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148 vii - artaserse

SCENA V

Gabinetto negli appartamenti di Mandane.

Mandane, poi Semira.

Mandane. O che all’uso de’ mali
istupidisca il senso, o ch’abbian l’alme
qualche parte di luce
che presaghe le renda, io per Arbace
quanto dovrei non so dolermi. Ancora
l’infelice vivrá. Se fosse estinto,
giá pur troppo il saprei. Porta i disastri
sollecita la Fama.
Semira.  Alfin potrai
consolarti, Mandane. Il ciel t’arrise.
Mandane. Forse il re sciolse Arbace?
Semira.  Anzi l’uccise.
Mandane. Come!
Semira.  È noto a ciascun, benché in segreto
ei terminò la sua dolente sorte.
Mandane. (Oh presagi fallaci! oh giorno! oh morte!)
Semira. Eccoti vendicata, ecco adempito
il tuo genio crudel. Ti basta, o vuoi
altre vittime ancor? Parla.
Mandane.  Ah, Semira!
Soglion le cure lievi esser loquaci,
ma stupide le grandi.
Semira.  Alma non vidi
della tua piú inumana. Al caso atroce
non v’è ciglio che sappia
serbarsi asciutto; e tu non piangi intanto?
Mandane. Picciolo è il duol, quando permette il pianto.
Semira. Va’; se paga non sei, pasci i tuoi sguardi
sulla trafitta spoglia