalieri,
Andiamo al sommo onor con lieto petto,
Chè ne promette Dio, degl’empi e feri
Nostri avversari in questo giorno eletto,
Perchè il mondo conosca, e in Esso speri,
Che non lasse impunito alcun difetto,
Ma le cose mortali intenda e curi,
E più dell’altre tutte gli spergiuri.
vi
E vi sovvegna poi che questi stessi
Son che già tante volte avem provati,
E tante volte rotti e ’n fuga messi
Che son tinte di lor le piaggie e i prati.
Or tra sì gran trionfi e così spessi
Che sempre con onor saran lodati
Quest’ultimo verrà sì degno e tale
Che la gloria di quei farà immortale.
vii
Poi quindi trapassando, ove scorgea
Tra’ più bassi guerrieri alcun ch’al volto
Si mostrasse temere, alto dicea:
Entriam, cari fugliuoi, nel popol folto,
Con sicuro pensar chè morte rea
L’aggia all’estremo dì per noi raccolto:
Ma non convien tardar, che la fortuna
Contra i pigri alla fin la fronte imbruna;
viii
Nè dona il Ciel favore a quei che stanno
Lenti a veder ciò che n’apporti l’ora,
Ma solamente a quei ch’arditi vanno
Con la man pronta ove se stessa onora.
Chi desia di schivar futuro danno
Al presente periglio s’armi allora:
Muoviamo il passo, e con sicura speme,
Che non taglia il coltel dell’uom che teme.
ix
Seguitando oltra ancora, al loco arriva
Ove de’ forti Neustri avea la schiera
Blomberisse, ed a quella innanzi giva
Quasi feroce cane in vista altera.
Tra gli estremi Blanor dietro seguiva
Come pastor che la sua gregge intera
Va mantenendo, e punge in opra o ’n detto
Chi non servasse a pien l’ordin perfetto.
x
Contento nel suo cor, gioioso disse,
Dolcemente chiamandolo, il re Arturo:
Chi non sa il gran saver di Blomberisse
Della chiara vittoria andar sicuro?
Tutte l’erranti faci e l’altre fisse
Serrano in voi, più ch’adamante duro,
Quanto alberga lassù valore, ond’io
Sprezzo con voi fortuna e ’l destin rio.
xi
Ed egli a lui: Nel buon voler ch’io porto,
Quanto in cosa mortal fra noi si possa,
Non è ’l vostro sperar, signore, a torto,
Se rispondesse a quel la breve possa.
Sì vi promett’io ben che prima morto
Sarò posto sotterra in poca fossa,
Che stanco di servirvi, e d’esser tale
Ch’alla vostra credenza io venga eguale.
xii
Rendegli grazie con sembiante umano
E ’n parlar dolce e di sue lodi adorno;
Poi si volge il buon re dove Tristano
Acconcia a guerra il suo sinistro corno,
E più d’un chiaro duce e capitano
E più d’un cavalier tenea d’intorno:
Poi di guerrier pedestri si vedea
La grande schiera ch’alle spalle avea,
xiii
Che folta nebbia sembra che dal mare
Di Zefiro il soffiar sospinga a terra,
Che d’atra pece oscuro fumo pare
Che rabbiosa tempesta in grembo serra;
Ond’il rozzo pastor tremante andare
Cercando scampo alla vicina guerra
Si vede, e rimenar le gregge seco
Quanto può ratto al più vicino speco.
xiv
Disse allor lieto il re: Germe onorato
Del più famoso tronco che mai fusse,
Dico di quel ch’a pien già mai lodato
Esser non può, del buon Melïadusse:
Tanto v’ha spinto in alto il vostro fato
Con le natie virtù che ’n voi produsse,
Ch’uopo non sono a voi conforti o preghi
Perch’a nobili imprese il cor si pieghi.
xv
Così piacesse a Dio ch’animo tale
In qualch’altro di noi spirasse ancora,
Ch’assai più basse di speranza l’ale
Avria Clodasso, e chi con lui dimora;
Ma con voi tutto solo, e nullo eguale,
Pria che dell’oceàn sia l’ombra fuora
Aspetto io di veder condotto a porto
Il vïaggio in fin qui dal Cielo scorto.
xvi
Oltra passando poi, vicin ritruova
Il vecchio re dell’Orcadi tra’ suoi,
Che l’ordine intermesso ivi rinnuova
Con cerchio intorno di famosi eroi:
Eretto il figlio, a cui d’insegnar giova
Ciò che in guerra conviensi, e seco poi
Patrìdo al cerchio d’oro, il brun Matanzo,
Plenoro, Matragante e ’l pio Drianzo.
xvii
Posta ch’ha de’ cavai la torma innanzi
Comanda: Gite ognor ristretti insieme,
Nè per suo troppo ardire alcun s’avanzi
D’un passo pur, se ’l mio corruccio teme,
Nè dall’orma primiera ov’era dianzi
Mai torni il piè, se ben la forza il preme:
Che lo spavento e ’l rifuggir d’un solo
Fece perder sovente un grande stuolo.
xviii
I pedestri guerrier pose alle spalle
De’ cavalieri, e fece che i migliori
Fosser nel primo e nell’estremo calle,
Nel mezzo i nuovi e men feroci cori:
Quasi fra due gran monti un’umil valle
Ch’a viva forza par ch’ivi dimori;
Poi di saggi ricordi empiea le menti
L’antico duce all’ordinate genti.
xix
Stato alquanto a mirar, l’invitto Arturo
In tai parole il buon volere apria:
Fosse oggi il corpo alle fatiche duro
Come l’invitto cor pronto saria,
Padre onorato mio, ch’io son sicuro
Che tutto il mondo ancor vi temeria:
Fosse in altrui la debile vecchiezza,
E ’n voi la già fiorita giovinezza.
xx
Gli rispose il re Lago: Or foss’io tale
Qual era allor ch’apresso a Maloalto
La bella donna che non ebbe eguale
Difesi solo, al periglioso assalto
Di cento cavalier, che del mortale
Velo spogliati al gran Fattore in alto
Quaranta ne mandai, venti restaro
Feriti in terra, e gli altri si salvaro!
xxi
Ma no ’l concede Dio, che tutto insieme
Non vuol donare ad uno: allor mi diede
Gioventù senza senno, ed or mi preme
Vecchiezza tal, ma che più lunge vede;
Ond’io tengo, alto re, nell’alma speme,
Poi che forza non ha la man nè ’l piede,
Che ’l nostro consigliar fia di tal peso
Che di molti il poter ne resti offeso.
xxii
Passa oltra Arturo, e vede assai lontano
Maligante co’ suoi di Vetta intorno,
E seco Bandegamo, il suo germano,
Con quei della Rossia, presso a Lindorno,
Ch’attendean la risposta da Tristano
Se devean rimenar sotto al suo corno
Le genti come prima, e ancor non era
Lor tornata di ciò novella vera.
xxiii
Allora irato il re dice: O signori
Tanto famosi nella vostra Gorre,
È questo il modo a guadagnar gli onori
Che vi fanno a mill’altri innanzi porre,
Ch’or vi restiate ascosi tra i peggiori,
Quando ogni vil guerriero innanzi corre?
E voi devreste pur, s’io dritto estimi,
Esser con l’arme in mano omai fra’ primi.
xxiv
Tutto sdegnoso Maligante allora
Rispose: E come il cor vi può soffrire,
In cui tal senno e cortesia dimora,
A tali a torto e tale oltraggio dire?
Guardate poi quando venuta l’ora
Fia dal publico segno di ferire:
E se innanzi alle nostre orma si segna
Vengane pena in noi del fallo degna.
xxv
Quando vide il gran re così turbato
Quel che tanto onorò ridendo disse:
Prendete in gioco ciò, figlio onorato
Del miglior cavalier che già mai visse:
E vi sovvegna ben che in ogni stato
Ho solo in voi le mie speranze fisse.
Seguite pure, e ’l Ciel rivolga in gioia
Questa breve tra noi passata noia.
xxvi
Così oltra passò dove Boorte
I cavalli ordinando intorno giva;
Seco aveva Baveno e ’l saggio e forte
Nestore, il suo fratel, che lui seguiva,
Ch’a’ Belgici guerrier faceano scorte
Non lunge all’Euro, su la destra riva:
I quai parendo al re starsi in riposo
Comincia alto a chiamar tutto sdegnoso:
xxvii
Che tardate voi qui? Perchè non sète
Con gli altri omai tra le primiere squadre?
Boorte, i’ dico a voi, che ritenete
Il nome sol dell’onorato padre
Che di null’altro al mondo ebbe mai sete
Che d’esser primo all’opere leggiadre:
Pronto, accorto, svegliato e senza tema,
Di volor colmo e di virtude estrema.
xxviii
No ’l vidi io già, ma tal per me s’udìo
Il mio re Pandragon di lui narrare
Quando egli uccise Rabilante il Rio
Che volea la Brettagna soggiogare;
Che presso a Camelotto l’assalìo,
Sendo tutto soletto in riva al mare,
E quegli avea cinquanta cavalieri
De’ miglior di Sassonia e de’ più feri,
xxix
E ’n fra gli altri Sarondo e Filidasso:
E di tutti sol un dimorò in vita,
Che fu Mogarto, a cui Boorte lasso
D’uccider tanti gli donò spedita
La strada, e comandò ch’a ratto passo
Andasse a gli altri a dir come seguita
Fosse fra lor quella battaglia fera,
Di cui sol testimon rimaso n’era.
xxx
Tal fu il vecchio Boorte re di Gave,
A cui par che ’l figliuol simiglie poco.
Fè d’Arturo il parlar noioso e grave
Al giovin’ onorato il cor di foco;
Ma cugin sendo a Lancilotto, pave
Di non far come quegli, e ’l prende in gioco:
Ma il famoso Baveno, al re rivolto,
Così dicea con arrossito volto:
xxxi
Non ne ritien, signore, in questa parte
Il voler neghittoso o la viltade,
Ma per muoverci a guerra con quell’arte
Che si convien per l’animose strade:
Nè cederremmo in arme al proprio Marte,
Non ch’ad altro mortale, in altra etade;
E come l’opra par ch’aperto mostri,
Vie miglior ci tegniam che i padri nostri:
xxxii
Che quei d’alto valor, come voi dite,
Perdèr Gave Benicco e i regni loro,
In essiglio menar le regie vite
E nell’altrui terren sepolti foro;
Ma noi con queste spade assai gradite
Avem di palma e trïonfale alloro
Le lor ceneri ornate, e molte terre
Racquistate di lor con molte guerre.
xxxiii
Ma il pio Boorte riprendea Baveno
Dicendo or non più no, ch’a noi non lice
Di contender col re, ma tutto a pieno
Ascoltando obbedir ciò ch’esso dice:
Che suo sarà l’onor, se ’l Ciel sereno
Gli darà della guerra il fin felice,
E se ’l contrario fia, sua la vergogna;
Però ben proveder per tutto agogna.
xxxiv
Così detto il destrier più innanzi sprona
E con cura maggior comanda intorno:
Questo chiama e lusinga, e quello intuona
Con alte voci, e gli minaccia scorno;
Or percuote il cavallo, or la persona
Di quei che fanno all’obbedir soggiorno:
Tal che diede in un punto alla gran torma
Di tutti i cavalier dovuta forma.
xxxv
Or come suol Nettunno, ch’al soffiare
Di Zefiro sospinto il lito inonde,
Che prima di lontan si scerne il mare
Montare al ciel con le sue torbid’onde,
Poi come in bassa valle, ritornare,
Drizzando il passo alle vicine sponde,
Ove in alto mugir, di spuma carco,
Gli scogli ingombra e l’arenoso varco;
xxxvi
Così pareano allor le schiere folte,
Che separate pria son poste insieme:
Le quai con lento gir si son rivolte
Verso il nemico suo, che già le preme.
Poi che fur più vicine, in un raccolte
Con l’arme e con l’ardir le forze estreme,
Con più avvisato cor, con menti nuove
Si confortan fra loro all’alte prove.
xxxvii
Veggionsi i duci avanti, e d’essi soli
S’udian le voci esercitar l’impero:
Gli altri guerrier, quai semplici figliuoli
A cui mostrino, i padri il buon sentiero,
Taciti van, nè l’un de i fermi poli
Guarda la notte il provido nocchiero
Con sì gran cura, come questi fanno
Chi può loro apportar vittoria o danno.
xxxviii
Vengon quei di Clodasso d’altra parte
Con vie più gran romor che nell’aprile
Non fa la greggia, che ’l pastor diparte
Da’ nuovi agnei dentro al serrato ovile
Per trar più largo il latte, ove in disparte
Sente afflitta chiamar con prego umìle
Il nutrimento suo la dolce prole,
Che in voci spesse si lamenta e duole.
xxxix
Eran le lingue poi verie e diverse
Come vari e diversi hanno i paesi:
Di contrari color son l’armi asperse,
E di mille maniere gli altri arnesi;
E ben pon quei d’Arturo anco vederse
Di strane patrie: ma, gran tempo appresi
Alla medesma scuola, in lor l’usanza,
Come spesso adivien, natura avanza.
xl
Già quinci e quindi si vedean volare
Lo Spavento e ’l Timor con trepid’ali,
Or alti in aria a suo diporto stare
Or ne’ cori avventar gelati strali:
Poscia, scacciati, in altra parte andare,
Dall’ira avversa, a cui non sono eguali;
Dall’ira, ch’al principio lento il passo
Muove per un sentier ch’è oscuro e basso:
xli
Indi l’ali spiegando a poco a poco
Prende aperto cammin ch’al ciel sormonte;
Poi fatta in vista di color di foco
Infin sovra le nubi alza la fronte.
Questa adunque avvampando in ogni loco
Facea del sangue altrui l’anime pronte
E nulla cura aver della sua sorte,
Portando solo in cor desio di morte.
xlii
Or già il buon Maligante e ’l pio Boorte,
Questo a man destra, alla sinistra quello,
A’ più levi cavai facendo scorte
Muovon più presti che rapace augello;
Dietro lor la pedestre sua coorte
Spinge il re Pelinoro e Lïonello,
Le quai di frombator sono e d’arcieri,
Tutti al corso prontissimi e leggieri.
xliii
Il romor de’ destrier, dell’arme il suono,
De’ guerrieri il gridar, l’orribil trombe
Sveglian sì grave e tempestoso tuono
Che ’l mar, l’aria e la terra ne rimbombe:
Per cui cadute in basso aquile sono,
Non pur cornici o pavide colombe;
Tremò intorno la valle, e d’Euro l’onde
S’alzar crollando tra l’erbose sponde.
xliv
Mosser di quei d’Avarco, al muover loro,
Non men bramosi del mortale assalto,
Con genti eguali il forte Palamoro,
Farano e Loto, che seguia Verralto;
Primi allo scontro a ritrovarsi foro
I cavalier, ch’adamantino smalto
Quinci sembraro e quindi elette incudi,
Tanto strepito fèr l’arme e gli scudi.
xlv
I tronchi delle lance hanno il sentiero
In un momento sol tutto ripieno;
Puossi steso veder più d’un destriero
Luttar con morte e mordere il terreno:
Ivi oppresso riman quel cavaliero,
Quel tutto estinto e quel di sangue pieno;
Quel che più ferma ancor sostien la vita,
Quantunque a piè, col buon voler s’aita.
xlvi
De’ pedestri, impiagato il petto o ’l fianco
Chi va col volto a terra e chi riverso,
Chi vive ancor, ma spento ha in tutto e stanco
Il suo primo valor, di polve asperso;
Chi lo scudo ha impedito e ’l braccio manco
Di più d’un colpo che ’l passò traverso;
E chi si trova san, cangiando varco,
Ora in questo or in quello addrizza l’arco.
xlvii
Ma con saggio silenzio a passo tardo
Vengon l’armate e le più gravi schiere,
Col cor ben fermo e con sottil riguardo
De i lor duci adempir tutto il volere.
Intra due corni il candido stendardo
Del Britannico re si può vedere,
Non tra i primi a ferir, ma in mezzo il calle,
Che la fronte di lor veggia e le spalle,
xlviii
Sopra un alto corsier che di colore
Rassembra all’oro, e mille oscure ruote
Della chiarezza adombran lo splendore,
Come stil di pittor più accorto puote:
E in campo che simiglia al nuovo albore
Il ciel che l’Euro d’ogni nebbia scuote,
Il suo scudo real, ch’al collo pende,
Di tredici corone aurato splende;
xlix
Con mille intorno cavalier perfetti
Di condur degni ogni onorata impresa,
Che tutti insieme in un drappello stretti
In ogni parte han presta la difesa.
Le trombe ha presso e gli altri suoni eletti
A frenar l’arme o spingerle all’offesa:
Tristan va innanzi al suo sinistro corno,
D’aurate sopraveste e d’ostro adorno;
l
E per gir come gli altri è sceso a piede,
Non dell’armi durissime ravvolto,
Gravi pur sì che se ’l bisogno vede
Che convegna stornar chi in fuga è volto,
Onde possa talor chi non provede
Ratto in più d’una parte soffrir molto,
Montando esso a caval, restino intere
Contra ogni colpo che la lancia fere.
li
In sette doppi poi di fino acciaro
Il gravissimo scudo al braccio avea,
Ove nel campo verde, a lui sì caro,
Il dorato leone alto surgea.
Così sen gìa con le sue schiere a paro,
Ma spesso l’occhio intorno rivolgea;
Due dardi ha soli in man, che tutta spene
Nella spada fatal secura tiene.
lii
Del corno destro, ancor che d’anni pieno,
Il saggio re dell’Orcadi ha la cura,
Perchè impiagato allor sendo Gaveno,
Egli in vece di lui tutto procura:
E ’l generoso cor ch’ei porta in seno
Facea forza in quei giorni alla natura,
Che col picciol cavallo è in ogni loco,
Nè mai stanche ha le membra o ’l parlar roco.
liii
Or giunti omai vicin di pochi passi
Con più furor comanda il buon Tristano
Che si affretti il cammin, non sì che lassi
Arrivin dove oprar si dee la mano,
Ma più che prima alquanto, e stretti e bassi
Vadan con l’aste, che ’l nemico in vano
Possa fra loro entrar d’alcuna sorte
Che non truovi serrate esser le porte.
liv
Fan tutte risonar le piagge e i colli
Di quelli colpi che ferir primieri:
Sospinge saldo ogn’uom, nè par che crolli
O muova il piè de’ fermi suoi sentieri;
Ma già si veggion far vermiglie e molli
L’erbe del nuovo sangue de’ guerrieri,
E diverso gridar già l’aria frange
Di chi minaccia altero e di chi piange.
lv
Non son de’ duci più le voci intese,
Così alto è il romor che ingombra il cielo:
Qual rapido torrente, poi ch’offese
Febo nel suo monton del verno il gielo,
Che ricchissimo d’onde in basso scese
Spogliando all’Alpi il suo canuto velo,
In così orribil suono e ’n tal fragore
Che si fuggon le gregge e ’l pio pastore.
lvi
Molti son morti già, molti feriti
Che da gli altri calcati a terra stanno:
Ma de i miglior guerrieri e più graditi
Sopra il campo d’Avarco e ’l primo danno,
Perchè fra gli altri giovinetti arditi
Fu il figliuol del re Armorico Britanno
E cugin di Tristan, chiamato Ovetto,
Che ’l misero Agelao ferì nel petto;
lvii
E scampar no ’l potero arme ch’avesse,
Che tutta oltra passò l’asta fatale,
La qual convenne ivi entro rimanesse,
Nè forza o ’ngegno al ritirarla vale.
Cadde traverso allor, come cadesse
Arbor percosso da celeste strale
Che di strepito il bosco empie e la valle,
Tal la piastra sonò sopra le spalle.
lviii
Bamerto, che tra i Veneti era nato,
Sovra ogni altro d’Ovetto amico e caro,
Perchè del suo signor l’atto onorato
Fusse a chi fu lontan per vista chiaro
Si fece innanzi, e dal sinistro lato,
Ove lo stuol nemico era più raro,
Prese Agelao nel piede, e d’indi trarlo
Quanto ei può più si sforza, e potea farlo;
lix
Ma il fero di Baviera Bustarino,
Che pria n’ebbe dolor come or vergogna,
Poi ch’ha perduto un dolce suo vicino
Che non resti a’ nemici almeno agogna:
Onde a quel, che tien l’occhio e ’l capo chino
Intento meno a quel che più bisogna,
Col ferro aguto ambe le tempie passa,
E sopra il primo ucciso morto il lassa.
lx
Poi che tanto ristretti son già insieme
Che dell’aste ferir non han più forma,
Fan ch’essa schiera lentamente preme
Per gli spazi lassati indietro l’orma:
L’altra, ch’è più sicura e che men teme,
Con gli scudi ferrati armata torma
Succede al primo loco, in sì bell’arte
Che non appar cangiata alcuna parte.
lxi
Restan meravigliosi e sbigottiti
De i nuovi successor quei di Clodasso;
E se come leoni in selva arditi
Non correan tosto con veloce passo
Palamede e Faran, ch’eran seguiti
Dal crudo Fortunato e Bronadasso,
Che con minaccie e forza gli han rivolti,
S’eran già spaventati, in fuga volti.
lxii
Poi che fermati gli han, trapassa avanti
Palamede e Faran, ma indietro resta
L’altra coppia di lor, che spinge innanti
Chi con timido cor lunge s’arresta,
E gli riduce all’ordin tutti quanti
Ch’aver solean nella primiera testa;
E sopra i morti allor che in terra stanno
Nuova altra guerra e perigliosa fanno.
lxiii
Vansi premendo sì che i forti scudi
Toccan l’un l’altro, e l’uno e l’altro piede
Son fra lor giunti, e dove sien più nudi,
Rimirando ciascun, di sotto siede:
Poi con aspre minacce e detti crudi
Corre ogni duce ove il bisogno vede,
Tal che chi per onore e chi per forza
Di virtù dimostrar se stesso sforza.
lxiv
Mentre fa Palamede a gli altri strada
Trovò in fra i primi il forte Aromedonte,
Che nacque in Borcheria, dove si vada
La famosa Tamigia presso al fonte;
Pongli su l’elmo la possente spada,
Con tal furor che gli partì la fronte
Per mezzo a punto infino al collo, come
Suole acuto coltel maturo pome.
lxv
Cadde col volto in giù fra l’erbe steso,
E ’l risonar dell’arme alto s’udìo.
Vien poi Pedasso, al vendicare inteso
Del suo caro germano il caso rìo:
Nè men che l’altro si ritruova offeso,
E mal successe il suo disegno pio,
Perchè, mentre ch’ei tenta lui ferire,
Si vede ogni percossa indarno gire;
lxvi
Ma Palamede a lui tutta nascose
L’invitta spada nel medesmo loco
In cui chiusi fra lor natura pose
Della vita mortal gli spirti e ’l foco:
Così, qual sasso a cui torrente rose
Della riva il sostegno a poco a poco,
Andò riverso a terra, inutil salma;
E scotendogli i piè si fuggì l’alma.
lxvii
Doppo i due pien d’ardire esce Filanto,
Lo scudier di Tristan che seco mena
Ovunqu’ei vada, e ’n lui si fida tanto
Che gli dà sovra ogni uom credenza piena:
Nato d’Alchin, che di ricchezze il vanto
Di quanti son tra l’Offa e la Villena
Nell’Armorico sen porta, e figliuolo
Ebbe negli ultimi anni questo solo.
lxviii
Vien dritto a Palamede ed alto il chiama:
Rivoltate, signor, ver noi la vista,
Che non sempre l’istesso gloria e fama
Sopra ciascun vittorïoso acquista;
Ch’a quel cui la fortuna or pregia ed ama,
In un punto poi viene odiosa e trista,
E ben sovente l’uom più tira in alto
Perchè poscia rovini a maggior salto.
lxix
Così parlando ancor, ver lui s’avventa
E con la spada il fianco gli percuote,
E quanto può impiagarlo s’argomenta,
Ma le speranze van d’effetto vòte:
Chè non in altra guisa indarno tenta
Debil ferro tagliar ben salda cote
Che facess’ei quell’arme ch’è sì dura
Che forza converrìa sopra natura.
lxx
Ma Palamede a quel l’omero trova
Con grave colpo, che ’n tal forza scende
Ch’arme doppia ch’avesse non gli giova,
Nè lo scudo fortissimo il difende
Che fu pur fabbricato a tutta prova
Là dove all’occidente il corno stende
Il suo natìo terren, d’ottima tempre,
E ’l re Melïadusse il portò sempre;
lxxi
E doppo lui Tristano, il suo figliuolo,
In fin che Marco, il re di Cornovaglia,
Gli donò quel che fu nel mondo solo
E ch’al presente avea nella battaglia,
E diè l’altro a Filanto, ch’or di duolo
Mortal non lo scampò, per quant’ei vaglia:
Perch’all’uopo maggior, lasso, gli falla
Di ben coprirlo alla sinistra spalla:
lxxii
La qual fu in modo offesa, ch’a gran pena
Si poteo sostenere, in fin ch’ancora
Un nuovo colpo, ma traverso, mena
Nel luogo stesso ove il percosse allora;
Onde cadder rotando in su la rena
Lo scudo e ’l braccio alla medesima ora,
Di ramo in guisa che dal faggio atterra
Pastore alpestre onde la mandra serra.
lxxiii
Non restò in piede il misero Filanto,
Ma qual candido fior che in riva siede
D’un verde prato, a cui passando a canto
Con l’un de’ corni suoi l’aratro fiede,
Sopr’allo scudo e su ’l sinistro canto
Dietro al sangue che versa il corpo cede;
E poi che ’n terra i piè tre volte accolse
Gli occhi d’oscura nebbia il ciel gli avvolse.
lxxiv
Non si prende di lui cura altrimenti
Il forte Palamede, e innanzi muove,
Qual libico leon che i grassi armenti
Senza cani o pastor tra i colli truove,
Che lassa questi e quei di vita spenti
Con desïoso cor di prede nuove:
E mentre pur un sol vivo ne resta
L’empia fame a sbramar mai non s’arresta.
lxxv
Incontra poi Laerco e ’l biondo Arete,
Quel di Eboraco e di Limonia questo,
Ch’ebber di vendicar soverchia sete
Del giovinetto il caso agro e funesto;
Nè le mature spighe al campo miete
Per la calda stagion villan più presto,
Che facesse ei, gettando dalle spalle
Le teste d’ambedue sopra la valle:
lxxvi
E perch’era di lor nel mezzo entrato,
Sol due colpi bastar, dritto e riverso,
Con gli elmi intorno dal medesmo lato
Non cadder tutte, ma in contrario verso,
E ’l busto di ciascun, così troncato,
Si vide alquanto in piè, di sangue asperso,
E poscia in basso gir, di torre in guisa
Dalla nemica man sotterra incisa.
lxxvii
Per questi, e quel di pria, sì gran timore
Avea compresa del sinistro corno
La parte destra, che ’l più nobil core,
Per la vita scampar, non cura scorno;
E ciascun si fuggiva, se il romore
Non fusse andato già per molti a torno,
Tanto che, come suol, con levi penne
Di Tristano all’orecchie al fin pervenne:
lxxviii
Il quale, assai lontan, dall’altra parte
L’Iberico Eussoro ucciso avia,
Che dell’indovinar sapea ben l’arte,
Per cui conobbe già sua morte ria
Nel gran Tolledo, e non mentir le carte;
Perchè mentre l’insegna ivi seguia
Di Safaro, il fratel di Palamede,
Duce di quei dove Castiglia siede,
lxxix
Il famoso Tristan dritto alla fronte
Di forza estrema con la spada il fere
Sopra l’elmo durissimo, ch’un monte
Avria potuto intero sostenere:
Perchè le stelle, ne’ suoi danni pronte,
Gli avean fatto di lunge antivedere
Ch’alla testa il minaccia il suo destino,
Onde a tre doppi il fece saldo e fino;
lxxx
Ma il ciel, che ’l volea pur, ritrovò possa
Ch’oltra ogni creder suo tutto il divise,
E là dove il più duro dell’altre ossa
Per guardia più fedel natura mise,
Fè trapassando ancor profonda fossa,
In fin che sopra il collo il colpo assise:
Onde tosto convien che morto giaccia,
Di cervella ripien l’elmo e la faccia.
lxxxi
Poco lontan da lui ferì Toone,
Che nacque anch’ei sovra l’aurato Tago:
Passogli a mezzo il core, e morto il pone,
Ove fè intorno sanguinoso lago;
Tra quei pèoi dell’istessa regïone
Eneo trovò, di vendicargli vago,
A cui intera tagliò la destra coscia,
Che non curato allor, morì d’angoscia.
lxxxii
Or mentre era più d’un per terra andato
E che innanzi al suo gir ciascun fuggiva,
Venner messi e romor da più d’un lato
Ch’altra parte de’ suoi danno soffriva;
E Drïanzo fedel, poi che cercato
L’ebbe assai tempo in van per quella riva,
Con voce stanca alfine e pien d’orrore
Gli dicea di lontan: Caro signore,
lxxxiii
Se voi non soccorrete al popol nostro
E con veloce passo e tosto, io temo
Che i dì brevi di quello e l’onor vostro
Sieno omai giunti al terminare estremo;
Chè Palamede, l’incantato mostro,
Ha fatto un grande stuol di vita scemo,
E, tra i migliori, il misero Filanto,
Che più che vendicato è stato pianto.
lxxxiv
Non mosse mai, pastor sì ratto il piede,
Al latrar de’ suoi cani e dell’armento
Al pietoso mugir, che vicin vede
Lupo affamato a divorarlo intento,
Che ’l pio Tristan, quando all’orecchie il fiede
Che ’l suo Filanto sia del mondo spento;
E come l’ali avesse, in un sol punto
Ove i suoi stanno afflitti è quasi giunto:
lxxxv
E per tutto domanda, e cerca insieme,
Ove allor Palamede andato sia,
Perch’ha di vendicar secura speme
Del suo caro scudier la sorte ria;
E rabbioso nel fin sospira e geme,
Poi ch’ha trovato che per altra via
Era gito a soccorrer quella parte
Mal condotta per lui, d’onde si parte:
lxxxvi
Nè men bramoso anch’ei di ritrovarse,
Come altra volta già, seco alla prova.
Ma da poi che Tristan le stelle scarse
Vede al suo core, e che ’l cercar non giova,
Lassa il fero disdegno riversarse
Contr’a chi n’ha men colpa, e quanti truova
Tanti senza la vita abbatte in terra,
Nè si vide già mai più crudo in guerra.
lxxxvii
Di tutti Teutran viene il primiero,
In Ila, una delle Ebridi, nativo,
Sopra la qual reggea del fren l’impero,
D’ogni giustizia e di pietade schivo;
Or qui l’indusse il rio peccato e fero
Della vita inonesta ad esser privo,
Perchè non conoscendo il buon Tristano
Mosse in ver lui la dispietata mano:
lxxxviii
E nel sinistro fianco a gran furore,
Mentre che in altra parte era rivolto,
Gli donò colpo tal, che venner fuore
Faville assai, ma non gli nocque molto.
L’altro, che d’ira è colmo e di dolore,
Una punta gli addrizza in mezzo il volto
Sopra l’osso più curvo che fa strada
In tra gli occhi all’odor che in alto vada;
lxxxix
E ’l trapassò di dietro, ove natura,
Pria ch’altrove inviargli, i nervi accoglie:
Cadde morto riverso, e gli altri han cura
Di trïonfanti, gir delle sue spoglie.
Segue egli innanzi, e reca notte oscura
A i chiari giorni e fine all’alte voglie
Di Calesio, ch’omai sperava in vano
L’unica suora aver di Segurano:
xc
La qual devea sposar come tornato
Fosse in Ibernia al nido suo natale;
Ma non gliel consentia l’avaro fato,
Perch’un colpo Tristan più che mortale
Vibrando spinse in quello istesso lato
Ove il cibo discende e ’l spirto sale
Per doppia strada, e l’una e l’altra incise
E morto a terra palpitando il mise.
xci
Trovò poi Dreso, e nel medesmo loco
E nel modo medesmo anco il ferìo:
Ma di quell’altro pur più basso un poco,
Ch’al cominciar del petto a punto gìo;
Ofeltio, Esapo, Cromido, Orsiloco
L’un doppo l’altro i primi due seguìo,
Che nell’isola istessa insieme nati
Di non si abbandonare eran giurati.
xcii
Ma chi contar potrebbe ad uno, ad uno
Quanti uccise in quell’ora il buon Tristano?
Egli avea tutto già vermiglio e bruno
Fatto a sè intorno l’arenoso piano;
Non più, dovunque ei vada, truova alcuno
Ch’attender osi l’onorata mano:
In qual parte rivolga o l’occhio o ’l piede
Fuggir la plebe paventosa vede,
xciii
In guisa di levrier che ’n gioco prenda
Di talor perseguir la greggia umìle:
Ch’or quella torma fa che ’n basso scenda,
Cercando scampo al suo sicuro ovile,
L’altra, montando a i colli, il corso stenda
Trall’usate erbe, paürosa e vile;
E quando esso lontan s’addrizza altrove
Si volgono a mirar ver cui si muove.
xciv
Ma il fero Palamede in altra parte,
Chiamando i duci suoi, non meno adopra:
Riduce tosto in un le genti sparte
E con minacce le rispinge all’opra;
Poi tutto impresso del furor di Marte
A i primi vincitor si mette sopra,
Destando sol sì orribile battaglia,
Che non val contr’a lui pistra nè maglia.
xcv
Incontra il primo il nobil Corinete,
Ch’ebbe il natal dell’Era in su la foce:
In cui di vero onor troppo alta sete,
Giovando all’immortale, al corpo nuoce,
Perchè di molto ardir tal gloria miete,
Ch’ancor ne vive in noi chiara la voce,
Ma fornì gli anni nell’età più acerba,
E di piaga mortal cadde su l’erba;
xcvi
Ch’una punta gli vien dove s’appiglia,
Nella gola alta, all’ultimo palato
La più carnosa parte ch’assottiglia
L’esca, e le fa il cammin più leve e grato.
Poscia il prode Ifinoo tra le due ciglia
In fin nella memoria ha trapassato:
Con loro appresso Acastore ed Aranco,
Questo al ventre percosso e quello al fianco.
xcvii
Già si fuggia ciascun come si vede
Di storni far la popolosa schiera,
Quando il rapace uccello alcun ne fiede,
Privo d’esca miglior, vicino a sera:
Il grido pur del forte Palamede
Più spavento apportava che Megera
Od Aletto non fan con l’aspre voci
A chi lorde ha le man di colpe atroci.
xcviii
Ma in questa è sorvenuto Gossemante,
Il core ardito, che di quelli è duce
Di Sommerseto, e se gli oppone avante
Con molti capitan che seco adduce:
E ’n minaccioso orribile sembiante
Mostrando alto lo scudo, in cui riluce
Mischiata in un la porpora e l’argento,
Rallumava il valor ch’ei truova spento,
xcix
Dicendo: O cavalier, non vi sovviene
Quei che voi fuste, e quei che fur costoro,
E quante erbe in più lochi e quante arene
Già dipingeste voi del sangue loro?
Se voi sarete quei ch’esser conviene,
Gli troverrete ancor quai sempre foro,
Ch’or non più che s’avessero altre volte
Hanno in porfiro fin le membra avvolte:
c
Nè taglian men ch’allor le nostre spade,
Pur ch’aver disponiam gli stessi cori.
Ritroviam di virtù l’antiche strade
Co i medesmi desir de’ primi onori;
Non consentiam della passata etade
Oscurare or le palme e i verdi allori,
Ma d’addoppiargli e rischiarargli, tale
Che non gli noccia mai colpo mortale.
ci
In cotai detti questo e quel raccoglie,
Che senza altro sperar ratto fuggia;
Già del primo timor gli animi scioglie
E nel cammin lasciato gli rinvia,
Già di caldo desire empie le voglie
Di vendicar ciascun la sorte ria
Chi del compagno suo, chi del germano,
Chi dell’onta ch’avea d’esser lontano.
cii
Ed esso innanzi a tutti s’appresenta
Con la schiera ordinata e ben ristretta,
E va con grande ardire ove s’avventa
Contro a chi truova, in guisa di saetta,
L’Ebrido altero, e con la spada il tenta
Sopra la destra spalla; e ben che eletta
Fosse la piastra e grossa, no ’l difese,
Che ’n fin quasi su l’osso il colpo scese,
ciii
Dicendo: Or senta il forte Palamede
Come il suo Gossemante, core ardito,
Opra in guerra la mano e non il piede,
Quale il popol peggior da lui fuggito.
L’altro col ferro sol risposta diede,
Che ’n su la fronte in alto l’ha ferito,
Di forza tal, che se veniva a pieno
Gli convertiva in notte il dì sereno;
civ
Ma il fero colpo per traverso lito
Venne sfuggendo, e nello scudo il colse:
Ond’ei ragiona, in sè medesmo irato:
Or ringraziate il Ciel che così volse,
Che ben vi diè più che benigno il fato
Poi ch’all’unghie di morte oggi vi tolse.
Ma Gossemante col primiero ardire
Di minacciar non cessa e di ferire;
cv
E stata orribil la battaglia fora,
Perchè prode è ciascuno e valoroso.
Ma de’ guerrier lo stuol, che giugne allora,
All’impresa onorata vien noioso,
Tal che per viva forza, all’istess’ora,
Si truova l’un dall’altro essere ascoso;
Nè potendo ove avean le voglie intente,
Spiegan la lor virtù sovr’altra gente.