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atto terzo 151


Mandane.  Da me che vuoi,
perfido traditor?
Arbace.  No, principessa,
non dir cosí. So c’hai piú bello il core
di quel che vuoi mostrarmi; è a me palese:
tu parlasti, o Mandane, e Arbace intese.
Mandane. O mentisci, o t’inganni, o questo labbro
senza il voto dell’alma
per uso favellò.
Arbace.  Ma pur son io
ancor la fiamma tua.
Mandane.  Sei l’odio mio.
Arbace. Dunque, crudel, t’appaga:
ecco il ferro, ecco il sen; prendi e mi svena.
 (presentandole la spada nuda)
Mandane. Saria la morte tua premio e non pena.
Arbace. È ver, perdona, errai;
ma questa mano emenderá... (in atto d’uccidersi)
Mandane.  Che fai?
Credi forse che basti
il sangue tuo per appagarmi? Io voglio
che pubblica, che infame
sia la tua morte, e che non abbia un segno,
un’ombra di valor.
Arbace.  Barbara, ingrata!
morrò come a te piace: (getta la spada)
torno al carcere mio. (in atto di partire)
Mandane.  Sentimi, Arbace.
Arbace. Che vuoi dirmi?
Mandane.  Ah! nol so.
Arbace.  Sarebbe mai,
quello che ti trattiene,
qualche resto d’amor?
Mandane.  Crudel, che brami?
Vuoi vedermi arrossir? Sálvati, fuggi,
non affliggermi piú.