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Ovunque miro, par che ’l ciel si ottenebre:
Che quel mio sol che l’altro mondo allumina,
E or cagion ch’io mai non mi distenebre.
Qual bove all’ombra che si posa e rumina,
Mi stava un tempo, ed or lasso abbandonomi,
Qual vite che per pal non si statumiua.
Talor mentre fra me piango e ragionomi,
Sento la lira dir con voci querule:
Di lauro, o Meliseo, più non coronomi.
Talor veggio venir frisoni e merule
Ad un mio roscigniuol che stride e vocita:
Voi meco, o mirti, e voi piangete, o ferule.
Talor d’un’alta rupe il corbo crocita:
Absorbere a tal duolo il mar devrebbesi,
Ischia, Capri, Ateneo, Miseno, e Procita.
La tortorella ch’al tuo grembo crebbesi,
Poi mi si mostra, o Filli, sopra un alvano
Secco, ch’in verde già non poserebbesi;
E dice: ecco che i monti già s’incalvano:
O vacche, ecco le nevi e i tempi nubili:
Qual ombre o qua’ difese omai vi salvano?
Chi fia che udendo ciò mai rida o giubili?
E’ par che i tori a me muggendo dicano:
Tu sei, che con sospir quest’aria annubili.
Summonzio.
Con gran ragion le genti s’affaticano
Per veder Meliseo; poichè i suoi cantici
Son tai, che ancor nei sassi amor nutricano.
Barcinio.
Ben sai tu, faggio, che coi rami ammantici,
Quante fiate ai suoi sospir movendoti,
Ti parve di sentir soffioni o mantici.