Dunque, miser, perchè non rompi e scapoli
Tutte l’onde in un punto, ed inabissiti;
Poi che Napoli tua non è più Napoli?
Questo dolore, oimè, pur non predissiti
Quel giorno, o patria mia, ch’allegro ed ilare
Tante lode cantando in carta scrissiti.
Or vo’ che ’l senta pur Vulturno e Silare,
Ch’oggi sarà fornita la mia fabula,
Nè cosa verrà mai, che ’l cor mi esilare;
Nè vedrò mai per boschi sasso o tabula,
Ch’io non vi scriva Filli; acciocchè piangane
Qualunque altro pastor vi pasce o stabula.
E se avverrà ch’alcun che zappe o mangane,
Da qualche fratta, ov’io languisca, ascoltemi,
Dolente e stupefatto al fin rimangane.
Ma pur convien che a voi spesso rivoltemi,
Luoghi, un tempo al mio cor soavi e lepidi,
Poi che non trovo ove piangendo occollemi.
O Cuma, o Baja, o fonti ameni e tepidi,
Or non fia mai che alcun vi lodi o nomini,
Che ’l mio cor di dolor non sudi e trepidi.
E poi che morte vuol che vita abbomini,
Quasi vacca che piange la sua vitula
Andrò nojando il ciel la terra e gli uomini.
Non vedrò mai Lucrino, Averno, e Tritula,
Che con sospir non corra a quell’ascondita
Valle, che dal mio sogno ancor s’intitula.
Forse qualche bell’orma ivi recondita
Lasciar quei santi piè, quando fermarosi
Al suon della mia voce aspra ed incondita.
E forse i fior che lieti allor mostrarosi,
Faran gir i miei sensi enfiati e tumidi
Dell’alta vision ch’ivi sognarosi.