Archivio storico italiano, serie 3, volume 13 (1871)/Rassegna bibliografica/Processo del Carnesecchi
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Processo del Carnesecchi, e il T. X della Miscellanea
di Storia italiana.
Pochi fatti del cinquecento son tanto celebri quanto il processo di monsignor Pietro Carnesecchi, finito col fuoco nel 1569. Era il Carnesecchi un gentiluomo toscano di antico casato, poeta, bello scrittore, bel parlatore, talmente ben veduto dalla Corte toscana, che gli fu concesso d’aggiungersi il cognome de’ Medici. Divenne protonotaro apostolico, fu in corrispondenza coi più alti personaggi, e incaricato d’affari gelosi, De’ suoi viaggi prese usata coi novatori, che allora interpretavano in maniera diversa le sacre scritture, e principalmente collo spagnuolo Valdes, che a Napoli aveva guadagnato molti anche insigni e savi, magnificando i meriti della redenzione, quasi il credere a questa rendesse inutili le opere. Io ebbi a parlarne a lungo e forse con qualche novità negli Eretici d’Italia1, e narrai come, processato dall’Inquisizione nel 1546, riusci a farsi assolvere; come pure una seconda volta, mentre stava in Francia, condannato in contumacia, seppe ancora ottener l’assoluzione.
Allora egli era molto appoggiato non solo da donna Giulia Gonzaga duchessa di Trajetto e dalla Corte toscana, ma da gran prelati e dal papa stesso, ed egli racconta come, in una grande adunanza di duchi, cardinali, dame, il papa lo salutò benignamente e gli disse di «star di buona voglia, che le sue cose passerieno bene. Il che fu reputato tanto maggior favore, quanto che fu in pubblico, e non procacciato da esso». Ma cresciuti gl’indizi, Pio V con viglietto autografo lo richiese al duca Cosimo, che glielo consegnò.
Che che si dica dell’impenetrabile secretezza della S. Inquisizione, il processo allora fattogli fu veduto dal padre Laderchi, che, nella continuazione del Baronio, ne produsse qualche parte, cum cuncta contro, Carnesecchium originatia diligentissime, nec semel revolverimus. Riccardo Gibbings, che avea fatto una copiosa raccolta di documenti intorno all’Inquisizione2, stampò una relazione sul processo e il martirio di Pietro Carnesecchi.
Sapeasi che un largo estratto n’era stato mandato dal papa a Caterina de’ Medici regina di Francia, come per giustificare la pena inflitta a personaggio ch’ella stimava e amava. Una copia di quell’estratto comprò anni fa il sig. Giacomo Manzoni con moltissime altre carte congeneri; e lo stampò nella Miscellanea di Storia Italiana3. Essendovi ricordati moltissimi personaggi, egli ne prendeva occasione di illustrar la storia della riforma religiosa in quel tempo.
Può credersi con quanto desiderio io aspettassi un lavoro, che tanto poteva aiutare il mio. Ma qualunque fossero le ragioni, il Manzoni ne sospese la pubblicazione; invano lo pregai ripetutamente, e feci pregare da persone autorevoli, mi comunicasse il frutto di ciò che le sue indagini e la fortuna aveangli posto in mano: nulla ottenni. Or finalmente compare quel processo, e vi sono intercalati i richiami di circa 140 note, ma tutte mancano, avendo egli preferito lasciar uscire quell’estratto senza alcuno schiarimento.
Ciò non toglie che riesca interessante a quanti studiano i tempi e gli uomini, e non credono fatica da canonici l’avverare quanti e quanto e come favorissero le nuove dottrine e le combattessero.
Troppi ai di nostri ebbero a subire processi politici, dove cioè i giudici non hanno a fare con rei di delitti comuni, e dove, sia viltà di regj satelliti, sia zelo di pretesi tutori dell’ordine pubblico, si cavilla ogni parola, si sofistica sulle intenzioni. Quando a un inquisito siansi trovati fasci di scritturo; quando egli abbia per 20 o 30 anni carteggiato confidentemente con persone del suo pensare; quando abbia stampato giornali e libri, non è nemmeno necessaria la viltà di certi nostri contemporanei per trovare di che denunziarlo al parlamento, alla polizia o alla pubblica opinione oggi, come altre volte al S. Uffizio.
Era il caso del Carnesecchi. Le imputazioni sul conto suo risalivano al 1540. Cortigiano spiritoso, monsignore curioso, vissuto con duchi e papi e cardinali e dame, scriveva moltissimo, ragguagliando dei fatti non solo, ma delle dicerie che sono il trastullo di Roma e delle corti. Ed ora vedeasi messe innanzi quelle carte, e domandata ragione d’ogni parola, spiegazione d’ogni frase, con una sottigliezza che fa bile. Egli aveva subito il primo processo sotto Paolo IV, quando furono imprigionati e il cardinale Morone e il Foscarari ed altri. Eppure s’insiste a chiedergli ragione di qualche epiteto contro quel papa, dell’avere espresso il desiderio della sua morte, d’essersi rallegrato perchè allora bruciaronsi gli archivi dell’Inquisizione a Ripetta. E quando si formò il conclave, «Voi chi desideravate gli succedesse? perchè avreste preferito il Morone? e questo desiderio lo manifestaste alla signora Giulia? e la signora Giulia chi desiderava? e perchè?»
Interrogato perchè avesse scritto che al Seriprando l’esser fatto cardinale non giovava all’anima nè al corpo, egli spiega che a un uomo di 70 anni conveniva più l’attendere alla sua chiesa, che non il viver a Roma. Ma no, gli obiettano: «pare volesse inferire altra cosa: lo dica ingenuamente». Egli protesta di parlar secondo verità; ed essi: «No: pare volesse intendere che il Seriprando, fatto cardinale, dovrebbe mostrar di credere altrimenti di quel che crede in fatto»4.
Figuratevi poi quando chiama divina la regina Elisabetta d’Inghilterra, e che «ella somiglia a donna Giulia nella pietà come nelle altre qualità e virtù cristiane e reali!»
Incalzato, con tutta la cavillosità e fin la malignità, che, al par di me, altri provarono in giudici di Stato; mostratogli l’estesissimo carteggio colla Giulia Gonzaga, dove con tutta confidenza emetteva parole e giudizi, di cui allora trovavasi domandata ragione, spesso è costretto confessare il proprio fallo, pentirsene, ricredersi. «Quel capitolo mi fa andar in sudore per l’affanno e per la confusione che n’ho preso: di che non solo non sono per iscusarmi altrimenti, ma non mi basta neanche l’animo di trovare parole bastanti ad accusarmi quanto merita una tanta colpa. Solo dirò che la causa di questo inconveniente, come d’infiniti altri errori commessi da me, è stata quella dottrina Valdesiana circa l’articolo della giustificazione».
Che realmente egli propendesse agli errori allora irruenti, appare da detti che gli sfuggono, dalle sue relazioni con erranti o sospetti, dai libri che leggeva. Scrivendo agli amici sul primo suo processo, dal quale seppe tirarsi assolto, lascia intendere come di peggio meritasse. Confessa le sue relazioni con molti fuorusciti; d’aver più volte pensato fuggire, massime con Galeazzo Caracciolo e colla Isabella Brisegna quando andarono ai Protestanti; allorchè esso Caracciolo venne con salvocondotto per indur la moglie a seguirlo5, il Carnesecchi lo tenne a pranzo a Murano; altri ospitò, ad altri mandò avvisi perfin mentre egli stava nell’ultimo carcere.
Mescolato a tante persone, e inclinevole a ciarlare più che non convenga in tali processi, gl’Inquisitori lo interrogavano sopra un’infinità di persone, e massime su quei prelati, che erano stati inquisiti sotto Paolo IV.
Insistevano principalmente perchè aggravasse il cardinal Morone. Aveva scritto il Carnesecchi rallegrandosi che il Signor Dio avesse dato il Morone per legato a Bologna, «che certo non avria potuto essere al mondo subietto più accomodato al bisogno di quella città ed in temporale ed in spirituale: acciocchè sia tanto più glorificato in quella città il santo nome suo, il quale sia benedetto ne’ secoli de’ secoli, e da noi santificato in tutta la vita nostra».
L’inquisitore trova a stiticare su quel temporale e spirituale: e sebbene il Carriesecchi lo spieghi, l’inquisitore giunge che non si dice glorificare il nome di Dio se non secondo le opinioni degli eretici, i quali non credono si glorifichi il nome suo da’ Cattolici: siccome poi egli allora sentiva male della fede cattolica, non potea lodar come tali se non quelli che fossero suoi complici.
Se ne inquieta il Carnesecchi e protesta, fin con giuramenti e con imprecarsi la morte, che non diede a quelle parole tal senso: che se talvolta il Morone, per la familiarità che ebbe col poeta Flaminio e col vescovo Priuli sospetti, non fosse alieno dal tener l’articolo della giustificazione per la fede, non ha mai sentito uscir dalla bocca sua parola che gli abbia data occasione di credere che discrepasse nè in questo nè in altro dalla fede ortodossa.
I raccoglitori di scritture della Vittoria Colonna, e quei che ne preparano una vita, migliore di quella stampata dal Lefevre Derimier (Parigi 1856) e da Adolfo Trollope (A decade of italian Women, Londra 1859), troveranno a pag. 497 una lettera di essa alla Giulia Gonzaga, ove ella si professa al cardinal Polo «obbligata della salute dell’anima e di quella, del corpo, che l’una per superstizione, l’altra per mal governo era in pericolo»; e desiderar trovarsi colla Giulia «avendo la consolazione di conferire con lei, anzi veramente imparare quel che Dio con ottimi mezzi le ha comunicato»6.
Gl’inquisitori vedeano in ciò un’adesione alle eresie che professava la Giulia, e che a Vittoria le avesse comunicate il Polo. Il Carnesecchi al contrario spiega che ella soleva «con digiuni, cilici ed altre sorta di mortificazioni della carne affliggersi talmente, che era ridotta ad avere quasi la pelle in sull’osso, e ciò faceva forse per poner troppa confidenza in simili opere, immaginandosi che in esse consistesse la vera pietà e religione; e per conseguente la salute dell’anima sua. Ma poichè fu ammonita dal cardinale che ella piuttosto offendeva Dio che altrimenti con usar tanta austerità e rigore contro il suo corpo, conciosiachè prima dice S. Paolo ad Thimoleum che corporalis exercitatio admodo valet ad pietatem, essa signora cominciò a ritirarsi da quella vita così austera, riducendosi a poco a poco a una mediocrità ragionevole ed onesta».
Alle domande insistentemente fattegli sopra questa dama, il Carnesecehi risponde come la conoscesse e la frequentasse a Viterbo; e che il Polo «faceva professione di amarla ed onorarla come madre, e lei e converso teneva il cardinale per figliuolo, e come tale mostrò tenerlo in effetto, avendolo lasciato erede di 9 o lOmila ducati ch’ella avea sul monte della zecca di Venezia, i quali però furono da poi retroceduti e restituiti da quel signore alla signora Vittoria nepote della marchesa che fu maritata a don Garzia di Toledo, parendogli che, sì per la congiunzione del sangue, come per la similitudine del nome si dovessero a lei più che a nessun altro quasi haereditario jure; ed avendo S. S. Ill. voluto mostrarsi grato della cortesia ricevuta da quella signora, almeno con quello che lei gli aveva dato, non potendo col suo proprio, per esser povero cardinale in quel tempo».
Non si ricorda averli uditi «parlare d’altro dogma che di quello della giustificazione per la sola fede, proposizione allora non ereticale perchè non ancora condannata dal Concilio»: d’altra parte nella vita e nelle azioni sue ella mostrava tenere gran conto delle opere, facendo grandi elemosine ed usando carità universalmente con tutti, nel che veniva ad osservare e seguire il consiglio ch’ella diceva averle dato il cardinale; al quale ella credeva come a un oracolo, cioè che ella dovesse attendere a credere come se per la fede sola s’avesse a salvarsi, e d’altra parte attenderà ad operare come se la salute sua consistesse nelle opere».
Finito però il processo, il Carnesecchi domandava di soggiungere che, quando al Concilio di Trento si fece il decreto sopra la giustificazione, il cardinale Polo era assente per malattia; del che la marchesa si rallegrò «come di cosa che se tornata mirabilmente a proposito del suddetto signore, dicendo che Dio aveva quasi miracolosamente disposto ed ordinato così, acciocchè il cardinale non fosse intervenuto a tal decreto; quasi volesse inferire di sapere che fosse discrepante il senso di S. S. illustrissima da quello che tenevano gli altri».
Inoltre che essa marchesa gli disse aver letto un commento del salmo Eructavit che le era piaciuto mirabilmente. Era di Lutero, ma «le era stato mostrato sotto il nome d’altra persona: e da lei era stato letto con tale credenza e con tanto gusto e diletto, che non si ricordava averne mai sentito maggiore d’alcuna altra lezione di cose moderne». Ne’ costituti anteriori avea detto come ella non leggesse libri di senso ereticale, perchè così le era raccomandato dal cardinale Polo.
Ma quando gli inquisitori pretendono che egli spieghi o interpreti il senso di lettere altrui, come di essa Colonna, dei Flaminio, del Seriprando, il Carnesecchi esclama: .
«Io ho avuto da fare assai a interpretare tante e tante lettere scritte da me alla signora donna Giulia, ed ho ormai tanto stanca la mente e gli spiriti, che non posso attendere alla interpretazione di lettere di altri».
Il suo sistema di difesa riducevasi a concedere che aveva abbracciata la dottrina del Valdes sopra la giustificazione quando non era ancora condannata: e come scrive egli stesso, «il Carnesecchi, ai suoi esami, non volle pur dissimulare, non che negare la buona opinione avuta di Valdes e di Galeazzo Caracciolo, per il che essendo stato sforzato a difendere alcune proposizioni attribuite al Valdes e comprovate da Carnesecchi, ha tanto più irritato ed esasperato gli animi de’ inquisitori contro di lui; ma vogliano essi o no, bisognerà che la bevano, perchè Carnesecchi ha tanto ben giustificato le cose sue che non posson essere impugnati da loro se non voglion esser incolpati essi di quello che incolpano altri».
Sull’opuscolo del Benefizio di Cristo, tanto allora famoso, e ai dì nostri resuscitato, dice:
«Io tenni quel libro per cattolico e per santo in que’ principii che usci fuora, e così credetti tutto quello che si conteneva in esso». È noto che tale fu l’opinione di personaggi dotti e pii.
Notevole singolarmente in proposito delle opinioni allora correnti è il costituto del lunedì 21 aprile 1567.
«Resta ora che dica dell’articolo della giustificazione per la fede, il qual articolo dico aver tenuto affermativamente, secondo l’opinione di Valdes, insin a tanto ch’io tenni che fosse conforme alla fede ortodossa e cattolica, sì perchè vedevo approvare da persone dotte e cattoliche i scritti dell’autore di tale dottrina, sì ancora perchè non mi pareva che in essa potesse esser errore, atteso che, attribuendosi, secondo tal dottrina, la nostra salute alla grazia e misericordia di Dio, mediante la fede infusa dal Spirito Santo nelli cuori nostri, intendendo di quella fede che opera per la carità, pareva ne resultasse maggior gloria a Dio, che se dipendesse dal merito delle opere nostre. Però quando io tenevo così, non avevo ancora considerato quelle conclusioni che si potevano dedurre da cotale principio, perchè Valdes insegnava tale dottrina semplicemente e senza pure accennare, non che toccare, alcuna delle conclusioni suddette, come quelle che o non le teneva esso, ovvero le dissimulava, per non dare scandalo alli suoi discepoli; Et deinde cogitando parumper, dixit. Io me ne voglio rimettere a quello che ho detto nelli primi costituti, dove ho reso conto della dottrina di detto Valdes, e delle illazioni che si facevano da essa, delle quali, se ben mi ricordo, dissi esser stato avvertito la prima volta dal Flaminio. E ora dico d’aver allora cominciato a dubitare tra me medesimo, se tal dottrina fosse cattolica o non, facendomela avere sospetta il vedere le conseguenze che si tirava addietro, e la conformità che aveva con le opinioni degli eretici; e con questa dubitazione è andato sempre fluttuando l’animo mio, insin a tanto che per il Concilio è stato determinato in che modo si abbia a tenere tal articolo, alla quale determinazione però confesso ingenuamente di non essermi aquietato in tutto, se non da poi che ho visto che il Concilio congregato ultimamente ha approvato e continuato detto articolo nel modo ch’era stato decretato.
«Ho ancora tenuto che l’uomo, che si sentisse giustificato, conforme alla dottrina di esso Valdes si potesse riputare per uno degli eletti, e per conseguenza rendersi sicuro, o almeno confidare grandemente d’avere a essere salvo, facendo però quella vita che conviene a un vero membro di Cristo, e mostrando la fede sua con le buone opere e con i buoni costumi, quando avesse tempo ed occasione di farlo, e non aliter nec alio modo; e questa opinione similmente ho avuta insin a tanto che l’ho lasciata insieme con quella dell’articolo della giustificazione per la fede, secondo il quale articolo, però conforme alla dottrina di Valdes, ho tenuto che le suddette opere si dovessero fare dal cristiano giustificato, come è detto, più presto per gratitudine del beneficio ricevuto e per glorificare Dio; la vita eterna presupponendosi, secondo la suddetta dottrina, ch’ella sia già acquistata per li meriti di Cristo, partecipati dal cristiano per fede: non negando però che. mediante dette opere, non si aumenti la grazia e la giustificazione in noi in questa vita, con acquistare maggior gradi di gloria nell’altra, e che l’uomo giustificato non debba cercare di diventare giusto in sè medesimo, sì come è in Cristo, acquistando l’abito di essa giustizia inerente, mediante la carità diffusa nei cuori nostri dallo Spirito Santo, e non contentandosi solamente della imputatagli e participatagli per fede; circa il quale particolare, non sapendo io discernere troppo bene che differenza sia dalla opinione che avesse il detto Valdes, alla determinazione fatta sopra ciò dal Concilio, non sono ancora bene risoluto se debba condannare o non la dottrina sua in questa parte; però me ne rimetto e sottometto al giudizio delle Signorie Vostre, essendo mia intenzione di conformarmi in tutto e per tutto, così in questo, come nelli altri articoli alla fede ortodossa cattolica».
Le confessioni che il Carnesecchi faceva erano sufficienti perchè il tribunale lo «cacciasse dal foro ecclesiastico e lo rassegnasse al civile», raccomandando, al solito, di risparmiarne la vita e il sangue; e fu bruciato.
Quel che oggi fanno i corrispondenti de’ giornali lo faceano allora i residenti de’ vari governi. Io ho pubblicato la descrizione del suo supplizio fatta dal residente veneto. Or posso produrre quel che ne riferisce Cosimo Bartoli, residente a Venezia pel granduca.
«Per lettera di Roma dei 27 settembre 15G7, si ha che domenica, nella Minerva, si fecero abjurare 17 persone con intervento di 22 cardinali. Dove in prima il Carnesecchi, per avere dal 40 in qua tenute quasi tutte le false opinioni d’eretici, con sottili interpretazioni ed intelligenzia; per avere avuto stretto commerzio con eretici; per averne favoriti e sostentati molti con denari; per avere fatte lezioni eretiche ad alcuni in Firenze, in Padova, in Venezia ed in Francia; per avere scritte lettere a varj signori, cercando di metter loro in capo le sue false opinioni; per esser stato dubbioso, vario ed incostante nel suo credere; per essere stato d’animo di andare a Ginevra, dove diceva predicarsi sicuramente Cristo, se non fosse stato ritenuto da tre gran signori; sopra le quali cose si discorre assai per essere stato ammonito da Paolo III, dichiarato eretico da Paolo IV e restituito da Pio IV, e sempre andato di male in peggio; e per avere ancora, stando prigione, cercato di scrivere lettere ad eretici; fu dichiarato impenitente ed incorregibile. Imperò deposto e degradato, privato di onori, di officii, benefìcii di pensioni per 4 mila scudi di entrata, e di tutti i suoi beni, fu dato in mano alla corte secolare.
«Che detto Carnesecchi nominò molti morti, e fra gli altri un Priuli veneziano, Marcantonio Flaminio e un Appolonio Merenda, da’ quali disse aver imparato molte cose; una signora Isabella Brisegna; una principessa d’Italia, che alcuni discorrono essere la duchessa di Ferrara, ed altri la signora Vittoria Colonna. E che egli fosse pestilentissimo eretico dimostra la sua ostinazione, nella quale perseverò sino ieri, nè per ancora mostra segno di pentirsi, con tutto che gli stiano attorno duoi frati cappuccini valenti uomini e massimo il padre Pistoja, il quale, mentre il detto Carnesecchi era cattolico, era molto suo amico. E si differisce di far giustizia per acquistar quest’anima, ma ci è poca speranza».
Se questo processo non aggiunge nulla alla storia e poco alla biografia, illustra però le opinioni allora correnti, e prova sempre più che per lunga pezza erano state tenute per rette le opinioni del Valdes sulla giustificazione per mezzo della tede.
Io ho altre volte disapprovato il riprodurre gii errori evidenti di scrittura, quando non sia per intento filologico, il quale certamente non v’era in un atto copiato dopo il 1567. Qui si volle stampare Dio lo conversa per conserva: l’opinione di Zuinglo, il sacramento per sul; e guaii e travagli, scivato e scerzo per schivato e scherzo, giustititia per giustizia, ciò per cioè, et per è, ta te per da te, que per che; nè nel Inno nè nel l’altro; ed altre siffatte scorrezioni, avvertendole: il che, oltre crescer la difficoltà della trascrizione e l’imbarazzo della lettura senza verun vantaggio, lascia dubbio quando si trovano errori, che probabilmente sono della presente stampa, com’è nel titolo della sentenza uve dice fuit traditus curiae secularis juxta forma illius.
Questo avvien pure in altri lavori di questo volume. In lettere del 1595 che serve scriver lungezza, luoco, cum più, volendo soccorre, Todeschi, impressa, stano, vale? In una è detto che la peste s’è sviluppata a Sore, a Barlassina ec. Come trovar quel paese? se mettevasi Sorè facilmente s’intendeva il villaggio così chiamato, e che italianizzano in Monsolaro. Così è scritto Lugano, Berinzola, Basilea. Perchè non metter Bellinzona? e Lesdiguieres invece di il Dighiera?
Le altre parti del volume perdono importanza a petto a questa, su cui ci intrattenemmo. Dapprima sta una pandetta delle gabelle e dei diritti della Curia di Messina, compilazione della seconda metà del secolo XIV. Il pezzo che si riferisce alle beccherie non in latino come il resto, ma in dialetto, attirerà l’attenzione di quegli studiosi siciliani, che or - s’adoprano intorno al primitivo linguaggio della loro isola.
Le lettere di Anastasio Germonio, scritte da Roma al duca d’Urbino dopo il 1504, sono interessanti per le notizie che danno principalmente intorno alla assoluzione di Enrico IV; dove è a vedere in qual modo i suoi mandati scagionassero la tolleranza di lui verso gli eretici e la sua avversione ai gesuiti; e quali scrupoli il papa si faceva dell’assolverlo, e quanta pena desse la scomunica al re. Il che viepiù appare dalla soggiunta relazione del veneto Marcantonio Mocenigo, il quale francamente lo rimproverava del suo indugiar la riconciliazione; e poichè al re pareva non esser in disgrazia di Dio perchè gli venivano molte fortune, il Mocenigo voleva considerasse queste come avvisi, al par delle sventure. È bizzarra la dipintura ch’egli fa del vestire e del tratto di Enrico, e come il popolo di Francia serbasse fede a Carlo di Borbone, e lui detestasse come eretico e scomunicato.
C. Cantù. |
- ↑ La mia non è Storia della Riforma, come ad alcuno rimprovera il sig. Giacomo Manzoni, e come sembrano accennare i titoli dati ai vari volumi della traduzione francese. L’opera mia abbraccia molto più lungo temilo, e arriva fino al nostro.
- ↑ Negli avvenimenti del 1849 furono tolte moltissime carte all’uffizio della S. Inquisizione di Roma. Gli abbia sottratti un italiano durante la rivoluzione, o un francese durante l’occupazione, fatto è che da 77 volumi furono da un ufficiale francese venduti al duca di Manchester e da questi per 500 lire sterline al ministro protestante R. Gibbings, il quale ne fece tre pubblicazioni: Were heretics ever burned alive at Rome? A report of the proceedings in the roman Inquisition against Fulgenzio Manfredi, taken from the originai manuscript brought from Italy by a french officer. Londra 1852. - Records of the roman Inquisition; case of a minorite friar, who was sentenced by S. Charles Borromeo to be walled up, and who having escaped was burned in effigy. Dublino 1853.
Report of the trial and martyrdom of Pietro Carnesecchi. Dublino 1856.
Il Gibbings cedette poi questi documenti, per 500 sterline al Trinity College di Dublino, ove ora si trovano, secondo quanto racconta il M. R. P. Madden nell’opera Galileo and the Inquisition pubblicata nel 1863-64. Furono legati senza discernimento, sicchè è difficile valersene, e aspettano ancora un serio esame. Giusta un’informazione data da Enrico Gaidoz, alcuni sono corrispondenze di papi, cominciando da Bonifazio IX nel 1389 sino a Pio VI nel 1787: altri, registri di sentenze ed abiure, che contengono non il processo proprio ma la sentenza e l’abiura se ebbe luogo: e ve n’ha del 1564 fino al 1659. Altri poi sono j processi medesimi cogli allegati, e si estendono dal 1565 al 1800, in ben 33 volumi legati, oltre molte carte sciolte. È facile comprendere quanta importanza potrebbero avere per la storia degli uomini e della umanità. - ↑ Miscellanea di Storia italiana, edita per cura della regia Deputazione di Storia Patria. Tom. X. Torino, 1870; di pag. 878.
- ↑ Il Sig. Generoso Calenzio prometto pubblicare l’autobiografla del card. Seriprando, che fu uno dei legati del Concilio sotto Pio IV.
È noto che il card. Morone era figlio del famoso cancelliere Girolamo Morone, intorno al quale si occupano tre volumi della stessa Miscellanea. Ora il giornale l'Archivio Veneto pubblica il disegno di esso cancelliere alla maestà cattolica nel 1517 per la cacciata de’ Francesi d’Italia.
A questi tempi si riferisce il libro di Teodoro Brieger, Gaspare Contarini e il tentativo di conciliazione in Ratisbona nel 1541, esposto secondo le fonti, (ted). Gotha, 1870. - ↑ Del Caracciolo e di questi fatti parlasi a disteso ne’ miei Eretici d’Italia discorso XXV.
- ↑ Nel 1869 per occasione di nozze si stamparono a Verona sedici lettere della Vittoria al santo vescovo Ghiberti, tutte pietà e venerazione pel pontefice: ma essendo del 1524, precorrerebbero i tempi della supposta apostasia. In una del 25 giugno 1524 dice: «Al valore e merito di sua santità ogni difficoltà è facile: del che la vicina esperienza ne fa certi. Chè se ridussero li nemici ad esaltarlo, e li contrari suoi per forza o buona voglia a baciargli i piedi, ben potrà ridurre questi principi, esausti di denari, fatigati di guerre e timidi ormai de la coscienza por vedere le future imprese farsi più ingiuste che le passate, ad una santa unione e necessaria quiete di tutta cristianità: per firmare anzi ampliare questa nostra fede, tanto vessata da quelli che dovranno aver ricevuto castigo da questi che sono causa nutrirli in tanto errore».