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DEL CHIABRERA 329

Mon. Leucippe, esser dee grave,
     E molesto a ciascuro il rimirare
     Aprirsi strada, onde per questi monti
     Lo studio de le Ninfe,
     E la lor onestà sia mal secura;
     E questo mal, che sorge
     Hassi da castigare, anzi che cresca,
     E che per sua grandezza
     Non si possa vietare.
Tir. Costui, che con ardir non più provato
     Porge esempio ad altrui
     Di divenire ardito,
     Dee certo esser punito,
     E con la pena sua porgere esempio
     Del nostro sdegno, onde altri
     Abbia spavento d’oltraggiarne: parmi
     Di pensar giustamente;
     Nè penso di cangiarmi.
Leu. Ecco Aritea che viene,
     E tragge ben legato
     Quello amante infelice.

SCENA SECONDA

Aritea, Megilla, Montano, Tirsi, Leucippe.

Ari. Poi ch’io veggo con voi
     Leucippe, io son secura,
     O Tirsi, ed o Montano,
     Ch’ella ben pienamente avrà narrato
     L’istoria, onde costui
     Or si conduce a la presenza vostra:
     Ed io la tacerò: ma solamente
     Narrerò le preghiere,
     Che per la bocca mia vi fan le Ninfe;
     Elle stan attendendo
     Bramose di vedere
     Che diritto giudicio altri sgomenti,
     Sì che per l’avvenir più non s’insidii
     La loro onesta vita
     Con falsi tradimenti:
     Voi siete colmi di sapere, esperti
     Per l’etade canuta:
     Voi qui date le leggi,
     E la gente reggete in questi monti;
     Or fate, che risplenda
     Vostra virtù, sì come
     È dover che s’attenda.
Tir. S’alcun dovesse ripregarsi, o pure
     Dovesse stimolarsi con ragioni
     A fornire alcuna opera,
     Sarian vostre ragioni, e vostri preghi,
     Aritea, ben possenti
     Col petto di ciascuno;
     Ma con noi son soverchi,
     Sì dobbiamo vegghiar, che ’l sommo pregio
     De le nostre contrade
     Mai non divenga oscuro,
     Per manco d’onestade;
     Or tu, che in finti panni
     Vai macchinando froda,
     Di’, che pensier facesti?
     Chi sei? donde movesti?
Meg. D’Elide mossi, o Tirsi;
     E quantunque chiamarmi scellerato
     Oda sì spesso, io pure
     Non son veracemente,
     Salvo che fortunato.
Tir. E qual fu la cagion, perchè fanciulla
     Dentro coteste gonne ti fingevi
     Per le nostre foreste?
     Qual desiderio aveste?
Meg. Amava; e m’era tolto
     Refrigerio sperare alle mie fiamme
     Senza sì fatto inganno.
Men. Come? non t’era noto,
     Che il prendere a trattar con queste Ninfe
     Era risco mortale?
     E ch’ogni reo di simigliante colpa,
     E che ardisse cotanto,
     Per legge si dannava ad annegarsi
     Nel fiume d’Erimanto?
Meg. Erami noto; ed io
     Molto men paventava
     L’estremo de’ dolori,
     Che non mirar vivendo
     I begli occhi di Clori.
Men. Quale era tua speranza? ed a qual fine
     Rivolgevi la mente
     Da lei che desiavi?
Meg. Nulla era il desir mio,
     E nulla mia speranza; io destinava
     Il viver trapassar sol col mirarla
     Fin che m’era concesso;
     E se pure veniva oltra mia speme,
     Ed oltra mio desire,
     Ch’io dovessi sperare e desiare,
     Era il fin de’ miei voti,
     O Montano, sposarla,
     E così ben penare.
Tir. Se la bramavi sposa,
     Sponer tu le dovevi i desir tuoi.
Meg. Non è lo stato mio di sì gran pregio,
     Che commover dovessi
     Lei già fermata di menare i giorni
     Senza consorte; ma se ’miei costumi,
     Trattando io seco, avea tanta ventura
     Sì ch’acquistasser parte
     Delle sue grazie, allora
     Mi s’apriva la via
     Di sporle i miei desiri;
     Ecco, o Tirsi, la froda,
     Ecco l’insidia mia.
Ari. Veggio venire, e ben turbata in viso,
     Onde lo sdegno suo si fa palese,
     Clori; voi sentirete
     Come ella sia disposta,
     Su le sofferte offese.

SCENA TERZA

Clori, Megilla, Tirsi, Montano, Leucippe, Aritea.

Clo. Anzi ch’a voi favelli,
     Ch’io mi volga a costui;
     Rispondi ingannatore,
     Qual cosa in me vedesti
     Che ti porgesse ardir d’essermi amante?
     E perchè il nome mio vai seminando
     Entro gli amori tuoi?
     Adesco io con gli sguardi, e col sembiante
     Sì fattamente altrui,