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Il vecchio affarista si abbrancò colla mano all’appoggiatoio di ferro dell’oscuro pianerottolo e fece sentire un secco sogghigno, che somigliava piuttosto a un rantolo.

Il Botola aprì l’uscio, e nell’indicare uno scalino per cui si scendeva nella stanza, si curvò verso l’uscio e sussurrò:

— Zucchero e miele.

Lorenzo, che stava aspettando in casa del pignoratario l’esito delle trattative, stentò sulle prime a riconoscere suo padre, un poco per il gran cappello di campagna che gli ombreggiava la faccia, un poco per l’andatura floscia e legata con cui entrò nella stanza.

Mentre si aspettava un uragano di rimproveri, vide con sua meraviglia l’adirato genitore entrare e mettersi a sedere senza parlare, coll’abbandono di chi stenta a reggersi sulle gambe.

Sia che la notte agitata, o l’emozione, o lo strapazzo gli facessero male; sia che la imprevista ingerenza di Olimpia entrasse a turbare l’equilibrio morale del vecchio; risultò a Lorenzo che il babbo non era in vena di far scandali e rumori.

— Io sono felice e orgoglioso, cari amici, di offrire la mia povera casa a questo, diremo così, congresso della pace. — Così cominciò il Botola col tono scherzevole per raddolcire l’aria e per avviare un discorso utile per tutti. — Vi prego di non guardare al disordine e alla polvere di questa mia povera casa; io sono uno straccivendolo e si sa... Tu, Lorenzo, siediti qua alla mia sinistra, e io mi metterò in mezzo a fare il presidente. Non manca nemmeno il campanello... — Il vecchietto toccò e fece squil-