Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/16
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Anno di | Cristo xvi. Indizione iv. Tiberio imperadore 3. |
Consoli
Tito Statilio Sisenna Tauro e
Lucio Scribonio Libone.
Al primo d’essi consoli, cioè a Statilio, ho aggiunto il pronome di Tito, ricavandosi ciò da un’iscrizione riferita dal Fabretti1. Così ancora avea scritto il Panvinio. Al secondo, cioè a Libone, fu sostituito nelle calende di luglio Publio Pomponio Grecino, come consta dalla iscrizione suddetta e dal poeta Ovidio2. In Germania3 al fiume Weser due fatti d’armi seguirono fra i Romani sotto il comando di Germanico, e i Germani regolati da Arminio. In amendue la vittoria si dichiarò per li Romani. Avea Germanico fatto preparar mille legni tra grandi e piccoli nell’isola di Batavia (oggidì Olanda) per assalire dalla parte dell’Oceano i nemici. Sul fine della state, imbarcata che fu la copiosa fanteria, con alquanto di cavalleria, a forza di remi e di vele si mosse la flotta per entrar nel paese nemico. V’era in persona lo stesso Germanico. Per una tempesta insorta ebbe a perir tutta quella gente, e gran perdita si fece d’armi, cavalli e bagaglio. Ma quando i Germani per questo sinistro caso de’ Romani si credeano in istato di vincere, Germanico spedì Cajo Silio con trentamila fanti e tremila cavalli contra di loro; il che tal riputazione acquistò ai Romani, tal terrore diede ai Germani che cominciarono ad inclinar alla pace. Avrebbe potuto Germanico dar l’ultima mano a quella guerra, se Tiberio con replicate lettere ed istanze non l’avesse richiamato a Roma con esibirgli il consolato e il trionfo già a lui accordato. Al geloso e diffidente Tiberio premeva forte di staccar Germanico da quelle legioni, paventando egli sempre delle novità a sè pregiudiziali, pel sommo amore che quei soldati professavano a sì grazioso generale. Ancorchè Germanico s’accorgesse delle torte mire d’esso suo zio, pure si accomodò ai di lui voleri, ed impreso il viaggio d’Italia, forse arrivò in Roma sul fine dell’anno. Fece4 Tiberio nel presente accusare in senato Lucio Scribonio Libone, giovane, diverso dal console, quasichè macchinasse delle novità. Prevenne questi la sentenza della morte[p. 52] con uccidersi da sè stesso. Avea già cominciato Tiberio a permettere i processi contra delle persone anche più illustri per sole parole indicanti mal animo o sedizione contra del governo e della sua persona: laddove prima di salire sul trono avea sempre sostenuto5, «che in una città libera dovea ciascuno goder la libertà di dire e pensare ciò che gli piacesse.» Questa bella massima, divenuto che fu principe, perdè presso lui di grazia. Siccome ancora quell’altra ch’egli proferì un dì nel senato con dire, «che se si cominciasse ad ammettere accuse di chi parlasse contra del principe o del senato, andrebbe in eccesso il processar persone; perchè chiunque ha dei nemici, correrebbe a denunziarli come rei di questo delitto.» Questi disordini appunto accaddero da lì innanzi sotto il tirannico di lui governo.
Era in gran voga per questi tempi in Roma la strologia giudiciaria ed anche la magia6. Della prima si dilettava lo stesso Tiberio, tenendo in sua casa uno di questi venditori di fumo, chiamato Trasillo, e volendo ogni dì udire da lui quel che dovea succedere in quella giornata. Trovandosi beffato da costui, se ne sbrigò col farlo uccidere; poi perseguitò tutti gli altri fabbricatori di pronostici. E perchè non erano eseguiti gli editti intorno a questi impostori, chiunque de’ cittadini romani fu per tal cagione denunziato dipoi, n’ebbe per castigo lo esilio. Solennemente ancora fu vietato a chicchessia il portar vesti di seta, perchè di spesa grave, non facendosi allora seta in Europa; siccome fu parimente proibito il tener vasi d’oro, se non per valersene ne’ sagrifizii; e nè pur furono permessi vasi d’argento con ornamenti d’oro. Affettava Tiberio la purità della lingua latina, e soprattutto usava i vocaboli antichi d’Ennio e di Plauto. Essendogli in un editto scappata una parola non latina, n’ebbe scrupolo, e volle ascoltare il parere de’ più dotti grammatici, i quali quasi tutti la dichiararono buona, dacchè era stata usata da sì gran dottore e principe, qual era Tiberio. Con tutto ciò saltò su un certo Marcello, dicendo, «che potea ben Cesare dar la cittadinanza di Roma agli uomini, ma non già alle parole;» bolzonata che ferì non poco Tiberio, e nondimeno seppe egli, secondo il suo costume, ben dissimularla. Proibì ancora ad un centurione il fare testimonianza nel senato con parole greche, tuttochè egli in quello stesso luogo avesse udito molte cause trattate in greco, ed egli medesimo talvolta si fosse servito dello stesso linguaggio per interrogare.