Alessandro Manzoni (De Sanctis)/Lezioni/XV. Don Abbondio

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XV. Don Abbondio

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Lezione XV

[DON ABBONDIO]

Abbiamo lasciato don Abbondio con una frase in bocca, pronunciata in capo alla scala, dopo il dialogo con Perpetua: — «Per amor del cielo!...» — .

A chi ha letto attentamente quel dialogo non gli è dovuto sfuggire un salto che v’è qui, tra le altre parole pronunciate antecedentemente da don Abbondio: — «Eh! ci vuol altro cerotto, ci vuol altro cerotto, ci vuol altro cerotto» — , e la frase: — «Per amor del cielo!» — . C’è un salto evidentemente; ma che cosa è successo di nuovo in quel frattempo? Non altro che don Abbondio ha voltato le spalle a Perpetua, e si è avviato per salire alla sua stanza da letto (le case in quel tempo, come ora ne’ villaggi, erano divise in piani, ed avevano il salotto da pranzo a pianterreno, e la stanza da letto sopra). Quando don Abbondio è giunto in capo alle scale dice dunque: — «Per amor del cielo!...» — . C’è un salto dalle ultime parole; c’è stata in lui in quel frattempo una storia intima che bisogna rivelare per ispiegarci quel salto.

Ecco quell’analisi che io vi fo, ed alla quale io richiamo la vostra attenzione, perché leggendo un autore, siate nel caso di conoscere e riempiere di simili lacune.

Ci è dunque di nuovo in don Abbondio una interna espressione non espressa al di fuori, ma che ha prodotto quella frase. E qui notate che la differenza tra l’artista ed il critico è questa: l’artista non rivela il mondo interno se non nell’atto della vita, [p. 287 modifica]in quanto cioè esso ha una espressione, epperò la sostanza dell’artista è la forma; il critico al contrario prende per punto di partenza quella forma, quella frase, nella quale [si] sia prodotto il mondo interno, e rifà il cammino, investigando tutti i moti psicologici che han prodotto quella espressione. E precisamente il lavoro dell’arte è come quello della natura; la natura vi mostra infatti la produzione, ma non le forze produttive: la produzione, che si può dire la forma di tutte quelle forze latenti che stanno al di dentro; e similmente l’artista afferma tutto ciò che è rappresentazione di movimenti intimi. Ma come il filosofo, pigliando per base il visibile si gitta nell’invisibile, e spiega così tutto ciò che non è forma, ma che è rappresentato dalla forma, così il critico rimpetto al lavoro di un artista, prende la forma in cui quello ha affermata un’immagine e cerca di riaffermare tutte quelle forze latenti, tutti i movimenti psicologici contenuti in essa. In due parole, l’artista coglie il mondo interno in un di fuori, il critico nel di fuori il mondo interno: l’uno, il critico, lavora dalla forma a risalire al mondo interno, l’altro dal mondo interno salta alla forma.

Applichiamo ora tutto questo alla frase: — «Per amor del cielo!...» — .

Ci siam dimandato in principio: — Che cosa è accaduto di nuovo in don Abbondio? — .

È accaduto che don Abbondio, salendo le scale, è fuori già delle impressioni esterne violente; è fuori delle pressioni di Perpetua, che gli ha cavato il segreto di bocca: l’immaginazione esaltata si è attutita, il bisogno di confidarsi è cessato, ed è sorta in lui novellamente la prudenza, ed egli dice in se stesso: — Che ho fatto! che bestia sono stato di confidare tutto a Perpetua, quella cicalona, in un affare che a divulgarlo ci va la vita!— . Don Abbondio si pente d’aver parlato. E notate che è naturale nelle persone timide il pentirsi d’aver fatto una cosa. L’uomo che non subisce la pressura delle impressioni esterne, e che fa di tutto per spezzarle con la coscienza di quello che fa, alla fin dei conti, quando rimane solo, anche che non le avesse superate, dice: — Ho fatto quello che ho potuto — ; e non se [p. 288 modifica]ne pente. L’uomo al contrario che subisce le impressioni esterne, ed è regolato da esse, opera senza coscienza e quasi fuori di sé, ond’è che dopo nasce in lui il pentimento di quel che ha fatto senza il concorso della sua volontà, e dice: — Che ho fatto!— . E voi sentite la veracità di questa posizione.

Ecco dunque ciò che è avvenuto di nuovo in don Abbondio, e che lo ha fatto voltare indietro e dire quella frase: — «Per amor del cielo!...»— ; egli si è pentito d’aver parlato.

E c’è un’altra osservazione; quelle parole furono dette «con tuono lento e solenne»: parole che sono il complemento di quella frase; e voi sapete che l’uomo usa il tono lento e solenne quando vuol fare a chi lo ascolta una grave impressione.

Don Abbondio dopo tutto questo va a letto, ed è soltanto ora che incomincia a fare delle consultazioni, incomincia a fare quello che un uomo di polso avrebbe fatto prima, prendere cioè un partito. Qualche cosa doveva fare il domani, perché era il giorno appuntato per il matrimonio; ond’è che tutti que’ moti intimi, che prima si son presentati in lui come istinti, che non han potuto prendere forma perché confusi nella paura sotto la violenza esterna, si presentano ora a don Abbondio sotto la forma chiara del pensiero, ond’egli pensa.

«Non tener conto della intimazione ribalda, né delle minacce, e fare il matrimonio, era un partito che egli non volle nemmen porre in deliberazione. Confidare a Renzo l’occorrente, e cercare con lui qualche mezzo... Dio liberi!» (ed è questa l’impressione che spezza il ragionamento); perché: « — Non si lasci scappar parola... altrimenti... ehm! — , aveva detto un di quei bravi, e al sentirsi rimbombare quell’ 'ehm!' nella mente don Abbondio, non che pensare a trasgredire una tal legge, ma si pentiva anche dell’aver ciarlato con Perpetua».

Qui vedete, come ho detto, i moti istintivi prendere una forma conscia. Ma bisognava prendere una risoluzione; or io dimando: — Poteva don Abbondio prendere una risoluzione? — .

Gli uomini timidi, o signori, ne sono incapaci, perché l’istinto li porta a trovare i mezzi termini: il bisogno di don Abbondio era di sfuggire alla pressura del momento, e rimettere il resto al [p. 289 modifica]caso; bisogno che, come lui, sentono tutti gli uomini deboli. I proverbii vi rappresentano per lo più il carattere del popolo ed anche delle persone : guardate quel popolo virtuoso, ch’è il popolo inglese, la cui essenza è nell’attività e nel lavoro, e quel popolo vi dice: «Il tempo è moneta»; mentre v’ha un altro popolo, che ama la voluttà del dolce far niente e che dice : «Il tempo è galantuomo».

Ora chi ha volontà forte attende al suo destino da se stesso, e chi ha « mezza volontà» destina in sua vece il tempo e dice: « Il tempo è galantuomo», lo che vuol dire confidare nella fortuna; questo è il sentimento de’ mezzi caratteri, delle mezze volontà.

Don Abbondio dopo di avere agitato varii partiti, e di averli tutti rifiutati, si fissò appunto ad una mezza risoluzione; l’importante, egli pensò, è di « guadagnar tempo, dando ciance a Renzo. Gli sovvenne a proposito, che pochi giorni mancavano al tempo proibito per le nozze, — e se posso», pensava, «tenere a bada per questi pochi giorni quel ragazzone, ho poi due mesi per me; e in due mesi e’ può nascere di gran cose — ».

Il Manzoni non esprime, ma accenna appena, e per sommi capi, tutto questo lavoro interno di don Abbondio. Ma noi dobbiamo cercare di vedere in esso il motivo comico, e qui richiamo la vostra attenzione. Dopo di aver pensato, don Abbondio parla solo; finge che Renzo gli sia dirimpetto e dice: — « Tu pensi all’amorosa; ma io penso alla pelle : il più interessato son io, lasciando stare ch’io sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo » — . Questa è la frase o l’espressione artistica; ma analizziamo un poco che cosa è questa frase, che cosa c’è in quella espressione.

Quell’espressione, o signori, è l’apologia che fa don Abbondio di se stesso : egli ha presa quella mezza risoluzione, ed or cerca di difenderla, e la scusa a se stesso, mentre non è venuto nessuno ad accusarlo; ma lo fa, sapete perché? Per persuadere a se stesso che quel che ha fatto lo ha fatto bene. Ma che bisogno c’è di questa scusa, che bisogno c’è di questa persuasione? [p. 290 modifica]
Miei cari, c’è in fondo alla nostra coscienza un principio di giustizia; e don Abbondio in fondo non è traviato: egli sente che l’indomani avrebbe fatto un torto a Renzo. Un torto, perché se gli uomini forti fanno torto con la violenza, i deboli lo fanno col raggiro e con i pretesti. Don Abbondio aveva voglia di pensare che Renzo era un ignorante e che non sapeva di latino, e che era facile imbrogliarlo; ma non poteva impedire che una voce dal di dentro gli dicesse: — E tutto ciò sta bene? — . Ora avviene che quando nel fondo di una coscienza c’è quel principio di rettitudine, il quale deve lottare con la paura, avviene, diceva, che non si dà forma precisa a quella voce della coscienza, che anzi si cerca di seppellirla, e si lascia parlare, e si dà ascolto soltanto all’altra voce più lusinghiera che emerge dal bisogno attuale. Ma la vendetta della coscienza non si lascia aspettare, perché sempre quella seconda voce contiene la prima; e di fatti don Abbondio ha bisogno di giustificarsi, e questo giustificarsi è appunto la risposta a quella voce, di cui egli non ha chiara coscienza. Epperò la frase ultima di don Abbondio è di forma complessa, è mezzo espediente, e mezza giustificazione.


Perché in quella frase don Abbondio dice quello che con latino maccaronico si direbbe: «Prima caritas principiat ab ego»; e questa persuasione che gli è dettata dalla paura fa ridere coloro che sono fuori ed al di sopra della sua temperatura. Quindi il riso benigno che è eccitato da quelle parole: «Tu pensi all’amorosa; ma io penso alla pelle... Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo».

Don Abbondio finalmente chiude gli occhi al sonno: ma l’autore non lo lascia ancora senza dargli l’ultima pennellata. Dorme, «ma che sonno! che sogni!». Tutti gli avvenimenti gli si ripresentano ingranditi dalla paura. Ora, miei cari, che cosa ha di particolare il sogno? Nella veglia ci sono certi movimenti intimi, che noi non osiamo di rivelare a noi stessi per un certo pudore naturale; noi abbiamo vergogna di dare loro forma di pensiero, perché avremmo vergogna nel pensare d’aver [p. 291 modifica]commesso tali vigliaccherie. Ora avviene che una volta che l’immaginazione rimane libera, nel sogno vengono innanzi que’ tali moti che nella veglia non riveliamo a noi stessi. Certamente don Abbondio non era stato inseguito dai bravi, né da alcuno; nessuno gli ha detto: — Ti tiro una schioppettata — ; ma perché egli dopo il dialogo con i bravi, tornato a casa sua apre la porta di casa frettolosamente e chiude presto e diligentemente, come se fosse inseguito? perché dice a Perpetua, quando questa gli consigliava di confidare il tutto all’arcivescovo: — «Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena... Dio liberi!, l’arcivescovo me la terrebbe egli via?» — ? Sono tutti questi de’ sentimenti interni che scappano qua e là nel discorso, e che vi fanno intendere che nell’animo di don Abbondio ve ne sono molti, e che nel parlare sono appena accennati. Ora nel sogno di don Abbondio v’è tutta l’esagerazione della paura; tutti que’ moti intimi sono rivelati in modo sconnesso ed accavallato, come avviene sempre quando una fantasia è esaltata: e l’autore vi dice tutto questo mirabilmente ed in poche parole: «ma che sonno! che sogni! Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottoli, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate».

Qui finisce lo sviluppo del comico di don Abbondio.

Mi direte: — Don Abbondio riesce ad ingannare Renzo? — .

Cesso dal farvi quest’analisi minuta che ho fatto finora, perché si trattava del primo ritratto di don Abbondio; vi dirò soltanto il motivo comico. Don Abbondio riesce a fare quello che gli ha dettato la sua intelligenza; ma per riuscire poi ad ingannare un altro, la prima qualità è di avere sangue freddo, faccia tosta, e sopratutto rendersi padrone dell’uomo col quale si parla, e che si cerca d’ingannare. Per far tutto questo e per riuscirci, don Abbondio avrebbe dovuto snaturare se stesso: egli, noi lo sappiamo, non è dei «forti», ma de’ «mezzi caratteri», egli è debole, ed è però capace di ricevere ma non di fare impressione; che anzi non ha forza di padroneggiare se stesso perché, parlando, avviene che c’è contraddizione tra le parole che dice e tutto l’accompagnamento di esse. Egli capisce che non può cacciar da sé l’impressione, ed il mistero scappa dalla faccia, da’ suoi [p. 292 modifica]occhi grigi, che mentre parla vanno scappando qua e là, come se avesser paura d’incontrarsi con le parole che gli escono di bocca; da tutto il suo parlare insomma erompe il sentimento del segreto che invece di calmare Renzo, lo rende vieppiú sospettoso. Vi ricordate quando Renzo in gran gala, in abito da sposo comparve davanti al curato e disse: — «Son venuto signor curato, per sapere a che ora le convenga che noi ci troviamo in chiesa» — ? Ed egli che risponde: — «Di che giorno volete parlare?» — . Questo «far lo gnorri», come dicono i Fiorentini, è destinato decisamente a mettere in sospetto Renzo; don Abbondio scopre così le sue batterie fin dal principio. E ci è un momento quando il mistero è quasi svelato, quando Renzo par che si rabbonisca, e don Abbondio pigliando un po’ d’animo dice: — «Eh!... quando penso che stavate così bene; che cosa vi mancava? Vi è venuto il grillo di maritarvi...» — .

Ecco perché don Abbondio non riesce, per difetto di sangue freddo.

Renzo infatti, che ha osservato la contraddizione tra le parole del curato, esce, tira da Perpetua de’ mozziconi di frasi, per le quali si riconferma che c’è un mistero, torna e strappa dalla bocca di don Abbondio, come un cavadenti che gli strappasse un dente, il nome di don Rodrigo. Renzo se ne va dopo, e don Abbondio, rimane gridando: — «Perpetua! Perpetua!...» — .

Qui finisce quel che riguarda don Abbondio. Vi dico ora rapidamente i passaggi dei capitoli seguenti, per riafferrare questo personaggio al capitolo Vili.

Renzo, dopo il consiglio di Agnese, andò da quel tale dottore Azzeccagarbugli colle galline, e tornò, come sapete, senza aver concluso nulla. Il padre Cristoforo andò a parlare a don Rodrigo, e non concluse niente nemmeno lui; ond’è che Agnese pensa, ed insieme a Renzo risolvono di fare quel tale matrimonio di sorpresa. Tutto ciò portato largamente è materia di parecchi capitoli fino all’VIII, nel quale ritroviamo don Abbondio che leggeva una orazione del Borromeo e diceva: — «Cameade! Chi era costui?» — . Don Abbondio dunque rientra in iscena per la cospirazione di Renzo ed Agnese. [p. 293 modifica]Questo capitolo VIII è comico per eccellenza; ma il motivo comico è differente da quello sviluppato finora.

La prima commedia (permettetemi che la chiami così) la prima commedia di don Abbondio è «commedia di carattere», perché tutto quello che avviene deve avvenire come conseguenza, poste quelle tali inclinazioni, posti quei tali caratteri individuali. Il capitolo VIII al contrario è «commedia d’intrigo», perché in esso entra il «caso» o «l’accidente», per il quale il corso ordinario delle cose è cambiato; e l’accidente è macchina finale.

Non intendete però l’intrigo della letteratura antica, dove l’accidente, od il Deus ex machina, sta come fatto straordinario capace di svegliar la maraviglia degli spettatori, e tener desta così la loro attenzione; ond’è che quegli scrittori abusavano dell’intrigo per quel fine. Era quella la commedia delle balie e de’ ragazzi.

Venne poscia come reazione a quella la commedia di carattere, ch’è il mondo spiegato non come effetto dell’accidente, ma come conseguenza immediata dello sviluppo delle passioni umane. Ed il Molière va nella schiera degli autori di questa scuola. Ed il progresso fatto da questa commedia si è che gli eventi si spiegano non con l’intervento del caso, ma come vi diceva, quale effetto delle passioni umane.

Il XIX secolo è reazione anche in certo senso della commedia di carattere, perché i lavori de’ moderni scrittori tendono a conciliare l’una e l’altra forma. Ed è vero, o signori, che ne’ fatti umani c’è spesso l’accidente che dá un indirizzo differente alle passioni, ond’è che da esso il corso ordinario delle cose è cambiato.

In Germania, in conformità della tendenza del secolo, ed anche come reazione, sono giunti a creare tutto un mondo fantastico, come in Goethe.

Ma gl’italiani non furono buoni a giungere fino ad esso, perché il nostro cielo è troppo puro per attingere quelle nebulosità. E se avverrá che l’italiano afferri il fantastico, tanto meglio. Ma ora invece del fantastico, nella letteratura italiana [p. 294 modifica]è comparso il «caso» per circoscrivere quel che v’ha d’assoluto nella commedia di carattere.

Il Manzoni nel suo romanzo ha cercato d’intrecciar queste due forme, ma è curioso che il romanzo fino ad un certo punto è di carattere, e per un altro punto d’intreccio. E di fatti fino a che l’Innominato non si converte, il romanzo si può dire di carattere: fin dopo il rapimento di Lucia, quando essa è venuta sotto la protezione del Borromeo, e ch’è stata restituita alla madre, fin qui l’azione viene dalla iniziativa umana. Ma quando poi l’Innominato si converte, e che Lucia è in salvo e che più o meno si sa come quell’azione deve finire, l’iniziativa umana finisce, sorge quasi un nuovo romanzo, nel quale il movimento storico nasce da certi «accidenti storici», come la peste, la carestia, l’insurrezione di Milano, ed i personaggi del Manzoni si trovano in essi, e la storia ch’era incominciata col «carattere», finisce con l’«intrigo».

Vi sono dunque nel romanzo del Manzoni le due forme o i due caratteri della commedia, ma si può dire che l’autore li ha fatti paralleli, mentre essi andavano intrecciati; ma questo è un difetto del Manzoni che esamineremo a suo tempo.

Nel capitolo VIII dunque v’ha tre azioni nascenti da tre gruppi di persone; azioni che riescono contrarie all’intento de’ personaggi per un «accidente». Da una parte abbiamo don Rodrigo scoperto dal padre Cristoforo in quel colloquio avuto nel suo palazzotto, e che impuntito maggiormente per la resistenza del frate, ricorre alla violenza, e pensa di far rapire Lucia da’ suoi bravi. Dall’altra abbiamo il padre Cristoforo che nel palazzotto istesso di don Rodrigo s’è incontrato con quel vecchio servitore, suo conoscente, e che, viste le sue buone intenzioni, lo ha pregato di tener d’occhio a quel che si faceva, e tenerlo avvisato: ed il servitore, saputo del ratto che si preparava, spicca un fanciulletto per avvisare il padre. E finalmente abbiamo Agnese, Renzo e Lucia che pensano di fare quella tale sorpresa a don Abbondio. Sono tre imprese queste, calcolate con tutti gli estremi della prudenza umana. Il ratto di Lucia è combinato da don Rodrigo col Griso. Il Griso travestito da pel [p. 295 modifica]pellegrino esplora la posizione della casa, ed altri bravi sotto la sua direzione vanno razzolando tutto il giorno pel paese, ed a quel fine. Si prevede tutto. Il padre Cristoforo, che s’era messo d’accordo col servitore, ed avvertito da lui, manda in fretta per avvertire Lucia ed Agnese. Lucia, Renzo ed Agnese hanno anch’essi preveduto tutto quello che la prudenza poteva dettare, e con quell’idea immaginata da Renzo, da far onore ad un giureconsulto. Tutto pareva andare a seconda, ma ecco che interviene il «caso». I bravi vanno a rapir Lucia, quando questa con Renzo ed Agnese va a sorprendere don Abbondio; Menico giunge quando Lucia s’era già incamminata, e trova invece il diavolo in casa; e sapete chi è il Deus ex machina? Il Deus ex machina è il sagrestano Ambrogio, il quale al grido di don Abbondio che chiama aiuto, con le brache sotto il braccio corre al campanile, ed afferrata la corda della più grossa campana, tira giú e suona a martello finché non vede un buon numero di gente accorsa.

Ed il comico, o signori, è che quella campana si ripercuote a’ due estremi del paese, essa è sentita con terrore ugualmente da’ bravi da una parte e da Lucia, Renzo ed Agnese dall’altra: avviene un timor panico generale, e tutti scappano; sicché un accidente naturale, vista la qualità di Ambrogio ch’era sagrestano, viene ad aggiungere una tinta comica all’insuccesso delle tre azioni.

Questo è l’intrigo del capitolo Vili: e se vi dovessi dire il mio avviso, vi direi che Manzoni non è stato felice nel rappresentare la conclusione, come egli è felice e maestro nel rappresentare i dettagli. Gli manca la forza sintetica per fame scaturire il comico. Essendo il «caso» mezzo per togliere al corso della vita la sua forma abituale, avrebbe dovuto l’autore in quella situazione straordinaria farci vedere la contemporaneità de’ movimenti de’ diversi personaggi. Ebbene, quello che noto in quel capitolo è appunto un certo che di sparpagliato, sicché, quando si è sentita la campana a martello, l’autore ci dice prima quello che succede in casa di Lucia e poi quello che succede in casa di don Abbondio: ci dice insomma gli effetti particolari [p. 296 modifica]del comico, e ci ruba l’effetto generale di esso. — Supponete per poco un quadro, nel quale fosse dipinta interamente quella scena. Ci sarebbero da una parte i bravi in confusione, dall’altra don Abbondio chiuso nella camera spaventato, Renzo che remiga con le mani in cerca del curato, Lucia atterrita, Tonio carpone che scopa colle mani il pavimento per adunghiare la sua quitanza, Gervaso che grida e trasalta spiritato. Il pittore vi avrebbe rappresentato tutto questo, e da una parte la fuga degli uni, e dall’altra la scena che avveniva in casa del curato, ed in mezzo del quadro il popolo accorso.

Ebbene tutto questo insieme vi sfugge nel capitolo VIII, l’effetto generale del comico è perduto.

Ma per dirvi qualche cosa di quel che riguarda don Abbondio, torniamo al principio del capitolo VIII.

Don Abbondio, già guarito dalla febbre dello spavento, seduto sul suo seggiolone, ruminava: — «Cameade! Chi era costui?» — . E l’autore vi dà il grottesco di quella figura quando dice che «stava sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, imbacuccato in un vecchio berretto a foggia di camauro che gli faceva cornice intorno alla faccia», con «due folte ciocche di capelli che gli scappavano fuor del berretto, due folti sopraccigli, due folti mustacchi, un folto pizzo pel lungo del mento, tutti canuti e sparsi su quella faccia brunazza e rugosa», e che «potevano assomigliarsi a cespugli nevicosí sporgenti da un dirupo, al chiarore della luna»;... ed il chiarore della luna era il lume scarso di una piccola lucerna. Si vede che Manzoni ha vista quella figura prima di descriverla. Or quando viene il momento della sorpresa, vi è una frase che va esaminata. Quando Renzo dice: — «Signor curato, in presenza di questi testimonii, quest’è mia moglie» — , e Lucia sta per dire: — «E questo...» — , l’autore dice: «Don Abbondio intravvide, vide, si spaventò, si stupì, s’infuriò, pensò, prese una risoluzione». Tutto questo è ben rapido ed accenna alle impressioni interne che avevano luogo in don Abbondio. Quando voi sorprendete un uomo, certamente le impressioni interne non pigliano forma di pensieri, né si rivelano che sulla faccia. Se [p. 297 modifica]don Abbondio parlasse lui e dicesse: — Vidi, mi stupii, mi spaventai, ecc. — , tutto ciò sarebbe sciocco, perché egli non ha avuto il tempo di pensare, innanzi a lui non v’è altro che l’azione. Ma qui è l’autore che parla e fa da critico, ed il Manzoni è critico a modo suo, e cerca di vedere le impressioni che si succedono nell’animo di don Abbondio. E quando l’autore fa il critico, allora al critico resta di andare più indietro e vedere da che sono prodotti que’ sentimenti, quelle impressioni che l’autore ha notate. Don Abbondio dunque vide e si spaventò, ma nel sentire Renzo che dice: — «Signor curato, in presenza di questi testimonii, quest’è mia moglie» — , s’infuria, e quell’infuriarsi è il dire: — Per Dio! ed i bravi! e don Rodrigo!... — .

Ma se tutto questo finisse qui, il matrimonio si sarebbe fatto; ma è appunto questo pensiero che il matrimonio si faceva, e tutto ciò che la paura gli suggeriva di terribili conseguenze, che gli fa montare il sangue alla testa...; e, miei cari, c’è una osservazione profonda, che non v’è, cioè, uomo più pericoloso dell’uomo che ha paura.

Quando un uomo pauroso è messo, come si dice, con le spalle al muro, è insolente, è feroce, diventa l’espressione di ogni sentimento plebeo. Ebbene don Abbondio oltrepassa appunto quello che un uomo freddo avrebbe fatto; quindi non si contenta di lanciar via tavolo, libri e lucerna, ma afferrato il tappeto, che copriva la tavola, lo gittò sgarbatamente sulla testa di Lucia, e parea che l’affogasse per impedirle di pronunziare intera la formola. E poi si ritira e nel coraggio della sua paura grida: — «Perpetua, tradimento, aiuto!» — . È questo un motivo comico, che mette chiaramente in vista il carattere di don Abbondio.

Ma qui finisce don Abbondio in quanto rappresenta una parte principale; la sua Iliade finisce col capitolo Vili.— Renzo e Lucia vanno lontani; egli si è liberato e scomparisce dall’azione per ricomparire in seguito, quando il Borromeo si ritrova in quei dintorni a far la visita delle parrocchie: ond’è che don Abbondio, senza che se lo pensasse, si trova di nuovo mescolato negli avvenimenti. [p. 298 modifica]Ma qui il nostro curato è un accessorio oscuro e volgare, che sta sempre rannicchiato all’ultimo posto. — E qual è da quel punto in poi l’ufficio di don Abbondio? È un elemento comico ed allegro, che accompagna le altre figure del romanzo, come il Sancio Panza accompagna il don Chisciotte del Cervantes.

E l’uomo volgare che guarda sempre il mondo con la sua lente, ed applica la sua filosofia a qualsiasi avvenimento: ed ora l’applica all’Innominato e dice: — «Costui! dopo aver messo sottosopra il mondo colle scelleratezze, adesso lo mette sottosopra colla conversione... Tanto che, quando son nati con quella smania in corpo, bisogna che facciano sempre fracasso. Ci vuol tanto a fare il galantuomo tutta la vita, come ho fatto io? Signor no...» — ; tal’altra guarda il Borromeo con la sua lente e dice: — E quest’altro che vuol fare il santo... «subito subito, a braccia aperte, caro amico, amico caro;... come se lo avesse veduto far miracoli;... a casa mia si chiama precipitazione. E senza avere una caparra di niente, dargli in mano un povero curato! questo si chiama giuocare un uomo a pari o callo» — . È insomma il mondo esaminato dal punto di vista volgare, e tutto è fatto dall’autore per ridurre in proporzioni più convenienti a’ lettori l’ambiente troppo elevato in cui vivono gli altri personaggi.

Il comico in don Abbondio finisce quando finisce la paura. Quando egli ha la notiza della morte di don Rodrigo, quando se n’è proprio accertato, allora la paura cessa e vengono fuori le qualità amabili del suo animo: egli parla con Renzo, Lucia ed Agnese sugli stessi avvenimenti passati, e che furono cagione della sua paura, e ne parla scherzando, che anzi diviene spiritoso con le donne; il fondo buono di don Abbondio è venuto fuori! Questo però è il fine del comico di don Abbondio come individuo, ma non è il fine del comico ch’egli rappresenta dirimpetto all’arte, perché egli significa oltracciò la borghesia fiacca ed ipocrita messa in caricatura.

Il romanzo è la rappresentazione di un ordine morale-religioso, accanto del quale sta il mondo corrotto, ch’è il comico rappresentato da don Abbondio: e sorge come negazione del primo [p. 299 modifica]il mondo malvagio rappresentato dall’Innominato e da don Rodrigo. — La fine artistica del romanzo è che questi gruppi si armonizzino, e la contraddizione cessi, risolvendosi nel mondo armonico della morale e dell’arte, perché il fondo del romanzo è la perfetta armonia morale ed artistica. E la soluzione de’ due gruppi, comico e malvagio, avviene in un uomo rappresentante il mondo morale e religioso, e ch’è il cardinale Federigo Borromeo: e dalla parte dell’Innominato avviene la vittoria dell’ottimo sul cattivo, e dall’altra parte si ha la vittoria della caritá che agisce, della bontà efficace che consiste nel fare il bene, contro la bontà negativa che consiste nel non far male. — Questo è oggetto di due scene, una fra il Borromeo e l’Innominato, l’altra fra il Borromeo e don Abbondio.

Per compiere dunque il pensiero artistico del romanzo ci rimane ad esaminate queste due scene.

        [Ne L’Era Novella, 30 maggio-1 giugno 1872].