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xv. don abbondio 287

in quanto cioè esso ha una espressione, epperò la sostanza dell’artista è la forma; il critico al contrario prende per punto di partenza quella forma, quella frase, nella quale [si] sia prodotto il mondo interno, e rifà il cammino, investigando tutti i moti psicologici che han prodotto quella espressione. E precisamente il lavoro dell’arte è come quello della natura; la natura vi mostra infatti la produzione, ma non le forze produttive: la produzione, che si può dire la forma di tutte quelle forze latenti che stanno al di dentro; e similmente l’artista afferma tutto ciò che è rappresentazione di movimenti intimi. Ma come il filosofo, pigliando per base il visibile si gitta nell’invisibile, e spiega così tutto ciò che non è forma, ma che è rappresentato dalla forma, così il critico rimpetto al lavoro di un artista, prende la forma in cui quello ha affermata un’immagine e cerca di riaffermare tutte quelle forze latenti, tutti i movimenti psicologici contenuti in essa. In due parole, l’artista coglie il mondo interno in un di fuori, il critico nel di fuori il mondo interno: l’uno, il critico, lavora dalla forma a risalire al mondo interno, l’altro dal mondo interno salta alla forma.

Applichiamo ora tutto questo alla frase: — «Per amor del cielo!...» — .

Ci siam dimandato in principio: — Che cosa è accaduto di nuovo in don Abbondio? — .

È accaduto che don Abbondio, salendo le scale, è fuori già delle impressioni esterne violente; è fuori delle pressioni di Perpetua, che gli ha cavato il segreto di bocca: l’immaginazione esaltata si è attutita, il bisogno di confidarsi è cessato, ed è sorta in lui novellamente la prudenza, ed egli dice in se stesso: — Che ho fatto! che bestia sono stato di confidare tutto a Perpetua, quella cicalona, in un affare che a divulgarlo ci va la vita!— . Don Abbondio si pente d’aver parlato. E notate che è naturale nelle persone timide il pentirsi d’aver fatto una cosa. L’uomo che non subisce la pressura delle impressioni esterne, e che fa di tutto per spezzarle con la coscienza di quello che fa, alla fin dei conti, quando rimane solo, anche che non le avesse superate, dice: — Ho fatto quello che ho potuto — ; e non se