Archivio storico italiano, serie 3, volume 13 (1871)/Rassegna bibliografica/Tucidide e Teocrito

Niccolò Tommaseo

Tucidide e Teocrito
di Niccolò Camarda ../Le Vite dei Dodici Cesari di Svetonio ../Processo del Carnesecchi IncludiIntestazione 20 dicembre 2017 75% Da definire

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Tucidide, e Teocrito di Niccolò Camarda. - Palermo.


Lettera al Traduttore.


In un giornale siciliano, io occupatissimo volentieri leggevo le versioni di Teocrito fornite da Lei: e però del Teocrito accompagnato al Tucidide tanto più debbo renderle grazie. E vorrei poter accettare le lodi che porge a me la sua lettera; le quali dimostrano come chi più sa, voglia sinanche essere indulgente e modesto. Con altro che con quella sincerità che è verace testimonianza di stima, io non posso significarle la mia gratitudine: non però come giudizio (qual’Ella lo chiede), e neanco come parere, ardisco esporle i desideri che desta in me non tanto il pregevole suo lavoro quanto il paragone d’esso con altri ehe s’ebbero già molte lodi. Paragoni generici non darebbero che sentenze indeterminate, le quali non [p. 295 modifica]si convengono nè al concetto mio nè al mio poco sapere. Prenderò dunque un passo brevissimo, e raffronterò la sua colla versione del Manzi e del Boni e del Peyron; giacchè altre a notizia mia non ne giungono. Nè a Lei parrà . spero, pedanteria l’entrare ch’io farò in minutissimi particolari; giacchè non sdegna d’entrarvi e Dionigi d’Alicarnasso e Quintiliano e lo stesso grande oratore di Roma. Nè vietasi allo scienziato osservatore delle naturali bellezze usare il microscopio a discernere le venuzze e i nervolini che diffondono e svolgon la vita; nè è però tolto all’artista il comprendere con uno sguardo le più belle parti del corpo e il suo intero, nè all’uomo che pensa e ama è tolto d’indurre da quelle forme e colori i moti dell’animo e la qualità della mente. Ma con occhiate tra sbadate e sprezzanti l’uomo non forma in sè e non ispira in altri il senso del bello, nè con giudizi in digrosso, com’usa oggidì: che parrebbe le opere dell’arte essere somiglianti non a pianta viva o a corpo umano elegante, ma a figura di cartapesta o a fiore di seta.

Prendo dal libro secondo, là dove è detto della città di Platea, da’ Tebani occupata; che i cittadini, non sgomenti, s’intendono, s’armano, e vincono. In un periodo tanti insegnamenti di cose, e da scansare e da imitare, che ben col poeta può dirsi Maxima de nihilo nascitur historia. Vedesi come sia sovente annidato, più che nelle serve città, nelle libere il tradimento; come i facili vantaggi rendano spesso improvvidi e quasi stupidi i vincitori; come pericoli estremi possano rinfiammare il coraggio e aguzzare l’ingegno de’vinti; come sia leggier cosa abusare della vittoria, come la vittoria diventi de’ pericoli il più tremendo. Vedesi come l’asserragliare i passi sia munizione di guerra comune e alle tribù che portavano sui carri la patria, e a Platea e a Firenze e a Parigi. Ma nè le fiorentine discordie alle quali era fomite la diversità originaria delle razze e la confusione delle persone lamentata da Dante, nè la dissociata vita urbana della Francia moderna, dove il vicino rimane straniero al vicino e il casigliano incognito al casigliano, avrebbe fatto possibile il sùbito intendersi di que’ di Platea nel frangente, l’intendersi col forar le pareti, e dall’uno all’altro capo della città preparare una mina nascosta continuata che a un tratto [p. 296 modifica]scoppiasse sotto i piedi e sopra le teste de’ mal capitati invadenti. Un dotto Fiorentino al quale io toccavo di ciò, mi rammenta che a simile spediente ricorsero gli assediati cittadini «li Saragozza, che, aprendo comunicazione da casa a casa, in ciascuna si trincieravano per resistere, e, stretti e risospinti, si ritirarono contendendo ogni passo con sforzo di coraggio ai posteri memorando. Di qui anco si vede che il verso di Euripide, valentemente tradotto da Cicerone, juravi lingua, mentem injuratam gero, non rappresentava (nè so quanto li rappresentasse in tutti i suoi drammi Euripide) i costumi di quella Grecia che fece così belle e così grandi cose, e che fu dal vincitore tacciata di leggiera e di perfida. Perchè dall’avere i Plateesi vincenti ai Tebani poi data morte, si scusarono con dire che i patti della resa non erano dal giuramento fermati; e Tucidide, recando le due voci contrarie senza soggiungervi il proprio giudizio, usa insieme equità di storico sapiente e prudenza di buon cittadino, ma coll’astenersi dall’affermare testifica in quanta religione egli avesse il giuramento, e con lui i Greci tutti.

Boni. - E per tener colloquio tra loro, sfondavano le pareti comuni delle case, per non esser visti correr le strade, a traverso delle quali mettevano carri senza giumenti per servir di barricate, e accomodavano le altre cose come e dove credevano che sarebbe utile pel momento.

Peyron. - Quindi datisi a rompere le mura divisorie delle case, a fine di non esser veduti trascorrere per le vie, andavano così facendo la massa: ponevano inoltre attraverso le strade carri senza giumenti per servire di barricate; e facevano quegli altri preparativi che parevano più spedienti all’uopo.

Manzi. - Traforarono, per sentirsela tra loro senza esser veduti per istrada, i muri delle case; ed indi, asserragliando coi carri le strade, apparecchiarono ciò che in quello stato di cose potesse vantaggiarli.

Camarda. - E riunivansi forando a vicenda le pareti comuni, affinchè camminando non fossero dalle vie scoperti; e collocavano carri senza bestie, perchè facessero le veci di mura; e preparavano ogni altra cosa che nel presente caso appariva utile a ciascuno.

[p. 297 modifica]È più diretta e spedita la forma di Tucidide: s’accolsero o se la dissero sfondando, che per tener colloquio tra loro sfondavano; nè sfondavano solo per tenere colloquio. Dicendo pareti col Boni, inutile soggiungere delle case, che richiederebbesi per togliere l’equivoco con le mura della città; ma questo toglierebbesi dicendo anche muri. E, prescegliendo pareti si può collocare, come nel greco, le comuni pareti. Breve e preciso per non esser visti correr le strade, più bello che in Tucidide stesso; ma i due per il greco risparmia, e ben si può. Versione più fedele sarebbe, che non si palesassero per le strade andando; un po’ più liberamente, che l’andare per le strade non li facesse palesi. Se Tucidide ridice le strade, ci ha la sua ragione; e c’insegna col suo meditato e ricco linguaggio, a non temere le ripetizioni, che tutte non confessano povertà e negligenza. A traverso delle quali è pesante nel Boni. E giacchè il greco ha l’articolo senza i giumenti, io non lo vorrei tralasciato. Mettere è più semplice; ma un ostacolo più fermo e alto si vede sorgere nella parola del testo. - Per servir di barricate è più moderno del dire, che fossero invece di mura. E qui direi mura, e muri sopra. L’ultimo inciso è lunghetto anco in Tucidide, ma per amore di dignità: nè a questo nuoce l’accomodare del Boni, che è fedele, e qui più calzante di preparare. Anco il momento rende lo spirito dell’idea: ma come e dove allunga, e tralascia il ciascuno, che ha pur valore. Parere sarebbe più opportuno di credere.

Il Peyron ci mette il quindi di suo, non gli bastando il pertanto del principio, che già era anche troppo; e col suo quindi, oltrechè sminuzza il periodo, scema prestezza all’operazione, che aveva a essere tutta sollecita da tutte le parti. Il darsi è altra infedeltà insieme e improprietà in tal faccenda. Rompere non dice lo sfondare tanto quanto bisogna e serve al comunicare tra case accosto. Divisorio, non bello di per sè, porta idea inopportuna, perchè qui appunto del dover comunicare si tratta; e lo dice il vocabolo greco, e la locuzione muro comune usitata da noi tuttavia. A fine non è nè pronto nè proprio. Non esser veduti non ha tanta efficacia; giacchè qui trattavasi non del solo non esser visti, ma del non fare in palese apparecchi sospetti. Vie di città [p. 298 modifica]men proprio che strade; e strade esso Peyron dice poi, ma Tucidide ha la medesima voce. Trascorrere più improprio ancora: l’andare semplice e bello. Andavano così facendo la massa: avrà il Peyron rinvenuta in qualche codice questa giunta. Ma l’inoltre almeno ce l’ha messo di suo; e quel suo porre è qui troppo languido, e ci dimostra come giovi alla i del dire e del fare la vera eleganza. Facevano preparativi, inelegante e prolisso, e dice meno dell’unico verbo greco, e di quel neutro generico altre cose, che comprende e gli apparecchi e le intese e le previdenze. E quest’ultimo viene significato anco dalla forma greca del verbo sostantivo, la qual corrisponde al sarebbero. Spedienti all’uopo, libero ma felice: senonchè il congegno de’numeri non consuona all’idea.

Nel Manzi traforarono conserva anco la particella del verbo greco composto; sentirsela traduce a senso, ma non credo sia modo così chiaro come intendersi o dirsela. Il tra loro si reca al sentirsela solamente, quando può estendersi fors’anco all’operazione dello sfondare reciproca. Senza esser veduti per istrada, preposto alla fine del primo inciso, rende il costrutto più svelto: ma l’attenzione del lettore non vi si ferma tanto quanto lo storico forse voleva; onde la necessità di soggiungere le case, che sottintendere tornava meglio, Ed indi, giunta; ma non era da tacere de’ carri senza bestie aggiogatevi. Carri, senza articolo, ha sua ragione. Asserragliando è parola valente, e virtualmente inchiude l’inciso che viene poi; ma l’immagine di muro presenta meglio la spessezza e l’altezza della sbarra, e fa ripensare ai carri antichi, più alti de’nostri. E siccome qui le strade plurale ha Tucidide, e così sopra, dove il Manzi per istrada non offre all’occhio della mente i passi della città tutta quanta. Anche il gerundio asserragliando addensa quello che il testo discerne con particelle, delle quali l’uso ben serve alla logica nello stile de’ Greci. Preparavano meglio che apparecchiavano; giacché d’apparecchi, propriamente detti, a faccenda così sùbita non c’era tempo: e meglio cade la forma del pasimperfetto, prescelta da tre versioni. Ciò non collega agli accennati prima gli altri spedienti, né il singolare li significa chiaramente. Potesse, e colla forma grammaticale e col senso [p. 299 modifica]accenna bene l’intendimento futuro. Mancano le idee del parere e del ciascheduno; e il vantaggiare, che pur risparmia parole, non rende la particella all’aggettivo congiunta, che dice il concorrere di più vantaggi; e lo renderebbero a qualche modo i composti italiani, conducevole, confacevole, conveniente.

Nella versione di Lei riunivansi è forse meno infedele di quel che paia; certamente l’inciso è più snello, come richiede la cosa. Anche scoperti a me piace: ma piuttostochè dalle vie direi camminando per, o per le strade andando; e l’affinchè muterei, che qui non ha luogo l’idea di fine. Collocavano meglio di ponevano: bestie non traduce etimologicamente come giumenti, ma dice e chiaro e vivo. Facessero le veci di mura è il più fedele de’ tre. Più fedele anco a ciascuno, che non è parola oziosa; ma insegna che tutti d’accordo, e pur ciascuno con libero consiglio, operavano. Fedele altresì, sebbene allunghi un poco, al presente caso. Nè ogni altra cosa fu da Lei posto senza ragione. Pareva, però piuttosto direi che appariva; tanto più che l’esito dimostrò come quel parere fosse conducevole davvero all’intendimento di ciascuno e di tutti.

Chi dicesse e s’intesero tra loro sfondando i muri comuni, perche non si scoprissero per le strade andando; e carri senza i giumenti nelle strade opposero, che fosse invece di muro; e allestirono quant’altro a ciascuno pareva al presente bisogno dover convenire; chi dicesse così, non contenterebbe nè Lei nè me; pur farebbe sentire talune tra le intenzioni, a farsi sentire difficilissime, di questo scrittore laborioso.

A far sentire e l’indole della lingua, e le bellezze del dire, e lo spirito degli autori e de’ tempi, io credo che simili paragoni potrebbero, ben condotti, nella minuziosità loro apportare più grande profìtto di molte erudite e estetiche disquisizioni. Specialmente per quei ch’è delle dottrine religiose e filosofiche, e di quelle particolarità de’ fatti le quali ce li presentano vivi e distinti da altri fatti innumerabili somiglianti; io dico che non è solamente avvedimento di buona critica ma dovere di coscienza, il ponderare ciascuna parola nei suo peso e valore, lo scrutarla ne’ suoi elementi, il por mente alle sue conformità con altre affini e alle differenze, al contesto con le circostanti, alla sua giacitura; massime quando [p. 300 modifica]s'abbia che fare con autori d’opere così meditate e così meditabili, i quali avendo la coscienza profonda del vero e del bello, in chi si esercita a osservarli la esercitano, e, direi quasi, la ispirano. Non so quanto si sia in tali indagini fatta innanzi la erudizione straniera; ma debbo una menzione di lode riconoscente a Sebastiano Ciampi pistoiese, il quale, illustrando Pausania, s’ingegnò di discernere il valore proprio di vocaboli affini concernenti le opere d’arte, promiscuamente intesi dai più, e diede saggio del come siffatto discernimento possa giovare alla storia di tutte le umane cose. Ma il pover’uomo, morto da circa un quarto di secolo, è sepolto oramai sotto un monte di nuove glorie, non so quanto ai posteri memorande.

Simile prova mi sia conceduta sopra tre soli versi del terzo idillio di Teocrito; ma premesso che in altri luoghi a me pare ancora più felice la versione di Lei; più felice che la pregevole dataci dall’abate Bentini, non mi rammento se d’Imola o di Faenza.

Pagnini.                                Or io conosco Amore.
                    E un dio crudel. Certo ei succhiò le poppe
                    Di lionessa, e la sua madre in selve
                    Nudrillo. Ei m’arde, e sugge infino all’osso.


Camarda. Ora conosco Amor, molesto nume,
                    Il qual succhiò di leonessa il latte,
                    E tra le selve si nutria la madre;
                    Che lentamente mi consuma, e dentro
                    L’ossa per tutto penetra, e s’insinua.


Ora conosco Amor: meglio qui senza l’io: e conoscere ha valore più pieno che nel Petrarca Ove sia chi per prova intenda Amore, che però tiene un poco del più spirituale, conforme ai tempi mutati dalla Sicilia di Teocrito alla Toscana che aveva dianzi sentiti i cantici di Francesco d’Assisi. Onde Dante Donne che avete intelletto d’amore. La forma del passato alla qual corrisponde il novi latino, alla lingua italiana manca; e significa filosoficamente la conoscenza compiuta, il riflettere sopra quel che si sa. Saper l’amore non avrebbe in italiano evidenza; sebbene in Dante sia modo simile: Quando il settentrion del primo cielo, Che [p. 301 modifica]né occaso mai seppe né orto, Né d’altra nebbia,, die di colpa, velo. Ma dicendo l’amore coll’articolo, noi più non ce lo figureremo persona viva, sibbene una passione o un affetto.

Grave Dio, non sarebbe a noi chiaro, così da sé: crudele ha con chiarezza efficacia; ma non è senza efficacia molesto se intendasi più nel senso datogli dai latini che nel nostro moderno. Certo ei succhiò le poppe Di lionessa . mi piace più, le confesso, di Il qual succhiò di leonessa il latte. Mi piacerebbe E tra le selve lo nutria la madre più che e la sua madre in selve Nudrillo. Ma l’articolo, per più fedeltà potevasi risparmiare, come il Pagnini fa, e com’Ella risparmia il pronome inutile.

Ei m’arde e sugge insino all’osso, è di valida brevità; ma non ha la pienezza del verso siciliano, e la soavità nel vigore. Nella larghezza è più fedele il suo che non paia Che lentamente mi consuma, e dentro L’ossa per tutto penetra, e s’insinua; ma il secondo cade languido: né l’uno né l’altro rende l’immagine del disfacimento e dello struggimento, il qual pur non scema il senso del dolore che sin dentro alle ossa penetra acuto. Onde questo è più bello del virgiliano che è pure sì bello: Ardet amans Dido, traocitgue per ossa furorem: senonchè nel latino sentesi col turbamento de’ sensi alterata la mente, sentesi la parte che lo spirito libero prende al furore, attraendo a sé colpevolmente il veleno, longumque bibebat amorem.

Nel passo in cui siamo, Virgilio, imitando, rimane minore del solito: Nunc scio quid sit Amor; duris in cotibus illum Aut Tmaros, aut Rhodope aut extremi Garamantes, Nec generis nostri puerum nec sanguinis edunt. Fredda tutta cotesta remota geografia; e duris cotibus dice meno che in selva; e nec generis nec sanguinis pare pleonasmo per compiere il verso; e puerum non ha il valore di dio, che in Teocrito ci rappresenta insieme il fanciullo appena nato, cresciuto grave, e con potenza quasi di spirito che penetra il corpo e l’anima. Anco l’edunt pare dettato dalla legge del metro, e ci rimanda all’immagine d’un’infanzia non tanto possente quanto spietata. E senza il pronome illum è disinvolta e vigorosa nel greco la voltata dell’accusativo amore a dio primo caso; di quelle voltate che anco [p. 302 modifica]familiarmente parlando si fanno. Ma poi Virgilio, che pare Syracosio tudere versu, anzi fare un bisticcio, soggiungendo Saevus Amor docuit nutorum Sanguine matrem Commaculare manus. Crudelis tu quoque, mater! Crudelis mater magis, An puer improbus Ille? Improbus ille puer, crudelis tu quoque, mater; viene, come altrove io notavo, a discernere con equità di coscienza quello che negli atti dell’anima umana attenua, e quello che aggrava la colpa, cioè l’impeto della passione, e la elezione della libera volontà, che potrebbe volendo alla passione più impetuosa resistere.

Se fosse chiaro nell’uso moderno il frugare nel senso che Dante l’usa d’un tormentato dall’ardor della sete La rigida Giustizia che mi fruga, e altrove Virtù così per nemica si fuga Da tutti come biscia, o per sventura Del luogo, o per miiì uso che li fruga; questo corrisponderebbe a qualche modo in radice al greco verbo composto; e potrebbesi dire: Che mi fruga, e la smania all’osso addentra; e il suono e il senso di smania l’ultimo verbo greco altresì renderebbe. Ma, perchè non sarebbe reso insieme il concento del verso intero; e perchè non mi dispiacerebbe serbare il singolare di poppa, come i Toscani dicono dar la poppa, e qui torna meglio che il virgiliano admorunt ubera tigres; e perchè gioverebbe serbare anche l’altro singolare greco, ch’è nel Petrarca Qual torna a casa e qual s’annida in selva; però, a voler esprimere il mio concetto, per modo di dire proporrei a un dipresso: Ora conosco Amor, terribil Dio, Che la poppa succiò di leonessa, Ed in foresta lo allevò la madre: E’ mi distrugge, e all’osso il duolo addentra. Preporrei, com’Ella fa, l’epiteto al dio, acciocchè questa potenza grave risalti di più; e coli’ intendimento medesimo direi dio piuttosto che nume. Non vorrei ch’egli stesso penetri e s’insinui in fondo all’osso; ma il verbo che ha radice comune col nome di freccia, fa piuttosto pensare che la forza sua di lontano s’avventi e s’interni così. Nè mi spiacerebbe che leonessa rimanga alla fine del verso, come in Teocrito; e Mallevare mi par più vivo qui di nutrire, più comune ai parti umani e degli altri animali. Io poi credo (e mi pare lo senta anche Lei) che una delle meno osservate parti nella fedeltà del tradurre poeti, sia di concludere al possibile il verso là dove [p. 303 modifica]lo conchiude il poeta nella sua lìngua; e che spezzare altrimenti i costrutti, e gl’incisi stessi, diventi un continuo stonare. Se il Monti, col senso che aveva del verso italiano, senza intendere Omero, se lo fosse via via fatto leggere, e ricevuta nell’anima quella piena di suoni, si sarebbe avvisto da sé dello stonare che fanno da Omero le pose diverse e rotture del suo endecasillabo. E se noi leggessimo la prosa de’ Greci non a misura d’accenti ma della quantità metrica, come di necessità i versi leggonsi per sentire che versi sono, pregeremmo di più l’artifizio de’ suoni corrispondenti all’idea, e a ben tradurre ne avremmo norma, anzi ispirazione.

Questa e altre cose Ella potrebbe, signore, e col precetto e coll’esempio insegnare alla gioventù siciliana, che non può non tenere tuttavia degli spiriti greci. E acciocché l’insegnamento riesca e moralmente e civilmente più fruttuoso, essendo l’arte lunga e le ore fuggevoli, gioverebbe che, se Ella vuol dare ancora le dotte e ingegnose sue cure al tradurre, trascelga gli scritti e i luoghi più belli e più puri, e che più si confacciano alle condizioni del mondo odierno, non per lusingare i nostri difetti, ma per correggerli con la voce d’uomini i quali, con idee men rette e con sentimenti men alti, pur seppero e dire e operare così belle e nobili cose. Accolga i ringraziamenti e gli augurii del suo

dev.
Tommaseo.