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51 ANNALI D'ITALIA, ANNO XVI. 52

il Panvinio. Al secondo, cioè a Libone, fu sostituito nelle calende di luglio Publio Pomponio Grecino, come consta dalla iscrizione suddetta e dal poeta Ovidio1. In Germania2 al fiume Weser due fatti d’armi seguirono fra i Romani sotto il comando di Germanico, e i Germani regolati da Arminio. In amendue la vittoria si dichiarò per li Romani. Avea Germanico fatto preparar mille legni tra grandi e piccoli nell’isola di Batavia (oggidì Olanda) per assalire dalla parte dell’Oceano i nemici. Sul fine della state, imbarcata che fu la copiosa fanteria, con alquanto di cavalleria, a forza di remi e di vele si mosse la flotta per entrar nel paese nemico. V’era in persona lo stesso Germanico. Per una tempesta insorta ebbe a perir tutta quella gente, e gran perdita si fece d’armi, cavalli e bagaglio. Ma quando i Germani per questo sinistro caso de’ Romani si credeano in istato di vincere, Germanico spedì Cajo Silio con trentamila fanti e tremila cavalli contra di loro; il che tal riputazione acquistò ai Romani, tal terrore diede ai Germani che cominciarono ad inclinar alla pace. Avrebbe potuto Germanico dar l’ultima mano a quella guerra, se Tiberio con replicate lettere ed istanze non l’avesse richiamato a Roma con esibirgli il consolato e il trionfo già a lui accordato. Al geloso e diffidente Tiberio premeva forte di staccar Germanico da quelle legioni, paventando egli sempre delle novità a sè pregiudiziali, pel sommo amore che quei soldati professavano a sì grazioso generale. Ancorchè Germanico s’accorgesse delle torte mire d’esso suo zio, pure si accomodò ai di lui voleri, ed impreso il viaggio d’Italia, forse arrivò in Roma sul fine dell’anno. Fece3 Tiberio nel presente accusare in senato Lucio Scribonio Libone, giovane, diverso dal console, quasichè macchinasse delle novità. Prevenne questi la sentenza della morte[p. 52] con uccidersi da sè stesso. Avea già cominciato Tiberio a permettere i processi contra delle persone anche più illustri per sole parole indicanti mal animo o sedizione contra del governo e della sua persona: laddove prima di salire sul trono avea sempre sostenuto4, «che in una città libera dovea ciascuno goder la libertà di dire e pensare ciò che gli piacesse.» Questa bella massima, divenuto che fu principe, perdè presso lui di grazia. Siccome ancora quell’altra ch’egli proferì un dì nel senato con dire, «che se si cominciasse ad ammettere accuse di chi parlasse contra del principe o del senato, andrebbe in eccesso il processar persone; perchè chiunque ha dei nemici, correrebbe a denunziarli come rei di questo delitto.» Questi disordini appunto accaddero da lì innanzi sotto il tirannico di lui governo.

Era in gran voga per questi tempi in Roma la strologia giudiciaria ed anche la magia5. Della prima si dilettava lo stesso Tiberio, tenendo in sua casa uno di questi venditori di fumo, chiamato Trasillo, e volendo ogni dì udire da lui quel che dovea succedere in quella giornata. Trovandosi beffato da costui, se ne sbrigò col farlo uccidere; poi perseguitò tutti gli altri fabbricatori di pronostici. E perchè non erano eseguiti gli editti intorno a questi impostori, chiunque de’ cittadini romani fu per tal cagione denunziato dipoi, n’ebbe per castigo lo esilio. Solennemente ancora fu vietato a chicchessia il portar vesti di seta, perchè di spesa grave, non facendosi allora seta in Europa; siccome fu parimente proibito il tener vasi d’oro, se non per valersene ne’ sagrifizii; e nè pur furono permessi vasi d’argento con ornamenti d’oro. Affettava Tiberio la purità della lingua latina, e soprattutto usava i vocaboli antichi d’Ennio e di Plauto. Essendogli in un editto scappata una parola

  1. Ovidius, lib. 4. Ep. 9 Trist.
  2. Tacitus, Annal. lib. 2. cap. 9 et seq.
  3. Dio., lib. 57.
  4. Sueton. in Tiber., cap. 27.
  5. Dio., ibidem.