Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/58
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Anno di | Cristo LVII. Indizione XV. Pietro Apostolo papa 29. Nerone Claudio imperad. 4. |
Consoli
Nerone Claudio Augusto, per la seconda volta, e Lucio Calpurnio Pisone
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Si sa da Svetonio, che Nerone non tenne se non sei mesi il consolato. Disputano gli eruditi, chi a lui ed al collega succedesse nelle calende di luglio. Nulla s’è potuto accertare finora. Non ci somministra l’antica storia alcun fatto rilevante sotto quest’anno. Tacito1 solamente racconta aver Nerone dato un congiario, o sia regalo, al popolo, e levata l’imposta di venticinque danari sopra la vendita che si faceva degli schiavi. Proibì ancora ai governatori delle provincie il fare spettacoli di gladiatori o di fiere, e simili altri giochi: perchè sotto questo pretesto molestavano forte le borse de’ popoli, o cercavano di coprire con tali magnificenze i lor latrocini. Fu accusata Pomponia Grecina, moglie di Aulo Plauzio, conquistator della Bretagna, perchè seguitava una superstizion forestiera. Hanno creduto, e fondatamente i nostri, ch’ella avesse abbracciata la religion cristiana, la quale in questi tempi s’andava dilatando per la terra, e massimamente in Roma. Fu rimessa tal giustizia, secondo l’antico costume, alla cognizion del marito, il quale, esaminato l’affare coi di lei parenti, la giudicò innocente. Potrebbe essere che appartenesse all’anno presente ciò che narra Dione2 con dire, che si fecero vari spettacoli in Roma. Uno di tori, che furono uccisi da uomini a cavallo, correnti a briglia sciolta contra di essi. Un altro, in cui quattrocento orsi e trecento lioni caddero al suolo trafitti dalle lance[p. 206] delle guardie a cavallo di Nerone. Anche trenta uomini dell’ordine de’ cavalieri romani combatterono nell’anfiteatro alla foggia de’ gladiatori, cioè di gente infame. Cresceva intanto lo sregolamento di Nerone ascoltando egli unicamente i consigli di chi adulava le di lui passioni, tutte rivolte ai piaceri anche più abbominevoli. Quei di Burro e di Seneca l’infastidivano, e in fine cominciò a metterseli sotto i piedi. Ottone, che fu poi imperadore, e in tutto simile era a Nerone nelle inclinazioni e nei vizii, siccome ancora gli altri collegati negl’infami di lui divertimenti, gli andavano di tanto in tanto dicendo: «Come mai soffrite che vi facciano i pedanti in questa età? E voi ve ne mettete suggezione, senza ricordarvi che siete l’imperadore, e che non essi, ma voi sopra d’essi avete potere!» Così imparò egli a sprezzare i consigli de’ buoni, e, voltata strada, si diede ad imitar Caligola, anzi a superarlo; parendogli cosa degna di un imperadore il non esser da meno d’alcuno neppur nelle cose mal fatte. Tuttavia in questi primi anni si andò ritenendo. I suoi erano finora vizii privati, e nocevano a lui solo, e a pochi altri, senza che ne patisse la repubblica. Si videro anche in lui alcuni atti di clemenza, intorno alla qual virtù gli avea Seneca composto e dedicato nell’anno precedente un trattato che ci resta. Ma fin dove il portasse la sua perversa natura, e questo abbandonamento di sè stesso, poco staremo a vederlo.
Anno di | Cristo LVIII. Indizione I. Pietro Apostolo papa 30. Nerone Claudio imperad. 5. |
Consoli
Nerone Claudio Augusto per la terza volta, e Valerio Messalla
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V’ha chi dà al secondo console il nome di Marco Valerio Messalla Corvino. Ed abbiamo bensì da Svetonio che il terzo consolato di Nerone durò solamente quattro mesi; ma non sappiamo chi a lui succedesse nelle calende di maggio. Potentissimo avvocato, ed insieme terribile e venale accusatore sotto l’imperador Claudio era stato Marco Suilio3, odiato perciò da molti, i quali, mutato il governo, si studiarono d’abbatterlo. Perchè egli credea suo nemico Seneca, ne sparlava a tutto potere, tassandolo di aver avuto disonesto commercio con Giulia figliuola di Germanico Cesare, per cui giustamente avesse patito l’esilio, e ch’egli fosse filosofo bensì di nome, ma ne’ fatti un solennissimo ipocrita, mentre scriveva sì dei precetti di filosofia, ed altro poi non facea che ammassar de’ milioni, e andar a caccia di testamenti, e di far usure innumerabili per l’Italia e per le provincie. Nel senato comparvero delle gravi accuse contro di Suilio; ma Nerone si contentò di confiscargli una parte de’ suoi beni e di relegarlo in Majorica e Minorica. Anche Cornelio Silla, verisimilmente quello stesso ch’era stato console nell’anno 52 ed aveva avuta in moglie Antonia figliuola di Claudio Augusto, fu relegato a Marsilia. Benchè pel suo genio timido e vile non fosse capace d’imprese grandi, pure gli emuli suoi fecero credere a Nerone, ch’egli, sotto una finta stupidità, covasse dei veri disegni di novità; e gli tesero anche tante trappole, che fu condannato, come dissi, all’esilio ed anche nell’anno 62 tolto dal mondo. Fu parimente accusato Pomponio Silvano d’aver fatto delle estorsioni durante il suo governo nell’Africa. Ebbe de’ buoni protettori, perchè lor fece sperar le molte sue ricchezze per eredità, giacchè privo era di figliuoli ed inoltrato molto nell’età. In questa maniera si salvò, con deludere poscia l’espettazione di chiunque facea i conti sulla sua roba, per essere sopravvivuto a tutti. Potrebb’essere un d’essi Ottone, che fu poi imperadore, e forse anche il buon Seneca, da noi veduto in concetto d’attendere a simili prede. Era in questi tempi andato all’eccesso l’orgoglio[p. 208] e l’insolenza dei pubblicani, cioè de’ gabellieri di Roma, e ne mormorava forte il popolo. Saltò in capo a Nerone di levar via, tutt’i dazii e le gabelle, per aver la gloria di fare un bellissimo regalo al genere umano; e se ne lasciò intendere in senato. Lodarono i senatori assaissimo la grandezza dell’animo suo; ma appresso gli fecero toccar con mano che senza il nerbo delle rendite pubbliche non potea sussistere l’imperio romano, tanto ch’egli smontò. Furono nondimeno fatti dei buonissimi regolamenti in questo proposito per benefizio dei popoli con reprimere le avanie di quelle sanguisughe: regolamenti nondimeno ch’ebbero corta durata, con ripullulare gli abusi. Tuttavia confessa Tacito, che molti se ne levarono, nè al suo tempo si pagavano più non so quante esazioni introdotte al passaggio de’ ponti, e per le navi.
Ebbe principio in quest’anno l’amoreggiamento di Nerone con Poppea Sabina, donna di gran nobiltà, di pari bellezza e ricchezza. Graziosa nel parlare, vivace d’ingegno, e modesta in apparenza, di rado si lasciava vedere per Roma, e sempre col volto mezzo coperto, per non saziare affatto la curiosità di chi la riguardava. Le mancava solo il più bello, cioè l’onestà. Bastava essere liberale per guadagnarsi i di lei favori. Era stata moglie di Rufo Crispino cavaliere romano, a cui partorì un figliuolo; ma innamoratosene Ottone, che fu poscia imperadore, non gli fu difficile colla bizzarria delle comparse, colla gioventù e col credito d’essere uno dei più confidenti dell’imperadore, di distorla dal marito, e di prenderla egli in moglie: chè di questi bei tiri abbondava Roma pagana. Ma il vanaglorioso scioccone non potea ritenersi presso Nerone dal far elogi incessanti della nobiltà e dell’avvenenza della nuova moglie, chiamando sè stesso il più felice degli uomini, per trovarsi in possesso di tal donna. Tanto andò ripetendo questa canzone, che invogliossi di vederla, e il vederla fu lo stesso che innamorarsene perdutamente. Mostrossi anch’ella sul principio presa della di lui bellezza; poi colla ritrosia, e col fingersi troppo contenta del marito Ottone, e di non apprezzar molto chi era di spirito sì basso da compiacersi dell’amore di una vil serva, cioè di Atte liberta, tal corda gli diede, che sempre più andò crescendo la fiamma. Ne provò ben presto gli effetti lo stesso Ottone con restar privo della confidenza di Nerone, e col non essere ammesso alla di lui udienza, nè al corteggio. Di peggio potevagli avvenire, se Seneca, amico suo, non avesse impetrato, che Nerone l’inviasse per presidente della Lusitania, parte di cui era il Portogallo d’oggidì, dove con buone operazioni per dieci anni risarcì l’onore ch’egli avea perduto in Roma. Da lì innanzi Poppea trionfò nel cuor di Nerone. Dione4 pretende, che per qualche tempo Ottone e Nerone andassero d’accordo nel possedere costei; ma molto non sogliono durare sì fatte amicizie. Risvegliossi in quest’anno5 la guerra fra i Romani e i Parti, per cagion dell’Armenia. Vologeso re d’essi Parti pretendea di mettervi per re Tiridate suo fratello; i Romani voleano disporne a lor piacimento, come s’era fatto in addietro. Domizio Corbulone, che già dicemmo il più valente generale di Roma in questi tempi, comandava in quelle parti l’armi romane. Ma, più che i Parti, recava a lui pena la scaduta disciplina delle soldatesche sue, per lunga pace impigrite e dimentiche degli ordini della vecchia milizia. La prima sua cura adunque fu quella di cassare gl’inutili, di far nuove leve, e di ben disciplinar la sua gente, usando del rigore ch’era a lui naturale. S’impadronì egli poi di Artasata capitale dell’Armenia e di Tigranocerta; ed avendo voluto Tiridate rientrare nell’Armenia, il ripulsò, divenendo[p. 210] in fine padrone affatto di quella contrada. Probabilmente non succederono tutte queste imprese nell’anno presente. L’Occone e il Mezzabarba6, che riferiscono a quest’anno la pace universale, e il tempio di Giano chiuso in Roma, come apparisce da molte medaglie, andarono a tastoni in questo punto di storia. Tacito racconta in un fiato varii avvenimenti tanto dell’Armenia che della Germania, ma non succeduti tutti in un sol anno.