Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/59

Anno 59

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Anno di Cristo LIX. Indizione II.
Pietro Apostolo papa 31.
Nerone Claudio imperad. 6.


Consoli


Lucio Vipstano Aproniano e Lucio Fontejo Capitone

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Comunemente da chi ha illustrato i Fasti consolari, il primo di questi consoli è chiamato Vipsanio. Ma, secondo le osservazioni del cardinal Noris1, il suo vero nome fu Vipstano; e ciò può ancora dedursi da un’iscrizione pubblicata anche da me2. In essa s’incontra Cajo Fontejo. Se ivi è designato il console di questi tempi, Cajo e non Lucio sarà stato il suo prenome. Giunse in quest’anno ad un orrido eccesso la più che maligna natura di Nerone. Erasi rimessa in qualche credito Agrippina sua madre, dappoichè le riuscì di superar le calunnie di Giunia Silana; ma dacchè entrò in corte Poppea Sabina, cominciò una nuova e più fiera guerra contro di lei. Aspirava questa ambiziosa ed adultera donna alle nozze del regnante, al che, vivente Agrippina, le parea troppo difficile di poter giungere, sì perchè Agrippina amava forte la saggia e paziente sua nuora Ottavia, e sì perchè non avrebbe potuto soffrire presso il figliuolo chi a lei fosse superiore negli onori e nel comando. Cominciò dunque Poppea a stimolar [p. 211 modifica]Nerone con dei motti pungenti, deridendolo, «perchè tuttavia fosse sotto la tutela; ed oh che bel padrone del mondo, che nè pure è padrone di sè stesso!» Passò poi in varie guise, e coll’aiuto dei cortigiani nemici di Agrippina, a fargli credere che la madre nudrisse de’ cattivi disegni contra di lui.

Ingegnavasi all’incontro anche Agrippina di guadagnarsi l’affetto del figliuolo contra di questa rivale; e fanno orrore le dicerie che corsero allora, delle quali Dione Cassio3 e Tacito4 fanno menzione, contraddicendo quegli autori anche in parlar di Seneca, che alcuni vogliono concorde coll’iniquo Nerone alla rovina della madre, ed altri parziale della medesima, anzi macchiato di un infame commercio con lei. La stessa battaglia fra quegli scrittori si osserva, rappresentando alcuni5, ch’ella con carezze nefande, ed altri colla fierezza e colle minacce procurava di rompere l’abbominevole attaccamento del figliuolo a Poppea. Se nulla è da credersi, è l’ultimo. Perciò Nerone annoiato cominciò a sfuggirla, e ad aver caro ch’ella se ne stesse ritirata nelle deliziose sue ville, benchè quivi ancora l’inquietasse, con inviar persone, le quali, in passando, le diceano delle villanie o delle parole irrisorie. Finalmente si lasciò precipitar nella risoluzione di torle la vita. Non si arrischiò al veleno, perchè non apparisse troppo sfacciato il colpo, siccome era avvenuto in Britannico; e perchè ella andava ben guernita di antidoti. Nulladimeno Svetonio scrive, che per tre volte tentò questa via, ma indarno. Pensò anche a farle cadere addosso il vôlto della camera, dov’ella dormiva, e vi si provò. Ne fu avvertita per tempo Agrippina, e vi provvide.

Ora Aniceto liberto di Nerone, presidente dell’armata navale, che si tenea sempre allestita nel porto di Miseno, siccome nemico di Agrippina, si esibì a[p. 212] Nerone di fare il colpo con una invenzione che parrebbe fortuita; e risparmierebbe a lui l’odiosità del fatto. Consisteva questa in fabbricare una galea congegnata in maniera, che una parte si scioglierebbe, tirando seco in mare chi v’era disopra, esempio preso da una simil nave già fabbricata nel teatro. Piacque la proposizione; fu preparato nella Campania l’insidiatore legno; e Nerone per celebrar i giuochi d’allegria in onor di Minerva, chiamati Quinquatrui, si portò al palazzo di Bauli, situato fra Baia, e Miseno, conducendo seco la madre sino ad Anzo, giacchè era qualche tempo che le mostrava un finto affetto, ed usavale delle finezze. Quivi stando Nerone si udiva dire: che toccava ai figliuoli il sopportare gli sdegni di chi avea lor data la vita, e che a tutti i patti volea far buona pace colla madre; acciocchè tutto le fosse riferito, ed ella, secondo l’uso delle donne facili a credere ciò che bramano, si lasciasse meglio attrappolare. Invitolla dipoi a venire ad un suo convito ad Anzo; ed ella v’andò, accolta dal figliuolo sul lido con cari abbracciamenti, e tenuta poi a tavola nel primo posto: il che maggiormente la assicurò. O sia, come vuol Tacito, ch’ella quivi si fermasse quella sola giornata, o che, al dire di Dione, si trattenesse quivi per alcuni giorni, volle ella infine ritornarsene alla sua villa. Nerone, dopo il lungo e magnifico convito, la tenne fino alla notte in ragionamenti ora allegri, ora serii, baciandola di tanto in tanto, ed animandola a chiedere tutto quel che voleva, con altre parole le più dolci del mondo. Accompagnata da lui sino al lido, s’imbarcò nella nave traditrice, superbamente addobbata, e andò servendola Aniceto. Era quietissimo il mare, e parve quella calma venuta apposta, per far conoscere ad ognuno, che non dalla forza de’ venti, ma dal tradimento procedea lo sfasciarsi della nave. Alla divisata ora cadde, secondo Tacito6, il tavolato di sopra, [p. 213 modifica]che soffocò Creperio Gallo cortigiano d’Agrippina; ma essa con Acerronia Polla sua dama d’onore si attaccò alle sponde, nè cadde. In quella confusione i marinai credendo che Acerronia fosse Agrippina, coi remi la uccisero. Ad Agrippina toccò solamente una ferita sulla spalla. Fu voltata in un lato la nave, perchè si affondasse; ed Agrippina cadutavi pian piano dentro, parte nuotando, e parte soccorsa dalle barchette che venivano dietro, si salvò, e fu condotta al suo palazzo nel lago Lucrino. Dione in poche parole dice, che, sfasciatasi la nave, Agrippina cadde in mare, nè si annegò. Più minuta, ma imbrogliata, è la descrizione che fa di questo fatto Tacito; ma, comunque succedesse, per consenso di tutti, Agrippina scampò la vita.

Ridotta nel suo palazzo, e in letto, per farsi curare, ricorrendo col pensiero tutta la serie di quel fatto, non durò fatica ad intendere chi le avesse tramata la morte. Prese la saggia determinazione di tutto dissimulare, ed immediatamente spedì Agerino suo liberto al figliuolo, per dargli avviso d’avere per benignità degli dii sfuggito un bravissimo pericolo, e per pregarlo di non farle visita per ora, avendo ella bisogno di quiete per farsi medicare. Nerone ch’era stato sulle spine la notte, aspettando nuova dell’esito degli esecrandi suoi disegni, allorchè intese come era passata la cosa, ed esserne uscita netta la madre, fu sorpreso da immensa paura, immaginandosi ch’ella potesse spedirgli contro tutta la sua servitù in armi, o muovere i pretoriani contra di lui, o comparire ad accusarlo in Roma al senato e al popolo. Sbalordito non sapeva allora in qual mondo si fosse. Fece svegliar Burro e Seneca, chiamandogli a consiglio, essendo ignoto s’eglino sì o no fossero prima consapevoli del delitto. Restarono un pezzo ambedue senza parlare, o perchè non osassero di dissuaderlo, o perchè credessero ridotte le cose ad un punto[p. 214] che Nerone fosse perduto, se non preveniva la madre. Nerone in fatti propose di levarla dal mondo; e Seneca, imputato da Dione d’aver dianzi dato questo medesimo consiglio, voltò gli occhi a Burro, come per domandargli che ne comandasse ai suoi pretoriani l’esecuzione. Ma Burro, non dimenticando che da Agrippina era proceduta la propria fortuna, prontamente rispose, che essendo obbligate le guardie del corpo a tutta la casa cesarea, e ricordandosi del nome di Germanico, non si potea promettere in ciò della loro ubbidienza; e che toccava ad Aniceto il compiere ciò ch’egli aveva incominciato. Chiamato Aniceto, non vi pose alcuna difficoltà, cosicchè Nerone protestò che in quel giorno egli riceveva dalle sue mani l’imperio; e quindi gli ordinò di prendere quegli armati che occorressero dalla guarnigione delle sue galee. Intanto arriva per parte di Agrippina Agerino. Sovvenne allora a Nerone un ripiego degno del suo capo sventato. Allorchè l’ebbe ammesso all’udienza, gli gittò a’ piedi un pugnale, e chiamò tosto aiuto, con fingere costui mandato dalla madre per ucciderlo, e il fece tosto imprigionare, e poi spargere voce, ch’egli s’era ucciso da sè stesso per la vergogna della scoperta sua mala intenzione. Intanto Agrippina, ch’era negli spasimi per non veder venire Agerino, nè altra persona per parte del figlio, in vece di essi mira entrar nella sua camera Aniceto, accompagnato da due suoi uffiziali, senza sapere se in bene o in male. Poco stette in avvedersene: un colpo di bastone la colse nella testa; e vedendo sguainata la spada da un di essi, saltando su gridò: «Ferisci questo,» mostrandogli il ventre. Fu di poi morta cou più ferite; e portatane la nuova a Nerone, non mancò chi disse di averla voluta vedere estinta e nuda, non fidandosi di chi gli riferì il fatto, e d’aver detto: «io non sapea d’avere una madre sì bella.» Tacito lascia in forse questa circostanza. Fu in quella stessa [p. 215 modifica]notte bruciato, secondo il costume d’allora, il suo corpo e vilmente seppellito. Ed ecco dove andò a terminare la sbrigliata ambizione di questa donna, figliuola di Germanico, nipote del grande Agrippa, pronipote d’Augusto, moglie e madre d’imperadori. Le iniquità da lei commesse per far salire il figlio al trono riportarono questa ricompensa dallo stesso suo figlio, mostro d’ingratitudine e di crudeltà.

Fece susseguentemente Nerone una bella scena, mostrandosi inconsolabile per la morte della madre, e dolendosi d’aver salvata la vita propria colla perdita della sua; giacchè voleva che si credesse aver ella inviato Agerino per ucciderlo, e ch’ella dipoi si fosse uccisa da sè stessa. Lo stesso ancora scrisse al senato con aggiungere una filza d’altre accuse contro la madre per giustificar sè medesimo, e con dire fra l’altre cose7: Ch’io sia salvo, appena lo credo, e non ne godo. Perchè quella lettera o era scritta da Seneca, o si riconobbe per sua dettatura, fu mormorato non poco di questo adulator filosofo, il quale compariva approvatore di sì nero delitto. Mostrò il senato8 di credere tutto: decretò ringraziamenti agli dii, e giuochi per la salvata vita del principe; e dichiarò il dì natalizio di Agrippina per giorno abbominevole. Il solo Publio Peto Trasea, senatore onoratissimo, dappoichè, fu letta quella lettera, uscì dal senato, per non approvare nè disapprovare, il che poi gli costò caro. Ma Nerone dopo il misfatto9 si sentì gran tempo rodere il cuore dalla coscienza; sempre avea davanti agli occhi l’immagine dell’estinta madre e gli parea di veder le furie che il perseguitassero colle fiaccole accese. Nè il mutar di luogo e l’andare a Napoli ed altrove, servì a liberarlo dall’interno strazio. Neppure s’attentava di ritornar più a Roma, temendo d’essere[p. 216] in orrore a tutti. Ma gl’ispiravano del coraggio i bravi cortigiani, facendogli anzi sperare cresciuto l’amore del popolo per aver liberata Roma dalla più ambiziosa e odiata donna del mondo. In fatti, restituitosi alla città, trovò anche più di quel che sperava, movendosi e grandi e piccoli per paura di un sì spietato principe a fargli onore. Andò dunque come trionfante al Campidoglio, persuaso ch’egli potea far tutto a man salva, dacchè tutti, o perchè l’amavano, o perchè avviliti, non sapeano se non adorare i di lui supremi voleri. Affettò ancora la clemenza con richiamare a Roma Giunia Calvina, Calpurnia, Valerio Capitone e Licinio Gabalo, esiliati già dalla madre. Ma in questo medesimo anno col veleno abbreviò la vita a Domizia sua zia paterna, con occupar tutti i suoi beni posti in quel di Baja e di Ravenna, prima ancora ch’ella spirasse. Quivi alzò de’ magnifici trofei, che duravano anche ai tempi di Dione10. Mirabil cosa nondimeno fu, che parlando molti liberamente di tali eccessi, ed uscendo non poche pasquinate, pure, egli, benchè dalle sue spie informato di quanto succedea, ebbe tal prudenza da dissimular tutto, e da non gastigar alcuno per questo, paventando di accrescere, altrimente facendo, il romore nel popolo.


Note

  1. Noris, Ep. Consul.
  2. Thes. Nov. Veter. Inser., p. 305, n. 3.
  3. Dio., lib. 90.
  4. Tac., lib. 14, cap. 2.
  5. Sueton. in Nerone.
  6. Tacitus, lib.14, cap. 3.
  7. Quintilianus, lib. 8 Instit.
  8. Tacitus, lib. 14, e. 12.
  9. Sueton. in Neron., c. 34.
  10. Dio., lib. 61.