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Parte terza - 5 Parte terza - 7


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VI.


Tre uomini.


Il Botola non tardò a trovare il vecchio amico e lo condusse a casa sua. Strada facendo, cercò di persuaderlo a trattare con indulgenza un figliuolo, che mostravasi pentito dal fondo del cuore. Citò perfino nostro Signore, il quale ha detto che sarà molto perdonato a chi avrà molto amato. Suscitò dei ricordi giovanili per dimostrare a Tognino che il mondo è sempre stato mondo e lo sarà sempre finchè ci saranno uomini e belle donnette.

Quando fu sui primi gradini della scala, vedendo che il vecchio amico lo ascoltava poco, lo prese per il bottone del vestito e toccò il tasto di Olimpia.

— Spero che tu non vorrai infierire contro questa incipriata creatura: essa fa il suo mestiere, canta come può. Il mio parere sarebbe che tu l’avessi a pigliare colle molle d’argento, come si fa collo zucchero. Essa, da quel che so, potrebbe farti del male.

— A me? — esclamò il signor Tognino, sogghignando.

— O almeno so che i tuoi riveriti parenti fanno un gran conto sulla sua testimonianza.

— Testimonianza di che?

— Conto quel che mi hanno contato. Il Mornigani [p. 350 modifica]avrebbe detto in sagrestia di Sant’Ambrogio che Olimpia t’ha visto...

— Che cosa ha visto?

— T’avrebbe visto entrare nella stanza della Ratta a cercare una carta...

— Ah sì!... — cantò in tono nasale il vecchio affarista, che non si aspettava questa novità. — Ah, mi ha visto? o bella, o bella! — e ridendo confusamente cercò di nascondere all’occhio fino e indagatore del pignoratario un improvviso turbamento di animo.

Era una testimonianza inconcludente, a rigore, e di nessun valore morale; ma la notte non dormita, l’agitazione dell’animo, lo scoraggiamento da cui sentivasi preso, avvilirono un istante il vecchio navigante, che stentò a vedere i gradini della scala.

Quando furono davanti all’uscio, il Botola lo trattenne ancora due minuti per dargli un altro suggerimento:

— Son persuaso che è tutta una trappola montata dai preti e dall’avvocato, ma ad ogni modo sai che queste donne son sempre pronte a cantare il falso. E in una causa Olimpia non ha nulla da perdere e invece ha tutto da guadagnare, se giura sui santi Vangeli che t’ha visto a cercare una carta. La sua finestra dà precisamente sulla stanza della defunta, e sai che queste donne patiscono la insonnia qualche volta... E poi io prevedo un garbuglio. Olimpia tirerebbe in giudizio Lorenzo, il padre contro il figlio...

— Ti ha... ti ha forse parlato lui di questa faccenda?... — balbettò il vecchio, impallidendo un poco.

— Me ne parlava ieri sera, anzi fu lui che mi fece notare questo pericolo.

[p. 351 modifica]Il vecchio affarista si abbrancò colla mano all’appoggiatoio di ferro dell’oscuro pianerottolo e fece sentire un secco sogghigno, che somigliava piuttosto a un rantolo.

Il Botola aprì l’uscio, e nell’indicare uno scalino per cui si scendeva nella stanza, si curvò verso l’uscio e sussurrò:

— Zucchero e miele.

Lorenzo, che stava aspettando in casa del pignoratario l’esito delle trattative, stentò sulle prime a riconoscere suo padre, un poco per il gran cappello di campagna che gli ombreggiava la faccia, un poco per l’andatura floscia e legata con cui entrò nella stanza.

Mentre si aspettava un uragano di rimproveri, vide con sua meraviglia l’adirato genitore entrare e mettersi a sedere senza parlare, coll’abbandono di chi stenta a reggersi sulle gambe.

Sia che la notte agitata, o l’emozione, o lo strapazzo gli facessero male; sia che la imprevista ingerenza di Olimpia entrasse a turbare l’equilibrio morale del vecchio; risultò a Lorenzo che il babbo non era in vena di far scandali e rumori.

— Io sono felice e orgoglioso, cari amici, di offrire la mia povera casa a questo, diremo così, congresso della pace. — Così cominciò il Botola col tono scherzevole per raddolcire l’aria e per avviare un discorso utile per tutti. — Vi prego di non guardare al disordine e alla polvere di questa mia povera casa; io sono uno straccivendolo e si sa... Tu, Lorenzo, siediti qua alla mia sinistra, e io mi metterò in mezzo a fare il presidente. Non manca nemmeno il campanello... — Il vecchietto toccò e fece [p. 352 modifica]squillare un coso di bronzo, ch’era sulla tavola, e ne trasse un suono fesso che si accompagnò al suo ridere che aveva pure del fesso. Sedette in mezzo ai due Maccagni e stirandosi le mani, voltosi a Lorenzo:

— Dunque — soggiunse — dicevo poco fa a tuo padre che tu sei pentito e dolentissimo di ciò che è accaduto ieri sera; che pur di aggiustare la cosa senza scandali, pur di far pace con tua moglie, sei disposto a promettere e a giurare...

— Che suo padre è un ladro...! — interruppe fieramente il babbo, come se si svegliasse bruscamente da un lungo letargo; e alzò il suo dito magro e lungo con cui era solito infilzare uomini e cose. — Che cosa non è pronto a giurare quest’imbecille mangiapane?

— Adesso tu stammi zitto e lascia parlare a me. Siamo uomini o donne? — Così il Botola con una certa furia; e voltosi a Lorenzo, seguitò: — Intanto abbiamo buone notizie della signora Arabella. È venuta a Milano sua madre e tutti siamo interessati a mettere acqua sul fuoco; acqua, acqua, Tognino, e non olio.

— Benissimo! — disse Lorenzo, arrossendo come un ragazzo scapestrato, ma non cattivo, che sente ricordare il nome della mamma morta.

— Bravo, ma non basta dir benissimo, sor Lorenzo riverito: — soggiunse il Botola col piglio amoroso e severo d’un buon zio interessato. — Tu devi dimostrare col fatto a questo uomo qui, e a tua moglie, che sei veramente un uomo, non una banderuola. Hai la fortuna di possedere una donnetta bella, graziosa, educata, un rosino da far gola al principe Triulzio e vai a perderti come una bestia con [p. 353 modifica]Olimpia. Sii buon marito, non un burattino; sii buon padre di famiglia, non un libertino...

Il tono predicatorio del Botola, il sussiego con cui esponeva queste belle massime dalla sua seggiola zoppa, nell’aria morta di quel camerone pieno di muffa e di stracci, non potè che muovere un poco la naturale allegria del Bomba, che sbuffonchiando rispose: — In quanto al buon padre di famiglia, il mio dovere l’ho fatto a suo tempo e non è colpa mia se l’ortolana...

— Fallo tacere quel tanghero...— supplicò il padre, infiammandosi, sollevando le due mani aperte verso il Botola — fallo tacere...

— Non cominciate a irritarvi, e a rivangare le ragioni e i torti. Del passato non si deve parlar più in vitam aeternam, amen. Sei tu disposto, Lorenzo, a far veramente giudizio? Se sì, questo tuo padre qui, che in fondo ti vuol bene, userà tutta la sua autorità per persuadere la buona sora Arabella a mettere un piede sul passato. Non solo: ma visto e considerato che, in seguito alla vostra recente eredità, le condizioni sono mutate, tuo padre, di cui credo d’interpretare il sentimento, vorrà assegnarti da ora innanzi un reddito maggiore, più conveniente al tuo stato, vorrà pagare qualche tuo vecchio debituccio...

— Niente affatto!... — Protestò il vecchio Maccagno.

— Tu, mio caro illustrissimo e severissimo genitore, devi mettere questo figliuolo nelle condizioni di poter far onore a’ suoi impegni. In quanto a Olimpia, se vi fidate di me, ci penso io. Con pochissimo sacrificio leviamo di mezzo la pietra dello scandalo. Va bene? date carta bianca a me?

— Io per me ti lascio carta bianca fin che vuoi [p. 354 modifica]— disse Lorenzo con accento d’uomo che parla sul serio. — Ripeto che di questo stato di cose sono io responsabile; ma, amen, non se ne parli più. Solo mi permetto di proporre al mio signor padre una piccola condizione...

Lorenzo non aveva in vita sua pronunciato quattro parole più gravi e solenni; al punto che il vecchio Maccagno sollevò la faccia e rimase in curiosità di quel che il sapientone stava per dirgli. Anche il Botola rimase lì colla sua faccia di bertuccia incantata.

— Una piccola condizione che ho quasi il diritto di imporre... — seguitò il giovane Maccagno, in preda a un convulso, che gli faceva battere il bastoncino sulla punta della scarpa. — Desidero, cioè, che mia moglie venga con me e stia con me; voglio, cioè, essere io il padrone... comandar io in casa mia, visto che il marito sono io.

Da infiammata la faccia del vecchio Maccagno si fece livida. L’occhio si impicciolì a un’espressione di gatto selvatico, il corpo si curvò sui ginocchi, le mani si strinsero in due pugni nervosi, uno dei quali si sollevò lentamente e ricadde come un maglio pesante sul ginocchio. Voleva gridare: — Tu? tu metti alla porta tuo padre? — ma non gli venne fuori che un mugghio d’uomo strozzato.

— Sissignori, voglio così!... — ripetè Lorenzo, alzandosi con un visibile sforzo e piantandosi ritto davanti a suo padre, colle braccia sul petto, come Napoleone, soffiando la sua straordinaria emozione, che sollevava e scompaginava la pigra e sonnolenta volontà. Anche il vecchio si alzò, fe’ un giro intorno alla sedia, vi si appoggiò, e sogghignando colla bocca umida di saliva: — Tu vuoi mettere alla porta tuo [p. 355 modifica]padre? — uscì a dire con amaro sarcasmo. — Bene! e io metterò te al posto che meriti...

— Il marito sono io...

— Che, che, che... — balbettò il Botola, cacciando in mezzo la sua faccia pallida e rugosa, coll’aria di un uomo che stenta a capire o finge di non capire. — Voi non mi farete una brutta scena, adesso. Siete in casa mia: non ve lo permetto. Vergogna!

I due Maccagno si guardavan coll’occhio fisso, invelenito, in atto di sfida, l’uno col capo curvo e irrigidito, appoggiato colle due mani allo schienale della sedia; l’altro, il giovane, ritto e impettito nella sua spavalda vigoria d’uomo forte e ignorante.

Aveva un bel predicare l’amico conciliatore, di dietro al tavolo zoppo delle sue anticaglie: quei quattro occhi cattivi non si torcevano, ma continuavano a dirsi delle cose cattive.

— Da quando si è vista una scena simile? tra padre e figliuolo? vergogna! E c’è di mezzo una brava e buona signora che merita rispetto...

Così il Botola: ma predicava ai sordi. Quei due uomini avevano dell’odio negli occhi e nel cuore...

— Tu metti tuo padre alla porta... — riprese a dire finalmente con voce sconnessa e indebolita dall’ira il vecchio, alzando una mano fin sotto il viso del ragazzo. — Tu fai lega co’ suoi nemici; tu lo tratti come un ladro; tu gli avveleni la vita, la vecchiezza; tu porti la vergogna e lo scandalo nella sua casa; tu gli rinfacci tutto ciò che ha fatto per il tuo bene; tu gli butti sul viso un insulto infame... non figlio, ma assassino di tuo padre...

E come se a un tratto balzasse infuriando l’ira, che un resto di coscienza teneva incatenata, il vecchio [p. 356 modifica]Maccagno saltò colle due mani al viso di Lorenzo, lo investì, lo sospinse fin contro la parete, dove egli si lasciò spingere, cedendo, spaventato, avvilito, facendosi scudo della faccia col bastoncino, che stringeva nella mano, respingendo coll’altra l’assalto senza offendere, mormorando con un profondo gemito:

— Non toccarmi...

Il pignoratario si cacciò in mezzo. Era una brutta scena, forse non ne aveva mai viste di più brutte. Gli rincresceva principalmente che la faccenda avesse presa una piega cattiva, che rendeva più difficile l’opera sua d’intermediario tra Olimpia e un vecchio amico denaroso.

E poichè Lorenzo, quasi affascinato dagli occhi piccini di suo padre, insisteva a rispondergli cogli occhi insolenti, in atto di sfida, il pignoratario lo rivoltò colle sue mani ossute di scheletro, lo cacciò verso l’uscio, ripetendo: — Va via, va via! — Il giovane si lasciò spingere un poco e quando fu sulla soglia, come se volesse confermare ciò che aveva detto, si voltò ancora verso il babbo e alzò il bastoncino come una spada.

— Va via! — e lo chiuse fuori sui pianerottolo con tanto di catenaccio, che sonò come quello di una prigione.

Tognin Maccagno rimase attaccato alla sedia per non cadere. Il suo corpo tremava tutto. Un pensiero buio e malvagio gli divorava la vita. Delle cento parole che il Botola gli disse in quel momento, non ne afferrò una, come se l’avessero colpito con una mazza sulla testa.