Atto terzo

../Atto secondo IncludiIntestazione 7 settembre 2022 100% Libretti d'opera

Atto secondo
[p. 142 modifica]

ATTO TERZO

SCENA I

Parte interna della fortezza, nella quale è ritenuto prigione Arbace. Cancelli in prospetto. Picciola porta a mano destra, per la quale si ascende alla reggia.

Arbace, poi Artaserse.

               Arbace. Perché tarda è mai la morte,
          quando è termine al martír?
          A chi vive in lieta sorte
          è sollecito il morir.
Artaserse. Arbace!
Arbace.  Oh dèi, che miro! In questo albergo
di mestizia e d’orror chi mai ti guida?
Artaserse. La pietá, l’amicizia.
Arbace.  A funestarti
perché vieni, o signor?
Artaserse.  Vengo a salvarti.
Arbace. A salvarmi?
Artaserse.  Non piú. Per questa via,
che in solitaria parte
termina della reggia, i passi affretta:
fuggi cauto da questo
in altro regno, e quivi
ramméntati Artaserse, amalo e vivi.
Arbace. Mio re, se reo mi credi,
perché vieni a salvarmi? E, se innocente,
perché debbo fuggir?

[p. 143 modifica]

Artaserse.  Se reo tu sei,
io ti rendo una vita
che a me donasti; e, se innocente, io t’offro
quello scampo che solo
puoi tacendo ottener. Fuggi; risparmia
d’un amico all’affetto
d’ucciderti il dolor; placa i tumulti
di quest’alma agitata. O sia che cieco
l’amicizia mi renda, o sia che un nume
protegga l’innocenza, io non ho pace
se tu salvo non sei. Parmi nel seno
una voce ascoltar, che ognor mi dica,
qualor bilancio e la tua colpa e ’l merto,
che il fallo è dubbio, il benefizio è certo.
Arbace. Signor, lascia ch’io mora. In faccia al mondo
colpevole apparisco, ed a punirmi
t’obbliga l’onor tuo. Morrò felice,
se all’amico conservo e al mio signore
una volta la vita, una l’onore.
Artaserse. Sensi non anco intesi
su le labbra d’un reo! Diletto Arbace,
non perdiamo i momenti. All’onor mio
basterá che si sparga
che un segreto castigo
giá ti puní; che funestar non volli
di questo dí la pompa, in cui mirarmi
l’Asia dovrá la prima volta in trono.
Arbace. Ma potrebbe il tuo dono
un giorno esser palese; e allora...
Artaserse.  Ah! parti,
amico, io te ne priego, e, se pregando
nulla ottener poss’io, re tel comando.
Arbace. Ubbidisco al mio re. Possa una volta
esserti grato Arbace. Ascolti intanto
il cielo i voti miei:
regni Artaserse, e gli anni

[p. 144 modifica]

del suo regno felice
distinguano i trionfi; allori e palme
tutto il mondo vassallo a lui raccolga;
lentamente ravvolga
i suoi giorni la Parca; e resti a lui
quella pace ch’io perdo,
che non spero trovar fino a quel giorno
che alla patria e all’amico io non ritorno.
               L’onda dal mar divisa
          bagna la valle e ’l monte;
          va passeggiera in fiume,
          va prigioniera in fonte;
          mormora sempre e geme,
          fin che non torna al mar:
               al mar, dov’ella nacque,
          dove acquistò gli umori,
          dove da’ lunghi errori
          spera di riposar. (parte)

SCENA II

Artaserse.

Quella fronte sicura e quel sembiante
non l’accusano reo. L’esterna spoglia
tutta d’un’alma grande
la luce non ricopre,
e in gran parte dal volto il cor si scopre.
               Nuvoletta opposta al sole
          spesso il giorno adombra e vela,
          ma non cela il suo splendor.
               Copre invan le basse arene
          picciol rio col velo ondoso,
          ché rivela il fondo algoso
          la chiarezza dell’umor. (parte)

[p. 145 modifica]

SCENA III

Artabano con séguito di congiurati, poi Megabise, tutti da’ cancelli, a guardia de’ quali restano i congiurati.

Artabano. Figlio, Arbace, ove sei? Dovrebbe pure
ascoltar le mie voci. Arbace? Oh stelle!
Dove mai si celò? Compagni, intanto
ch’io ritrovo il mio figlio,
custodite l’ingresso. (entra fra le scene a mano destra)
Megabise.  E ancor si tarda? (ai congiurati)
Ormai tempo saria... Ma qui non vedo
né Artabano né Arbace.
Che si fa? che si pensa? In tanta impresa
che lentezza è mai questa?
Artabano! Signore! (entrando fra le scene a mano sinistra)
Artabano.  Oh me perduto!
(uscendo dall’istesso lato pel quale entrò, ma da strada diversa)
Non trovo il figlio mio. Gelar mi sento.
Temo... Dubito... Ascoso...
Forse in quest’altra parte io non invano...
Megabise!
(incontrandosi in Megabise, che esce dall’istesso lato pel quale entrò, ma da strada diversa)
Megabise.  Artabano!
Artabano. Trovasti Arbace?
Megabise.  E non è teco?
Artabano.  Oh dèi!
Crescono i dubbi miei.
Megabise.  Spiégati, parla:
che fu d’Arbace?
Artabano.  E chi può dirlo? Ondeggio
fra mille affanni e mille

[p. 146 modifica]

orribili sospetti. Il mio timore
quante funeste idee forma e descrive!
Chi sa che fu di lui! Chi sa se vive!
Megabise. Troppo presto all’estremo
precipiti i sospetti. E non potrebbe
Artaserse, Mandane, amico, amante,
aver del prigioniero
procurata la fuga? Ecco la via
che alla reggia conduce.
Artabano.  E per qual fine
la sua fuga celarmi? Ah! Megabise,
no, piú non vive Arbace;
e ognun pietoso al genitor lo tace.
Megabise. Cessin gli dèi l’augurio. Ah! ricomponi
i tumulti del cor. Sia la tua mente
men torbida e piú pronta,
ché l’impresa il richiede.
Artabano.  E quale impresa
vuoi ch’io pensi a compir, perduto il figlio?
Megabise. Signor, che dici? Avrem sedotti invano,
tu i reali custodi, ed io le schiere?
Risolviti: a momenti
va del regno le leggi
Artaserse a giurar. La sacra tazza
giá per tuo cenno avvelenai. Vogliamo
perder cosí vilmente
tanto sudor, cure sí grandi?
Artabano.  Amico,
se Arbace io non ritrovo,
per chi deggio affannarmi? Era il mio figlio
la tenerezza mia. Per dargli un regno
divenni traditor. Per lui mi resi
orribile a me stesso; e, lui perduto,
tutto dispero e tutto
veggio de’ falli miei rapirmi il frutto.
Megabise. Arbace, estinto o vivo,

[p. 147 modifica]

dalla tua mano aspetta
il regno o la vendetta.
Artabano.  Ah! questa sola
in vita mi trattien. Sí, Megabise:
guidami dove vuoi; di te mi fido.
Megabise. Fidati pur, ché a trionfar ti guido.
               Ardito ti renda,
          t’accenda — di sdegno
          d’un figlio — il periglio,
          d’un regno — l’amor.
               È dolce ad un’alma,
          che aspetta — vendetta,
          il perder la calma
          fra l’ire del cor. (parte)

SCENA IV

Artabano.

Trovaste, avversi dèi,
l’unica via d’indebolirmi. Al solo
dubbio che piú non viva il figlio amato,
timido, disperato,
vincer non posso il turbamento interno,
che a me stesso di me toglie il governo.
               Figlio, se piú non vivi,
          morrò; ma del mio fato
          farò che un re svenato
          preceda messaggier.
               Infin che il padre arrivi,
          fa’ che sospenda il remo,
          colá sul guado estremo,
          il pallido nocchier. (parte)

[p. 148 modifica]

SCENA V

Gabinetto negli appartamenti di Mandane.

Mandane, poi Semira.

Mandane. O che all’uso de’ mali
istupidisca il senso, o ch’abbian l’alme
qualche parte di luce
che presaghe le renda, io per Arbace
quanto dovrei non so dolermi. Ancora
l’infelice vivrá. Se fosse estinto,
giá pur troppo il saprei. Porta i disastri
sollecita la Fama.
Semira.  Alfin potrai
consolarti, Mandane. Il ciel t’arrise.
Mandane. Forse il re sciolse Arbace?
Semira.  Anzi l’uccise.
Mandane. Come!
Semira.  È noto a ciascun, benché in segreto
ei terminò la sua dolente sorte.
Mandane. (Oh presagi fallaci! oh giorno! oh morte!)
Semira. Eccoti vendicata, ecco adempito
il tuo genio crudel. Ti basta, o vuoi
altre vittime ancor? Parla.
Mandane.  Ah, Semira!
Soglion le cure lievi esser loquaci,
ma stupide le grandi.
Semira.  Alma non vidi
della tua piú inumana. Al caso atroce
non v’è ciglio che sappia
serbarsi asciutto; e tu non piangi intanto?
Mandane. Picciolo è il duol, quando permette il pianto.
Semira. Va’; se paga non sei, pasci i tuoi sguardi
sulla trafitta spoglia

[p. 149 modifica]

del mio caro germano; osserva il seno,
numera le ferite, e lieta in faccia...
Mandane. Taci, parti da me.
Semira.  Ch’io parta e taccia?
Fin che vita ti resta,
sempre intorno m’avrai; sempre importuna
rendere i giorni tuoi voglio infelici.
Mandane. E quando io meritai tanti nemici?
               Mi credi spietata?
          Mi chiami crudele?
          Non tanto furore,
          non tante querele,
          ché basta il dolore
          per farmi morir.
               Quell’odio, quell’ira
          d’un’alma sdegnata,
          ingrata Semira,
          non posso soffrir. (parte)

SCENA VI

Semira.

Forsennata! che feci? Io mi credei,
con divider l’affanno,
a me scemarlo, e pur l’accrebbi. Allora
che, insultando Mandane,
qualche ristoro a questo cor desio,
il suo trafiggo e non risano il mio.
               Non è ver che sia contento
          il veder nel suo tormento
          piú d’un ciglio lagrimar:
               ché l’esempio del dolore
          è uno stimolo maggiore,
          che richiama a sospirar. (parte)

[p. 150 modifica]

SCENA VII

Arbace e poi Mandane.

Arbace. Né pur qui la ritrovo. Almen vorrei
dell’amata Mandane
calmar gli sdegni e l’ire,
rivederla una volta e poi partire.
In piú segreta parte
forse potrò... Ma dove
temerario m’inoltro? Eccola, oh dèi!
Ardir non ho di presentarmi a lei.
 (si ritira in disparte, inosservato)
Mandane. Olá! non si permetta in queste stanze
a veruno l’ingresso.
(ad un paggio, il quale, ricevuto l’ordine, rientra per la scena donde è uscito Arbace)
 Eccovi alfine,
miei disperati affetti,
eccovi in libertá. Del caro amante
versai, barbara, il sangue. Il sangue mio
è tempo di versar. (impugna uno stilo, in atto d’uccidersi)
Arbace.  Férmati.
Mandane. (vedendo Arbace, le cade lo stilo) Oh Dio!
Arbace. Quale ingiusto furor...
Mandane.  Tu in questo luogo!
Tu libero! Tu vivo!
Arbace.  Amica destra
i miei lacci disciolse.
Mandane.  Ah, fuggi! ah, parti!
Misera me! che si dirá, se alcuno
qui ti ritrova? Ingrato!
lasciami la mia gloria.
Arbace.  E chi poteva,
mio ben, senza vederti,
la patria abbandonar?

[p. 151 modifica]

Mandane.  Da me che vuoi,
perfido traditor?
Arbace.  No, principessa,
non dir cosí. So c’hai piú bello il core
di quel che vuoi mostrarmi; è a me palese:
tu parlasti, o Mandane, e Arbace intese.
Mandane. O mentisci, o t’inganni, o questo labbro
senza il voto dell’alma
per uso favellò.
Arbace.  Ma pur son io
ancor la fiamma tua.
Mandane.  Sei l’odio mio.
Arbace. Dunque, crudel, t’appaga:
ecco il ferro, ecco il sen; prendi e mi svena.
 (presentandole la spada nuda)
Mandane. Saria la morte tua premio e non pena.
Arbace. È ver, perdona, errai;
ma questa mano emenderá... (in atto d’uccidersi)
Mandane.  Che fai?
Credi forse che basti
il sangue tuo per appagarmi? Io voglio
che pubblica, che infame
sia la tua morte, e che non abbia un segno,
un’ombra di valor.
Arbace.  Barbara, ingrata!
morrò come a te piace: (getta la spada)
torno al carcere mio. (in atto di partire)
Mandane.  Sentimi, Arbace.
Arbace. Che vuoi dirmi?
Mandane.  Ah! nol so.
Arbace.  Sarebbe mai,
quello che ti trattiene,
qualche resto d’amor?
Mandane.  Crudel, che brami?
Vuoi vedermi arrossir? Sálvati, fuggi,
non affliggermi piú.

[p. 152 modifica]

Arbace.  Tu m’ami ancora,
se a questo segno a compatirmi arrivi.
Mandane. No, non crederlo amor; ma fuggi e vivi.
               Arbace. Tu vuoi ch’io viva, o cara;
          ma, se mi nieghi amore,
          cara, mi fai morir.
               Mandane. Oh Dio, che pena amara!
          Ti basti il mio rossore:
          piú non ti posso dir.
               Arbace. Sentimi.
               Mandane.  No.
               Arbace.  Tu sei...
          Mandane. Parti dagli occhi miei;
          lasciami per pietá!
               A due. Quando finisce, o dèi,
          la vostra crudeltá?
               Se in cosí gran dolore
          d’affanno non si muore,
          qual pena ucciderá? (partono)

SCENA VIII

Luogo magnifico destinato per la coronazione di Artaserse. Trono da un lato con sopra scettro e corona. Ara nel mezzo accesa, con simulacro del Sole.

Artaserse ed Artabano
con numeroso séguito e popolo.

Artaserse. A voi, popoli, io m’offro
non men padre che re. Siatemi voi
piú figli che vassalli. Il vostro sangue,
la gloria vostra, e quanto
è di guerra o di pace acquisto o dono
vi serberò: voi mi serbate il trono;
e faccia il nostro core

[p. 153 modifica]

questo di fedeltá cambio e d’amore.
Sará del regno mio
soave il freno. Esecutor geloso
delle leggi io sarò. Perché sicuro
ne sia ciascun, solennemente il giuro.
 (una comparsa reca una sottocoppa con tazza)
Artabano. Ecco la sacra tazza. Il giuramento
abbia nodo piú forte: (porge la tazza ad Artaserse)
compisci il rito. (E beverai la morte.)
Artaserse. «Lucido dio, per cui l’april fiorisce,
per cui tutto nel mondo e nasce e muore,
volgiti a me. Se il labbro mio mentisce,
piombi sopra il mio capo il tuo furore;
languisca il viver mio, come languisce
questa fiamma al cader del sacro umore;
 (versa sul fuoco parte del liquore)
e si cangi, or che bevo, entro il mio seno
la bevanda vital tutta in veleno». (in atto di bere)

SCENA IX

Semira e detti.

Semira. Al riparo, signor! Cinta la reggia
da un popolo infedel, tutta risuona
di grida sediziose, e la tua morte
si procura e si chiede.
Artaserse. Numi! (posa la tazza sull’ara)
Artabano.  Qual alma rea mancò di fede?
Artaserse. Ah! che tardi il conosco:
Arbace è il traditore.
Semira.  Arbace estinto?
Artaserse. Vive, vive l’ingrato. Io lo disciolsi,
empio con Serse, e meritai la pena
che ’l cielo or mi destina:
io stesso fabbricai la mia ruina.

[p. 154 modifica]

Artabano. Di che temi, o mio re? Per tua difesa
basta solo Artabano.
Artaserse. Sí, corriamo a punir... (in atto di partire)

SCENA X

Mandane e detti.

Mandane.  Ferma, o germano!
Gran novelle io ti reco:
il tumulto svaní.
Artaserse.  Fia vero! E come?
Mandane. Giá la turba ribelle,
seguendo Megabise, era trascorsa
fino all’atrio maggior, quando, chiamato
dallo strepito insano, accorse Arbace.
Che non fe’, che non disse in tua difesa
quell’anima fedel? Mostrò l’orrore
dell’infame attentato; espresse i pregi
di chi serba la fede; i merti tuoi,
le tue glorie narrò. Molti riprese,
molti pregò, cangiando aspetto e voce,
or placido, or severo ed or feroce.
Ciascun depose l’armi, e sol restava
l’indegno Megabise;
ma l’assalí, ti vendicò, l’uccise.
Artabano. (Incauto figlio!)
Artaserse.  Un nume
m’inspirò di salvarlo. È Megabise
d’ogni delitto autor.
Artabano.  (Felice inganno!)
Artaserse. Il mio diletto Arbace
dov’è? Si trovi e si conduca a noi.

[p. 155 modifica]

SCENA ULTIMA

Arbace e detti.

Artabano. Ecco Arbace, o monarca, a’ piedi tuoi.
Artaserse. Vieni, vieni al mio sen. Perdona, amico,
s’io dubitai di te. Troppo è palese
la tua bella innocenza. Ah! fa’ ch’io possa
con franchezza premiarti. Ogni sospetto
nel popolo dilegua, e rendi a noi
qualche ragion del sanguinoso acciaro,
che in tua man si trovò, della tua fuga,
del tuo tacer, di quanto
ti fece reo.
Arbace.  S’io meritai, signore,
qualche premio da te, lascia ch’io taccia.
Il mio labbro non mente.
Credi a chi ti salvò: sono innocente.
Artaserse. Giuralo almeno, e l’atto
terribile e solenne
faccia fede del vero. Ecco la tazza
al rito necessaria. Or, seguitando
della Persia il costume,
vindice chiama e testimonio un nume.
Arbace. Son pronto. (prende in inano la tazza)
Mandane.  (Ecco il mio ben fuor di periglio.)
Artabano. (Che fo? Se giura, avvelenato è il figlio.)
Arbace. «Lucido dio, per cui l’april fiorisce,
per cui tutto nel mondo e nasce e muore»...
Artabano. (Misero me!)
Arbace.  ... «se il labbro mio mentisce,
si cangi entro il mio seno
la bevanda vital»... (in atto di voler bere)
Artabano.  Ferma! è veleno.

[p. 156 modifica]

Artaserse. Che sento!
Arbace.  Oh dèi!
Artaserse.  Perché sinor tacerlo?
Artabano. Perché a te l’apprestai.
Artaserse.  Ma qual furore
contro di me?
Artabano.  Dissimular non giova:
giá mi tradí l’amor di padre. Io fui
di Serse l’uccisore. Il regio sangue
tutto versar volevo. È mia la colpa,
non è d’Arbace. Il sanguinoso acciaro
per celarlo io gli diedi. Il suo pallore
era orror del mio fallo. Il suo silenzio
pietá di figlio. Ah! se minore in lui
la virtú fosse stata o in me l’amore,
compivo il mio disegno;
e involata t’avrei la vita e ’l regno.
Arbace. (Che dice!)
Artaserse.  Anima rea! m’uccidi il padre;
della morte di Dario
colpevole mi rendi: a quanti eccessi
t’indusse mai la scellerata speme!
Empio! morrai.
Artabano.  Noi moriremo insieme.
 (snuda la spada, e seco Artaserse in atto di difesa)
Arbace. (Stelle!)
Artabano.  Amici, non resta
che un disperato ardir. Mora il tiranno!
 (le guardie sedotte si pongono in atto di assalire)
Arbace. Padre, che fai?
Artabano.  Voglio morir da forte.
Arbace. Deponi il ferro o beverò la morte. (in atto di bere)
Artabano. Folle! che dici?
Arbace.  Se Artaserse uccidi,
no, piú viver non devo.
Artabano. Eh! lasciami compir... (in atto di assalire)

[p. 157 modifica]

Arbace.  Guardami, io bevo. (in atto di bere)
Artabano. Férmati, figlio ingrato!
Confuso, disperato,
vuoi che per troppo amarti un padre cada?
Vincesti, ingrato figlio: ecco la spada.
(getta la spada, e le guardie sollevate si ritirano fuggendo)
Mandane. Oh fede!
Semira.  Oh tradimento!
Artaserse.  Olá! seguite
i fugaci ribelli, ed Artabano
a morir si conduca.
Arbace.  Oh Dio! fermate.
Signor, pietá.
Artaserse.  Non la sperar per lui:
troppo enorme è il delitto. Io non confondo
il reo coll’innocente. A te Mandane
sará sposa, se vuoi; sará Semira
a parte del mio trono:
ma per quel traditor non v’è perdono.
Arbace. Toglimi ancor la vita. Io non la voglio,
se per esserti fido,
se per salvarti, il genitore uccido.
Artaserse. Oh virtú che innamora!
Arbace.  Ah! non domando
da te clemenza: usa rigor; ma cambia
la sua nella mia morte. Al regio piede, (s’inginocchia)
chi ti salvò, ti chiede
di morir per un padre. In questa guisa
s’appaghi il tuo desio:
è sangue d’Artabano il sangue mio.
Artaserse. Sorgi, non piú. Rasciuga
quel generoso pianto, anima bella.
Chi resister ti può? Viva Artabano.
ma viva almeno in doloroso esiglio;
e doni il tuo sovrano
l’error d’un padre alla virtú d’un figlio.

[p. 158 modifica]

               Coro. Giusto re, la Persia adora
          la clemenza assisa in trono,
          quando premia, col perdono,
          d’un eroe la fedeltá.
               La giustizia è bella allora,
          che compagna ha la pietá.