Canto VI

../Canto V ../Canto VII IncludiIntestazione 31 agosto 2009 75% Poemi

Canto V Canto VII

 
In tai parole all’ordin suo primiero
ricondotto ciascun, muove a battaglia.
Ma in altra parte, vincitore altero,
rompe affinato ferro e salda maglia
il famoso Boorte, e già l’impero
di tutti ha in mano, ove i nemici assaglia:
ché di lui sol l’aspetto e sol la voce
più che ’l ferire altrui spaventa, e nuoce.

Il grave scudo d’ermellini adorno
con tre purpuree bande che gli cinge
adoprava il medesmo quasi, il giorno,
che di Medusa il capo si dipinge:
ché per fuggir da lui la gente intorno
l’un l’altro con timore urta e sospinge.
Così trionfator per tutto giva,
e nessun più di riguardarlo ardiva.

Il cimier, ch’una fiamma sostenea
che di vivo piropo avea colore,
la vaga stella e lucida parea
che davanti all’aurora spunta fuore
nella secca stagion che, all’onde rea,
n’apporta Febo al suo più grave ardore:
che vien più sfavillante e più soave
ch’altra luce che in mar le chiome lave.

Doppo il fuggir di molti, al fin ritruova
ove per altra strada a i danni grevi
Palamoro ha condotto aita nuova
de’ suoi cavai ch’al corso avea più levi:
così la crudel guerra si rinnuova,
e chi cadeva pria par si rilevi,
e tal riprenda ardire, e tal vigore,
che già ’l vinto minaccia il vincitore.

Non turba ciò ’l magnanimo Boorte,
anzi più lieto assai nel cor diviene,
che gli sembra onorato per vie torte
chi per l’altrui fuggir palma sostiene.
Or che sente i nemici avere scorte
di maggior forze, e di virtù ripiene,
spera, quelle abbattendo, dritta lode
riportarne più chiara, e ’n sé ne gode,

e gli pare or trovarsi a guerra eguale
che d’arme e di cavai sembiante fosse.
Or qual rapace uccel che stenda l’ale
alla preda affamato, il destrier mosse:
ratto Esclaborre tra i primier l’assale,
e con l’asta durissima percosse
lui che la spada ha sol, ma il curò poco,
né per colpo cangiò pensiero o loco.

Né in altra guisa all’orrida tempesta
dà in aspro scoglio tormentata nave,
ch’ei non si crolla pur, ma quella resta
rotta e sommersa, a se medesma grave;
cotal la lancia vien poco molesta
a chi spunta ogni forza e nulla pave,
ma si ruppe ella in vano, e lui passando
Boorte nel cimier ferì col brando:

e fu il colpo cotal, ch’al greve peso
non si può sostener dritto Esclaborre,
che quantunque non sia di piaga offeso
conviengli al suo destrier l’incarco tòrre,
e tosto cadde su ’l sentiero steso
qual d’alto in basso fulminata torre.
L’altro senza guardarlo a terra il lassa
e sopra i suoi compagni innanzi passa.

Oltra i monti Navarri, ove a Palenza
va irrigando il terren Linia e Duero,
Fradmone avea, che fu d’alta eccellenza,
in sacre leggi espor dritto e severo,
tal ch’a lui fu con somma riverenza
d’ogni lite estricar dato l’impero:
e ’n supreme ricchezze due figliuoli,
Locasto e Gesileo, si trovò soli;

i quai semplici allor le paterne orme,
come spesso adiviene, ebbero a sdegno,
e di quei cavalier seguir le torme
ch’Esclaborre tenea sotto il suo regno.
Or lui vedendo ch’abbattuto dorme,
e più di morto che di vivo ha segno,
si divison tra lor da ciascun lato
e ’mprovisto il guerriero hanno scontrato.

e ben seco pensar di pia vendetta
gloria portar sopra l’offeso duce;
e ’l ferì Gesileo dove più stretta
la cintura alla destra si conduce,
Locasto alla sinistra, ove d’eletta
tempra sopra le spalle il ferro luce:
ma gli fero ambedue sì lieve danno
che ’n duol soverchio e meraviglia stanno.

Ma il cavalier di Gave al più vicino
dentro al cavo del petto addrizza il brando,
e delle chiuse coste apre il confino
e ’l pon di vita e del destriero in bando.
Gesileo, ch’alla destra era in cammino
e ’l fratel d’aiutar giva cercando,
sopra la testa di traverso fere
e non lunge al primiero il feo cadere.

Quei che ’ntorno seguiano i buon corsieri,
ch’ivi de’ lor signor ivan disciolti,
porgono a i dolci amici e cavalieri
fan gli stanchi pedestri, ch’eran molti.
Sprona il prode Boorte ove più feri
scorge in arme i nemici, ove più folti,
e gli umilia in tal sorte, e gli dirada,
ch’ovunqu’ei muove il piè truova ampia strada;

or atterra i cavalli, or quella gente
ch’al suo sommo poter vuol contrastare.
Come talvolta il rapido torrente,
quando armato di piogge l’austro appare
allor che ’l sol doppo la bruma algente
suol dell’Alpi canute il pel cangiare,
ch’ei per doppio vigor leva la fronte
scendendo ardito e minaccioso il monte,

e co i ponti sommersi a forza mena
qualunque arbore incontra, argine o sasso;
biade, armenti, pastor, la mandra piena
degl’infelici agnei conduce in basso:
pur giunto alfin sopra l’antica arena
ratto e vittorïoso allarga il passo,
e quanto ivi la valle e ’l pian si stende
al suo imero novel suggetto rende;

simil a lui ’l magnanimo Boorte
quel giorno par fra le nemiche schiere:
queste a fuga condanna e quelle a morte,
or col ferro, or con l’urto abbatte e fere.
I miglior duci e le più altere scorte
non ponno al greve caso provvedere,
ché tale stringe ogn’uom timor di lui
ch’ei non sente se stesso, e meno altrui;

e ’n van son le minacce e i preghi in vano,
e i ricordi d’onor non han più loco.
Non giova contro a lor muover la mano,
perch’ogn’altro morir paventan poco:
ogni alto duce e cavaliero Ispano,
ch’ivi erano i maggior, sembran di foco
per lor privata e pubblica vergogna,
e di quei ritener ciascuno agogna.

Ma come ogni fatica indarno spende
chi vuol l’onda serrar ch’ha preso il corso,
che può quella veder ch’a destra scende
poi che nella sinistra avea soccorso,
o che da tergo il leve passo stende
allor che nella fronte è posto il morso:
poi ch’abbondata al fin cresce il furore,
ogni freno sprezzando, esce di fuore:

a quei duci il medesmo avvenuto era
che ’l timore affrenare ebbero speme.
Ma il feroce Boorte or quella schiera
or quest’altra, ch’ei truova, abbatte e preme;
or nella fronte lor che va primiera
or con gli ultimi andar si vede insieme,
e sì oltra talor passato ha il varco
ch’ei non si discernea da quei d’Avarco;

e già tanto piegava al fero assalto
che indietro si fuggia tutto quel corno;
s’al gran bisogno subito Verralto
non venia, con gli arcier ch’aveva intorno:
e seco era il possente Morassalto
con quei della Granata al mezzo giorno,
Druscheno e Loto, il duce d’Aragona,
e Roderco co’ suoi di Barzalona.

All’apparir de’ quai, riprende ardire
di quei che si fuggian la miglior parte:
ivi altro nuovo modo han di ferire
di lontan quelle genti, e ’n giro sparte.
Poco puote il valore incontra gire,
ch’han più che di leon di volpe l’arte,
e già più d’un famoso cavaliero
è ferito da lor, più d’un destriero.

Non però di Boorte la virtude
per novello accidente anco vien meno,
ma con più sdegno e più furor si chiude
dell’aperte ali nel profondo seno:
né gran ferro affocato sopra incude
batté mai fabbro allor ch’al suo terreno
vuol dare al pio cultor sementa nuova,
ch’al vecchio aratro il vomero rinnuova;

com’ei senza arrestar, la grave spada
sempre menendo a cerchio, gli percuote:
quel pon morto riverso su la strada,
quel della mano e quel del braccio scuote,
quell’urta col destrier, mentre ch’ei bada
ove alcuno impiagar più dritto puote:
tal che sol di lontan fallaci e lenti
pon commettere i colpi in aria a i venti.

Ma il rio Druscheno, che in Valenza nato
tra ’l fiume Goldamoro era e la Sema,
poi che sente il suo popolo affannato
di morte in preda e di soverchia tema,
quanto può ascoso si tirò dal lato
ove Boorte allor la gente prema;
poi tende l’arco, e di possente strale
addrizza verso lui colpo mortale:

e nell’omero destro il prese a punto
ove più la corazza in basso viene;
passa tutto oltra, e gli ha quel lato punto
da cui con molti rami escon le vene.
Lieto grida Druscheno: “A morte è giunto
chi dava a i nostri inevitabil pene;
non sia chi tema più, signor d’Avarco,
ch’alla nostra vittoria aperto è il varco.

Di tutti quei d’Arturo oggi il migliore
fia scarco per mia man di vita omai:
rivestiam pure il solito valore
per tosto vendicar gli avuti guai.
Or risurge per me l’ispano onore
che più che ’l chiaro sol dispieghe i rai
ovunque arco si tenda o spada stringa
e quanto l’oceàno intorno cinga”.

Così dicea vantando il fero Ispano,
che lui morto credea che vive ancora.
Boorte in atto di timor lontano
chiama Baven, che presso a lui dimora:
“Or non vi pesi, o caro mio germano,
di trarmi il ferro della spalla fuora,
acciò ch’io possa i fatti o i detti almeno
vendicar di mia man sopra Druscheno”.

Mosse il fido Baven tutto pietoso,
e di tema ripien del colpo rio
tirò lo stral, che intorno sanguinoso
della piaga stillante fuori uscìo.
Boorte, schivo ancor d’ogni riposo,
rivolto al Ciel diceva: “O lume pio
ch’accendi ogni altro, e fida scorta sei
de i migliori, abbagliando i crudi e’ rei;

se ti fu a grado mai l’alta speranza
che ’n te sol ebbi, e non altrove unquanco,
vengami oggi da te forza e baldanza
che la mia spada o ’l cor non rtesti stanco,
fin che Druschen, ch’ogni perfidia avanza,
per questa mano offeso vegna manco,
e ch’io dimostri al mondo che mal vada
chi non segue de’ tuoi la dritta strada”.

Cotal dicea, né pur finite a pena
avea le divotissime parole
che le membra leggier, salda la lena
truova, e più fermo il cor di quel che suole.
Già sente asciutta la percossa vena,
né l’omer l’impedisce, o ’l colpo duole:
sprona lieto il cavallo, e si rimette
ove non cura omai dardi o saette;

ché se pria tra’ nemici ardito e forte
fu più d’alcun, come mostrò l’effetto,
or che gli sembra aver divine scorte
in tre doppi valor gli crebbe in petto,
e con più gran desio dell’altrui morte
entrò trai primi, ov’è lo stuol più stretto,
avendo sempre la crudel ferita
più nel cor che nell’omero scolpita.

In guisa di leon, che levemente
fu ferito al principio dal pastore
che difendea la greggia, e ’nmantenente
s’ascose in parte di periglio fuore,
ch’ei dell’ira novella ha il core ardente,
né ritrovando quel, doppia il furore
sopra l’abbandonata e poverella
che col morso e col piè strazia e flagella;

tal è il chiaro Boorte tra i nemici:
ove uccise con molti il fero Ormeno,
che già fu numerato un de i felici
signor ch’avesse mai Valenza in seno,
ricco d’alti tesori, e più d’amici,
che ’l facevan gratissimo a Druscheno;
or per piaga ch’al petto s’attraversa
lo spirto e ’l sangue doloroso versa.

Percuote appresso Ippenore, ch’adduce
sotto Loto i cavai ch’avea l’Ibero,
e ’l passò tutto dalla destra luce
fin dove ha la memoria il seggio altero:
lo scudier di Roderco, il nobil duce
che sopra il catalan reggeva impero,
Astinoo detto, sopra l’erbe stese
di mortal colpo che nel collo scese.

Uccise il giovin Polide ed Abante,
che interprete di sogni ebbero il padre
dentro a Tortosa, il saggio Eurimedante,
che lor morti predisse acerbe ed adre,
e con sospiri e lagrime tremante
gli pregò di schivar l’armate squadre;
schernirlo allora, ed or morendo (ahi lassi)
vorrian di lui seguir le voglie e i passi.

Truova altri due fratei che vanno insieme,
Xanto e Sinon, di Fenopo figliuoli,
che vecchio e colmo di ricchezze estreme
nella sua lunga età questi ebbe soli.
Or per man di Boorte ogni suo seme
convien che ’l fato su ’l fiorire involi,
e che gli ampi palazzi ch’ei possiede
albergo sien di peregrino erede.

Incontra poi, ch’a lui drizzano il passo,
Assilo e gelio l’uno e l’altro nato
della leggiadra Egeria e di Clodasso,
ma di parto illeggittimo e celato,
allor che ’l fero orgoglio pose in basso
dell’infedele Insúbro e dispietato:
che ’n sorte della preda ebbe costei,
che non vide in quei tempi eguale a lei.

Non altrimenti il lupo al collo afferra
due giovenchi smarriti dall’armento,
che Boorte quei due, che morti in terra
con due colpi gli abbatte in un momento:
quel di punta passò dove si serra
alla corazza l’elmo intorno al mento,
a questo ripiegò più bassa un poco
la gola, ov’è mortal più d’altro il loco.

Poi per l’odio ch’ei porta, e per mostrare
di chi ’l regno gli tien ricco trofeo,
l’arme che ’ntorno ave han pregiate e care
insieme co i cavalli adducer feo
dentro al suo padiglion, trall’altre rare
spoglie che di nemici ivi entro aveo;
indi spinge più innanzi, e in ogni forma
cerca pur di Druschen ritrovar orma.

Or ciò vedendo il cantabro Verralto,
che la fuga de’ suoi quivi sostiene,
Druscheno appella e dice: “Or dov’è l’alto
valor, che ’l pregio sovra ogni altro tiene,
del vostro strale, a cui ’l più forte smalto
qual frale scorza contrastando viene,
e ’n più dritto tenor ch’al chiaro cielo
non saetta i suoi raggi il re di Delo?

A che ’l serbate voi, ch’or no ’l movete
in chi tutto distrugge il popol nostro?
Cui di spegner già mai vi verrà sete
se non vi vien di così orribil mostro?
E quando mai cagion più bella avrete,
com’or, d’alzare al cielo il nome vostro?
Or v’addrizzate a lui, poi che in quest’ora
la salute di molti in voi dimora”.

Druschen tutto turbato gli risponde:
“O de cantabri liti duce altero,
costui Boorte appar, che non l’asconde
il bianco scudo e ’l lucido cimiero
e ’l membruto corsier, che quanto inonde
intorno il mar non ha di lui più fero;
ma l’ho visto poi tal, ch’al parer mio
s’e’ non è Marte istesso, è qualche dio:

ché pur ora al destro omero il percosse,
uscito di mia man, possente strale,
e ben meco pensai che morto fosse,
perché ’l colpo venia più che mortale;
ma non fé l’arme pur di sangue rosse
né mostrò di sentir pur breve male,
ché ’nmantenente con più acerba guerra
il vid’io più che mai por gente a terra.

Perché fatto ho da poi perpetuo voto
di non tirar più stral né tender arco,
che due volte oggi l’ho tentato a vòto,
e d’ogni effetto il ciel gli è stato parco:
in Gaven prima, ch’a non molti è noto
perché ’l colpo avventai d’ascoso varco,
come novellamente ora in Boorte,
con eguale in ciascun maligna sorte.

E ben fu a me nemica e fera stella
sotto cui presi l’arco al dipartire,
quand’io sentì con semplice favella
al vecchio Licaon mio padre dire:
’Monta, caro figliuol, sopra la sella
poi che pur hai di guerra alto desire,
ché ’l cavalier più gloria ha per un cento
di quel che i colpi suoi commette al vento.

Poi sì gran torme di destrieri avemo
di più illustre prosapia ch’oggi viva,
ch’or lungo il Galdamoro, or lungo il Semo
pascono in ozio l’una e l’altra riva,
che d’ogni assalto e di periglio estremo
ti porrian sempre trar sicuro a riva’.
Io non gli déi credenza: or mi ripento,
e d’aver un cavallo avrei talento”.

Verralto allor, perch’a caval si truova
e d’aver tal compagno anco desia,
chiama Alan suo scudier, ch’a tutta pruova
un de’ miglior gli doni ch’ivi avia.
Lo scudo e l’armadura indi ritruova,
che s’adattò ben tosto, e poi s’invia
con molti oltre e Druschen contro a Boorte,
congiurati fra lor nella sua morte.

Ma Beven, che già scorge di lontano
spronar verso il cugin la stretta schiera,
dicea: “Boorte, or si vedrà se ’n vano
v’ha lassata oggi il ciel la forza intera,
o se vi ritornò possente e sano
per coronarvi ancor di palma vera
sopra ogn’altro guerrier che d’arme carco
brami a fin por l’affaticato Avarco”.

Risponde a lui Boorte: “A quel che s’abbia
di me disposto il ciel m’acqueto in pace:
sì sper’io pur con lui l’iniqua rabbia
oggi domar del popolo rapace,
e ’nsanguinar le dispietate labbia
di Druscheno infedel, vano e fallace;
e ’l penso ritrovar ben tosto forse,
se dentro Avarco per timor non corse”.

Così mentre dicea, spronando giunge
il drappell’empio alla sua morte inteso,
e con dodici lance intorno il punge,
l’un doppo l’altro, con orribil peso.
Chi nello scudo, chi nell’elmo aggiunge,
chi l’ha nel petto, chi nel fianco offeso;
ei, qual robusta quercia resta in piede,
ne’ primi colpi che ’l pastor le diede,

che ben crolla le frondi e i rami scuote,
ma il sostegno maggior saldo dimora;
il famoso guerriero a chi ’l percuote
nella guisa medesma parve allora.
Chiamal Druscheno, e ’n minacciose note
gli dice: “Or si vedrà se ’l cielo ancora,
come già vi scampò dal forte strale,
or dalla lancia mia salvar vi vale;

o s’ordinato ha pur ch’oggi Boorte,
che tra ’l più basso stuol sì ardito viene,
debba in man di Druschen giugnere a morte
e dell’Euro arrossir le bianche arene:
sì che ’l suo scudo e l’arme riporte
là dove Licaòn lo scettro tiene,
per appenderlo al tempio a gran memoria
dell’avuta di lui chiara vittoria”.

Quando sente Boorte che Druscheno
era in fra quelli, e contro a lui si vanta,
divien qual serpe che del prato in seno
al caldo tempo de’ suoi fior s’ammanta,
ch’alzando il capo accoglie ogni veleno
poi che fu pressa dall’incauta pianta
del pastor pio che ’n quella parte piega
mentre a i piccioli agnei nuova esca sega,

e con tre lingue sibilando volge
tutta l’ira ver lui che ’l cor gli avvampa,
e ’ntorno al piè nemico si ravvolge
e ’l dispietato dente in esso stampa;
tale il guerrier da gli altri si disvolge
né cura tien di chi ver lui s’accampa,
ma sol cerca Druschen, lui segue solo
e sol contra di lui distende il volo.

L’altro, che teme, di scampar procaccia,
e si nasconde pur fra gente e gente,
qual cervo suol che perseguito in caccia
si mischia e ’nvola ove i compagni sente;
ma Boorte di lui non perde traccia
e dove volga il piè sempre ha la mente,
qual bene appreso can, che la primiera
non vuol già mai lassar per altra fera.

Giungelo al fin, che molti cavalieri
che stretti con Verralto erano insieme
l’han cinto intorno, e d’aspri colpi e feri
ciascuno il Gallo duramente preme:
ed ei, come intra i debili levrieri,
forte cignal che i morsi lor non teme,
trapassò dentro a forza, e Druschen truova
rivolto a lui, poi che ’l fuggir non giova;

e d’offenderlo tenta, ma la mano
trema di tanto duce al grave aspetto,
usa in secura parte e di lontano
ferir, nascosa tra lo stuol negletto.
Ma il feroce guerrier no ’l coglie in vano,
che gli posa la spada in mezzo il petto
e tutto oltra il trapassa, e d’urto poi
gettò il cavallo e lui steso fra’ suoi,

dicendo: “Or vedi ben quanto oggi sia
la lancia che lo stral, di maggior peso,
fallace Ispano, e gloria non ti fia
d’aver Boorte in tradigione offeso”.
Indi verso la schiera il passo invia
ch’ave il fugace arcier sì mal difeso,
minacciando: “Or drizzato il torto altrui
darò, chiari signor, risposta a vui”.

Verralto il primo nel voltarsi occorse,
che co i cantabri suoi vicino il serra:
cui la pesante spada all’elmo porse,
e l’ornato cimier gli manda a terra;
né gli nocque oltra più, perch’ella scorse
torta più in basso, e lo spallaccio afferra,
il qual tutto fiaccato tanto scende
ch’ove ha il braccio confin l’omero offende,

e gli fece di man la spada uscire,
tal gli ha tutto impedito il destro lato.
Sopra la testa ancor torna a ferire,
che di condurlo a fine ha destinato:
ma quegli ha con due man, per ricoprire
il colpo che venia, lo scudo alzato,
in cui l’aureo leon che in ostro assiede
in due parti diviso a terra vede;

e scampato gli ha bene acerba morte
e ’ndugiato il sepolcro in altro lito,
ché ’l colpo micidial fu di tal sorte
che ’n fin sopra l’arcion l’aria partito.
La terza volta ancor l’aspro Boorte
il brando abbassa, e nel medesmo sito
ritornando più volte ha ferma speme
di condurlo in tal guisa all’ore estreme.

Come il saggio cultor che troncar vuole
inutil pianta che le biade addugge,
che nell’istesso loco addrizzar suole
mai sempre il ferro, e tutti gli altri fugge,
per render tosto al chiuso campo il sole
che ’l suo nocente giel riscalda e sugge;
così fece il buon Gallo, il cui pensiero
non fu molto lontano allor dal vero:

perché non giunta sopra l’elmo apena
fu l’ultima percossa, che Verralto
n’andò riverso su la secca arena
come svelto troncon che caggia d’alto.
smarriti ha i sensi, e non può trar la lena,
non però morte ancor l’ultimo assalto
gli ha dato al tutto; ma Boorte il lassa
come s’ei fusse estinto, ed oltra passa.

Poi che veggion Verralto quei d’Avarco,
un de i duci maggior, condotto a tale,
con la schiera di quei che suol con l’arco
contro a i ferri nemici esser fatale:
Druscheno ancor, ch’assicurava il varco
a tutti lor col suo famoso strale
esser disteso sanguinoso a terra,
ciascun pien di timor lassa la guerra;

e rifugge volando ove le mura
ha per sua sola speme e per difesa.
Nessun più dell’onor né d’altro cura
che di scampar dalla presente offesa,
e con sì freddo ghiaccio ha la paura
di ciascun l’alma strettamente impresa,
che l’un l’altro in cammin preme e conquide
e per morte fuggir l’un l’altro ancide.

Non val di capitan prego o conforto
né altero minacciar né forza usare,
ch’ivi non si discerne il dritto o ’l torto
né ’l maggior o ’l minor, ch’ogni uomo è pare;
quel che truova cammin più ascoso e corto
e può gli altri fuggendo oltra varcare
è tenuto da lor la scorta e ’l duce
ch’al desïato fin gli riconduce.

Sì come adivenir tal volta suole
al combattuto legno presso al lito,
che si veggia affoscar di sopra il sole
e ’l mar col cielo a gran tempesta unito,
ché ’l nocchiero avveduto in alto vuole
rivoltarse a cammin largo e spedito
per gli scogli schifar, ma il vento sforza
e ’l fa rompere a terra a viva forza;

in tal guisa il miglior venia portato
dal furor popolare al proprio danno:
e Boorte col ferro insanguinato
va doppiando al primier novello affanno,
e nel mezzo di lor ferendo entrato
ove più per timor congiunti vanno
tanti ha sospinti alle Tartaree strade
che del suo crudo oprar quasi ha pietade.

Ma l’accorto Brunoro, ch’al fin vede
d’assicurar più i suoi chiusa ogni via,
e ’l soccorso cercar da Palamede,
con Tristano occupato, in van saria,
e distrutto sarà, se non provvede,
inverso Seguran tosto s’invia,
e ritruoval che ’n man la briglia tiene
per muover poscia ove il bisogno viene;

e che presso di lui Clodino avea
ch’è fuor d’impedimento e di periglio
della spalla impiagata, e già tenea
di tornare alla guerra ivi consiglio.
Brunoro irato allora alto dicea:
“Or che attendete, o generoso figlio
del famoso e magnanimo Clodasso,
che tutto il popol suo sia vinto e lasso?

E che ’ntorno alle porte omai d’Avarco
o che dentro di lor pur sia la guerra?
Or non sapete voi che d’alma scarco
con Verralto Druschen si giace a terra?
E che Boorte di vittorie carco
qual le gregge il leone i nostri atterra?
Posti ha in fuga i cavalli e i levi arcieri
e i pedestri più gravi miei guerrieri.

Non offendon costor le mie contrade,
né cercan posseder quel che contiene
Emso e Visera, ove l’algenti strade
il germanico mar bagnate tiene:
contra il vostro terren cingon le spade,
per vendicar le ricevute pene
de i vecchi padri lor, ch’ebber da voi,
e i regni racquistar che fur de’ suoi.

E voi gloria d’Ibernia, o Segurano,
che restate a veder co i vostri intorno?
In fin ch’ogni soccorso venga in vano
poi che fiaccato l’uno e l’altro corno
avrà de’ nostri il popol gallicano
e ’l britannico stuol con tanto scorno?
Ove dorme il valor del sangue Bruno
che fu sempre onorato da ciascuno?

Non vi sovvien che la reale sposa
nell’assediate mura oggi si giace,
e nella vostra man sola riposa
le presenti arme e la futura pace?
La mia dimora in altra parte ascosa
né teme di costor l’unghia rapace;
e pur con tutto ciò veder potete
quanto adopro per voi, che ’n posa sete.

Né per voi mancherò, signor, già mai
fin ch’io sostenga in man lo scudo e ’l brando.
Ma gli afflitti guerrier non ponno omai
contrastare al furor che va montando,
ch’è giunto a tal che maggior forza assai
conviensi opporgli, o di speranza in bando
porre i chiari disegni e gli alti onori,
le desïate palme e i sacri allori.

Or non soffrite più ch’un ferro solo
tutti i vostri miglior conduca a morte,
e che si possa dir ch’un tanto stuolo
fugga davanti al giovine Boorte:
e vi movete omai, signore, a volo
con le vostre onorate e chiare scorte.
Faccia il vostro valor nel mondo segno
che di regia beltà non foste indegno”.

Punse l’aspro parlar l’invitto core
d’ambe i due cavalier ch’erano insieme;
ma tinto il volto in giovinil rossore,
che ’l nome di viltà più d’altro teme,
dicea Clodino: “Il debito e l’onore
che intègri confermare ho ferma speme
m’han qui tenuto, e ’l sacro giuramento
che di rompere al ciel troppo pavento:

perché fuor di ragion sendo impiagato
Gaven, contro a cui sol la guerra avea,
di far torto alla fede avrei pensato
se innanzi a questo tempo arme cingea.
Or ch’io veggio gli amici in tale stato,
e condotti da quelli a sorte rea,
fo voto al Ciel che non per fare offesa,
ma per difender noi, torno all’impresa”.

Così parlando, a Seguran rivolto
segue: “Onorato mio cognato e caro,
io vi prego oggi che tra ’l popol molto
che ’ntorno avete sì gradito e chiaro
d’alcun buon cavalier più ardito e sciolto
non vi mostriate in tal bisogno avaro
a chi tanto v’onora, acciò ch’io vada
a i miei ripor nella smarrita strada;

e ’n questo mezzo voi con greve passo
verrete a sostenerne e darne aita,
e ’l nemico ridur sì frale e basso
che la via di vittoria sia spedita”.
Il prode Seguran risponde: “Lasso
mai non sarò, fin della propria vita,
di far quanto v’aggrada, e in voler vostro
sia d’avere i miglior del corno nostro”.

E con Brunoro poi dolce ragiona:
“Vi ringrazio, signor, de i gran ricordi,
che scendendo di mente amica e buona
non troverranno in me gli orecchi sordi:
che quei ch’ad un sol fia virtude sprona
deven gli animi sempre aver concordi,
e soffrir pianamente le rampogne
di chi ’l suo ben, com’ei medesmo s’agogne.

Or, per darvi ragione del mio consiglio,
dico che stato son sempre in disparte
con disegno di gir dove il periglio
si scorgesse maggior che in altra parte,
col piè pronto e la mano a far vermiglio
ove più mi chiamasser Palla e Marte;
ché l’ultimo soccorso è quel che spesso
l’incauto vincitore ha in fuga messo.

Io scorgea da man destra Palamede
da Tristan risospinto alcuna volta,
che lassar convenia la prima sede
e ’nsieme rannodar la schiera sciolta,
che mi fea dubbio star: ma chi non vede
se non la parte sua che ’n guardia ha tolta,
non può ben giudicar come colui
che scerne il suo bisogno e quel d’altrui.

Or non vi spiaccia dunque avermi udito
e pensar poi di me qual sempre feste;
e con questo drappel forte e spedito
con Clodin gite ove le genti ha preste.
Io vengo appresso, e nel medesmo lito
ove le schiere avverse avem moleste
sarò ben tosto, e spero allor che ’n voi
fia maggior lo sperar ch’or qui di noi”.

Con più queto parlar Brunoro allora
risponde: “E chi fia mai che ’n tal fortuna
non sia vinto dall’ira, ond’esca fuora
de’ suoi primi pensier che in core aduna?
Tutto il mondo sa ben se innanzi ch’ora
io conosco il valor dell’arme Bruna,
e se già mille volte al paragone
ho posto Seguran col suo Girone”.

Così risposto, col real Clodino
tra molti cavalier ratto s’invia,
ove Boorte al fiume assai vicino
empiea di sangue l’arenosa via:
e ch’ha incontrato il misero Erogino,
che ’n sul vago corsiero ivi apparia
col ricco scudo e l’arme tutte aurate
che dalla donna sua gli furon date;

ch’una figlia sposò di Morassalto,
re della Cartagenia e d’Alicante,
Androfila appellata, di core alto
e di pensier magnanimo e costante:
e che ’l marito di porfireo smalto
tenea fisso nell’alma o d’adamante;
la qual, giunto al partir l’ultimo sole,
glie le donò piangendo, in tai parole:

“S’io potessi piegar gli uomini, e i dei,
e ’l destin delle donne troppo avaro,
beatissima al mondo mi terrei
sopra ogni lume in ciel più altero e chiaro,
né di grazia maggior gli pregherei
che di voi seguitar, signor mio caro,
sì come ho sempre in pace, ancora in guerra,
e non vi abbandonar viva e sotterra.

E se ciò m’avvenisse, uopo non fora
di procacciar per voi più sicur’arme:
ch’io ’l vostro scudo e la lorica allora
contr’ogni offesa altrui penserei farme,
sperando o che Giunone, o s’altra onora
casto amor marital, devesse aitarme
e con voi mantener, per sommo essempio
di chi più aggrade al suo famoso tempio.

Ma poi ch’esser non può, vi piaccia almeno
di queste arme portar ch’hanno il mio nome,
e da i perigli riguardar non meno
che si soglian le dolci amate some;
e qualor crollerete all’aure in seno
sopra il cimier queste dorate chiome
che riconverser già, lasse, la testa
ch’or di loro e di voi vedova resta;

vi risovvegna, oimé, con quanta doglia,
lunge han da lor la misera nutrice,
temendo sol di non sentirle spoglia
della nemica schiera vincitrice.
Ma segua pur di lor quanto ’l ciel voglia,
pur che torniate voi lieto e felice
da potermi narrare a parte a parte
i gran pregi e gli onor del nostro Marte”.

Così dicea la pallida consorte,
di doloroso umor bagnando il volto.
Ma il vago giovinetto in dura sorte
dal prezïoso don fu intorno avvolto,
poi ch’or contro alla spada di Boorte
e dal fero destin soletto accolto,
e gli fa in ver di lui muovere assalto
per pietà di Druscheno e di Verralto;

e con tutto il poter sovr’esso sprona
con la lancia ch’avea pesante e dura,
e ’n mezzo al doppio scudo il ferro dona
sì che i suoi più vicin n’ebber paura.
Ma il franco cavalier con la persona
non si vede crollare, e tanto il cura
quanto il robusto pin di Borea il fiato,
che già il decimo lustro avea contato.

Poi ch’ha l’asta troncata, il lassò in prima
senza impedirlo pur prender la spada;
indi il fere altamente su la cima,
ov’è ’l dono amoroso che gli aggrada:
e la chioma di lei, che troppo stima,
intricata convien ch’a terra vada,
ma la fronte non fu dal colpo offesa,
che dall’ottima tempra era difesa.

Poi che s’è accorto l’amoroso Ispano
del prezïoso e caro suo cimiero,
e che in mezzo alla polve era lontano
l’almo splendor del suo terreno Ibero;
qual tigre acerba lungo il lito Ircano
priva de’ figli suoi, divenne fero:
spronò verso Boorte il suo cavallo
gridando in alto suono: “O crudo Gallo,

già non ti vanterai d’offeso avere
il più onorato crin che fosse mai,
che la luce vincea dell’altre spere
e dello istesso sol gli ardenti rai:
il quale alla sua donna mantenere
e ’ntero riportar certo giurai;
e ’l farò veramente o ch’oggi il cielo
sciorrà il mio spirto dal terrestre velo”.

E dicendo così, fere alla testa
pendente alquanto dal sinistro lato,
ch’orribil suon dentro all’orecchie desta
del pio Boorte, ma non l’ha impiagato:
poi di nuovo il percuote, e non s’arresta
in fin che ’l terzo colpo è raddoppiato,
su ’l braccio questo, e quel sopra la spalla;
pur di fargli assai danno in tutto falla.

Ma l’invitto guerrier, da poi che vede
chi fuor del creder suo troppo l’offende,
qual sopra lepre timida che siede
nell’erboso suo nido aquila scende,
a lui s’avventa, e dispietato il fiede
col ferro micidial, che sotto il prende
ove il ventre allo stomaco s’aggiunge,
e quando ivi trovò trapassa e punge.

L’infelici armi allor del regio sangue
fur di fuori oscurate e dentro piene,
e ’l giovin miserel pallido esangue
sopra il forte corsier non si sostiene:
e mentre così ancor morendo langue
della sposa fedel si risovviene,
e col vigor che in quello stato puote
si rivolge a Boorte in queste note:

“Alto signor, che così amico il cielo
al gran vostro valore e largo aveste;
se mai vi svegliò al cor pietoso zelo
pregar divoto di persone meste,
o se mai vi scaldar sotto un bel velo
d’onorata consorte fiamme oneste,
consolate, al posar di questa salma,
d’una promessa almen la misera alma:

e questa fia, di far di terra accòrre
le bionde chiome ch’io nel mondo adoro,
e meco insieme in chiuso albergo porre
coperto, com’io son, dell’arme d’oro;
e ’l tutto appresso nelle mani esporre
di Morassalto, al corno di Brunoro,
che mi deggia mandare alla mia dea
sì come al dipartir promesso avea”.

Il pio Boorte, che in più amaro pianto
che l’altro non diceva, intento ascolta,
risponde: “Or potess’io con nuovo incanto
render così la vita ch’io v’ho tolta
e felice tornarvi e lieto, quanto
già mai d’esser bramaste alcuna volta;
sì come adempierò vostro desio,
e di ciò testimon n’appello Dio”.

Ringraziò ’l con la vista e col sembiante,
che la parola scior più non poteo:
così condusse il già felice amante
in estrema sventura il destin reo.
La bionda chioma, ch’a’ suoi piedi innante
negletta si giacea, riprender feo
Boorte, poi condur col cavaliero
dentro al suo padiglione, e ’l suo destriero.