Alcippo (1834)/Atto terzo
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ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Leucippe, Tirsi, Montano.
Leu. Lo strano avvenimento
Io v’ho fatto palese; a voi pertiensi
Risvegliare il pensiero
Per discreto rimedio;
A le Ninfe fia caro,
S’egli sarà severo.
Mon. Leucippe, esser dee grave,
E molesto a ciascuro il rimirare
Aprirsi strada, onde per questi monti
Lo studio de le Ninfe,
E la lor onestà sia mal secura;
E questo mal, che sorge
Hassi da castigare, anzi che cresca,
E che per sua grandezza
Non si possa vietare.
Tir. Costui, che con ardir non più provato
Porge esempio ad altrui
Di divenire ardito,
Dee certo esser punito,
E con la pena sua porgere esempio
Del nostro sdegno, onde altri
Abbia spavento d’oltraggiarne: parmi
Di pensar giustamente;
Nè penso di cangiarmi.
Leu. Ecco Aritea che viene,
E tragge ben legato
Quello amante infelice.
SCENA SECONDA
Aritea, Megilla, Montano, Tirsi, Leucippe.
Ari. Poi ch’io veggo con voi
Leucippe, io son secura,
O Tirsi, ed o Montano,
Ch’ella ben pienamente avrà narrato
L’istoria, onde costui
Or si conduce a la presenza vostra:
Ed io la tacerò: ma solamente
Narrerò le preghiere,
Che per la bocca mia vi fan le Ninfe;
Elle stan attendendo
Bramose di vedere
Che diritto giudicio altri sgomenti,
Sì che per l’avvenir più non s’insidii
La loro onesta vita
Con falsi tradimenti:
Voi siete colmi di sapere, esperti
Per l’etade canuta:
Voi qui date le leggi,
E la gente reggete in questi monti;
Or fate, che risplenda
Vostra virtù, sì come
È dover che s’attenda.
Tir. S’alcun dovesse ripregarsi, o pure
Dovesse stimolarsi con ragioni
A fornire alcuna opera,
Sarian vostre ragioni, e vostri preghi,
Aritea, ben possenti
Col petto di ciascuno;
Ma con noi son soverchi,
Sì dobbiamo vegghiar, che ’l sommo pregio
De le nostre contrade
Mai non divenga oscuro,
Per manco d’onestade;
Or tu, che in finti panni
Vai macchinando froda,
Di’, che pensier facesti?
Chi sei? donde movesti?
Meg. D’Elide mossi, o Tirsi;
E quantunque chiamarmi scellerato
Oda sì spesso, io pure
Non son veracemente,
Salvo che fortunato.
Tir. E qual fu la cagion, perchè fanciulla
Dentro coteste gonne ti fingevi
Per le nostre foreste?
Qual desiderio aveste?
Meg. Amava; e m’era tolto
Refrigerio sperare alle mie fiamme
Senza sì fatto inganno.
Men. Come? non t’era noto,
Che il prendere a trattar con queste Ninfe
Era risco mortale?
E ch’ogni reo di simigliante colpa,
E che ardisse cotanto,
Per legge si dannava ad annegarsi
Nel fiume d’Erimanto?
Meg. Erami noto; ed io
Molto men paventava
L’estremo de’ dolori,
Che non mirar vivendo
I begli occhi di Clori.
Men. Quale era tua speranza? ed a qual fine
Rivolgevi la mente
Da lei che desiavi?
Meg. Nulla era il desir mio,
E nulla mia speranza; io destinava
Il viver trapassar sol col mirarla
Fin che m’era concesso;
E se pure veniva oltra mia speme,
Ed oltra mio desire,
Ch’io dovessi sperare e desiare,
Era il fin de’ miei voti,
O Montano, sposarla,
E così ben penare.
Tir. Se la bramavi sposa,
Sponer tu le dovevi i desir tuoi.
Meg. Non è lo stato mio di sì gran pregio,
Che commover dovessi
Lei già fermata di menare i giorni
Senza consorte; ma se ’miei costumi,
Trattando io seco, avea tanta ventura
Sì ch’acquistasser parte
Delle sue grazie, allora
Mi s’apriva la via
Di sporle i miei desiri;
Ecco, o Tirsi, la froda,
Ecco l’insidia mia.
Ari. Veggio venire, e ben turbata in viso,
Onde lo sdegno suo si fa palese,
Clori; voi sentirete
Come ella sia disposta,
Su le sofferte offese.
SCENA TERZA
Clori, Megilla, Tirsi, Montano, Leucippe, Aritea.
Clo. Anzi ch’a voi favelli,
Ch’io mi volga a costui;
Rispondi ingannatore,
Qual cosa in me vedesti
Che ti porgesse ardir d’essermi amante?
E perchè il nome mio vai seminando
Entro gli amori tuoi?
Adesco io con gli sguardi, e col sembiante
Sì fattamente altrui,
Che sovra i miei costumi
Altri possa mentire, ed aver fede
Di non perder credenza?
Rispondi, che sai dire?
Meg. Mi costrinser le Ninfe
Sotto pene di morte a far palese,
Perchè sì sconosciuto
Qui facessi soggiorno;
Così costretto io dissi
Esser forza d’amore.
Fecer comando poi, ch’io rivelassi
Il nome della Ninfa, onde era amante,
Dissi chiamarsi Clori.
Dissi così, perch’era vero, ed anco
Per provar l’onestà dell’amor mio;
Certo la tua virtù ben conosciuta
Non è per consentire
Ch’a te si volga alcuno
Con biasmevol desire:
Chiedi, qual cosa mi facesse amarti?
Io ti rispondo, o Clori,
Bellezza ed onestate,
L’una e l’altra infinita;
Ora, s’amar per cotal guisa è colpa,
Debbo perder la vita.
Clo. Parole lusinghiere
E ripiene di froda; ove giammai
Vedeste me? rispondi;
Parla omai; fa ch’io ti oda.
Meg. Pur or si compie l’anno,
Che tu venisti in Elide alle feste
Su le rive d’Alfeo;
Colà ti rimirai;
E sì fatto mirare
Chi s’intende d’amor suole chiamarlo
Ardere, e consumare.
Clo. E chi d’amore è preso
Ha da vestir panni mentiti? ed indi
Dimora fare in divietate selve?
Sprezzar decreti; rompere costumi
Di popoli onorati?
No, non per certo; abbiamo
Legge contra costor, ch’in Erimanto
Abbia da gir sommerso,
E tu certo v’andrai,
S’a manifesta colpa
Deve seguir la pena;
Fingi, e menti, se sai.
Meg. Quanto di sopra ho detto,
Dissi per obbedire tue parole,
Che chiedean mia risposta;
Io non mi scuso, affermo
Esser degno di morte;
Eccomi in vostra forza;
Non è chi vi contrasti,
O per me metta voce.
Per questo condennato
Non è padre, che pianga,
Non fratel, che sospiri,
Non madre, non sorella,
Che vi si getti a’ piedi,
Clori, non infiammare
Lo sdegno di costoro;
Io vuo’ morir, tu ’l vedi.
Clo. Ora a voi, padri, e che di questi monti
Conservate le legge che vegghiate
Su la nostra salute
Con pregio di valore,
Altro non posso dir, salvo che pende
Dalla vostra sentenza il nostro onore;
Costui non può negare, e non vi nega,
Che sapea nostre usanze, e non per tanto
L’ha rotte, e disprezzate
Con malvagio disegno;
Quanto a l’animo suo, quanto appartiensi
A’ suoi pensier, noi siam tutte impudiche;
Sì fatte ei ne bramava; or voi pensate
Alla colpa, a l’esempio,
Ch’altri ne piglierà, se ’l sopportate;
Pur or per la mia lingua unitamente
Qui sono a ripregar tutte le ninfe,
Che la loro onestà per voi secura
Sia fra queste montagne; io certamente
S’egli ha scampo da voi,
Ma tal disavventura io non aspetto,
Scelgo il più forte stral da la faretra
Per trapassargli il petto; io più non posso
Qui stare a rimirarlo,
Contra ira m’accende;
Andiam, Leucippe, andiamo
A ritrovar l’amate
Nostre compagne, e voi,
Fate, ch’oggi apparisca
Vostro senno e bontate.
Mon. Non porremo in obblío
Nostro dovere, e farem sì, ch’altrove
La giustizia di noi
Chiara risplenderà
Non mossa da disdegno,
Nè da pietà; tu, se ti piace, omai
Garzon mal consigliato
Adduci tue ragioni, e fa difesa
Pur per la tua salute
In sì dubbioso stato.
Meg. Pur dianzi io dissi, ed ora vi confermo,
Che posto in grave ardore
Per la beltà di Clori, io fei pensiero
Di cangiar panni, e simigliarmi a Ninfa;
Frodi, ch’insegna Amore;
Erano miei disegni,
Per ogni guisa lusingarla, e quando
Al suo gentil giudizio i miei costumi
Per suprema ventura
Giunti non fosser vili,
Sì che l’alto suo cor fosse piegato
A non avermi a scherno,
Allora io proponea farle palese
Tutti gl’inganni, ed anco i miei desiri;
E s’ella non sdegnava
Meco sposarsi, per tal via sottrarmi
A gli immensi martiri:
Tali fur miei pensieri;
Furo malvagi, e quinci
Stati sono infelici.
Io ben v’affermo, e testimonio chiamo
E cielo e terra, e quel che gli governa,
Signore onnipotente,
Mai dal petto di Clori,
Mai da quel duro core
Compresi uscir parole,
Ch’odorasser d’amore;
Sempre dardi e faretre,
Sempre giochi silvestri, sempre accesa
La vidi a dar battaglia,
E portar spoglie d’animali alpestri;
Tanto ho da dirvi, omai
Forniscansi mie pene;
Questa vita odiata
Da lei, per cui vivea
Esser non mi può grata;
Duri per queste selve alta memoria
Della mia disventura; e se giammai
Un miserabil caso ha da narrarsi,
Dite de’ miei tormenti,
Nè cercate altra istoria.
Mon. Avvenga, che tue colpe
Siano assai manifeste, e tu non sappia,
E tu non voglia addurne alcuna scusa,
Noi sarem non per tanto,
Come è nostro costume,
Ben ritenuti ne’ giudizi nostri;
E faremo preghiera a’ sacri altari,
Perchè dirittamente
Ogni nostro intelletto
A giudicare impari;
Aritea, prendi cura,
E guarda colà dentro
Costui sì scioccamente
Caduto in disventura.