Alcippo (1834)/Atto quarto
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ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
Montano e Tirsi.
Mon. Tirsi, maturamente ripensando
Sul novo avvenimento, io mi conduco
A creder volentieri,
Che la nostra pietà non fia biasmata,
Se daremo la vita all’infelice;
Stimar si dee, che da principio fosse
Posta la legge per frenar la mente
De’ giovani orgogliosi,
I quali in queste selve erano usati
Fare oltraggio alle ninfe, e perturbare
I loro onesti studj
Con assalti amorosi; e certamente
Contra costor la morte oltra misura
Pena non è; ma fra le mani abbiamo
Caso diverso; ed oserei giurare
Non mai venuto in core
A chi diede la legge; un giovinetto
Impazzito d’amore, e procacciando
Farsi sposa una ninfa, è qui venuto
Come fanciulla, e sì modestamente,
E sì gentili furo i suoi costumi,
Che sempre reputossi una fanciulla
Fra’ nostri monti, e se sì strano intoppo
Non si faceva incontro a’ suoi disegni,
Ei partiva di qui, che pur una ombra
Non lasciava d’offesa; egli è caduto
Veracemente in colpa, ma la forza
D’amore è sua difesa.
Tir. Montano, io temerei che la pietade
Usata verso un sol poi non riesca
Ver la vita di molti
Non picciol feritate; riguardando
Alla strada, che s’apre a l’ardimento
Della sfrenata gioventù; che in mente
Questo caso venisse a quegli antichi,
Che fermaro la legge, io già non posso
Affermare, o negare;
Ben certo si comprende,
Che vollero munire, e far secura
In queste selve l’onestà, per tanto
A ciò si conservasse
Sotto pena di morte divietaro,
Ch’uomo qui non trattasse; or tu ripensa,
Se costui di nascosto qui venuto
Peccò contro la legge; egli ha peccato,
Dirai, ma per amore, ed io rispoado,
E dico tanto avanti,
Che chi prende a guardar la pudicizia
Sopra tutto la guarda dagli amanti,
Se l’amor perdoniamo, ognor con froda
Verran mille malvagi, e se fian colti,
Diranno essere amanti, io non son fiero;
Ma costui di distrugger procacciando
L’onestà femminile, ha per tal modo
Noi tutti offesi, che condurlo a morte
È pena disuguale;
Imperciò che l’onore
Appo i cori gentili
Più che la vita vale.
Mon. Tirsi, che questo giovane s’uccida
È colmo di giustizia, e ch’ei s’assolva
Pur è colmo di grazia; è forse meglio,
Che noi pigliamo una mezzana strada
Con la nostra sentenza,
Diasi a costui non lieve penitenza,
Pur ch’ei non mora, indi facciam decreto,
Che nessuna cagion non sia possente
A scusar l’uom, che fra le nostre ninfe
Venire ardisca, in modo tal crudeli
Non sarem detti,
Fama di noi non degna, e chiuderemo
Il passo, chè a seguirlo
Alcun altro non vegna.
Tir. Se sì fatto ardimento
Nei secoli avvenir meritamente
Punirassi con morte,
A cangiarsi la pena in questo giorno
Quale ragione è forte?
Mon. Tirsi, tu sei fermato
Nei pensier aspri, deh rivolgi il core
A l’amara novella,
Che dello sfortunato
Riceveranno i miseri parenti,
E tu pur fosti padre, e quando avvenne
Che il tuo figliuolo Alcippo
Pargoletto affogossi in Erimanto,
Io ti vidi sommerso
In angoscia profonda,
E dentro un mar di pianto;
Intenerisci il core,
E la pena d’altrui fa che misuri
Col tuo proprio dolore.
Tir. Ah Montan, qual ferita
Riapri entro il mio petto, si sommerse
In quel punto ogni ben della mia vita;
Sì certamente, ma mi chiama ad alto
Paragon di fortezza,
Se vuoi che tale io sia verso un straniero,
Quale inverso il figliuol possa formarmi
Natural tenerezza, io non affermo
Cotanta mia virtude;
Affermo ben che il padre di costui
Daría sul figlio mio quella sentenza
Che oggi darò del suo,
Però non mi sviar dalla giustizia
Con arte di pietà, ma riguardiamo
Schiettamente le colpe, e quella legge,
Che fra noi le corregge.
Mon. Ho non so che nel cor, sento una voce
Dentro del petto mio, che mi sconsiglia
Da l’ammazzar costui, se non ti spiace
Facciam così, prendiam piena contezza
Di questo sventurato, onde egli sia,
E cui figliuolo, e per qual modo altrove,
E con quali costumi ei sia vissuto;
Se ci si scopre uom vile, e per usanza
Rivolto a brutti vizj, ei si sommerga;
Se all’incontro veggiam che la sua vita
Sia condotta gentile ed innocente,
E che forza d’amor l’abbia tirato
A sì fatto periglio
Pur con umana colpa, prenderemo
Alcuno altro consiglio.
Tir. Facciasi il voler tuo, ma ti ricordo,
Montano, il detto è antico,
Che la Giustizia è cieca;
Non è varia la colpa,
Perchè l’uomo onorato e l’uomo vile
Se ne dimostri reo;
E chiunque commise
Moltissimi peccati, ei certamente
Diede principio, e tempo fu, ch’egli era
Come gli altri innocente.
Mon. Siam giunti alle capanne,
Or chiamiamo Aritea,
Vienne fuora, Aritea,
E mena il prigioniero
Qui fuor con esso teco;
Odi tu ciò ch’io parlo?
Tir. Eccolo al tuo cospetto, oggimai prendi
A bene esaminarlo.
SCENA II
Montano, Tirsi e Megilla.
Mon. Tutto quel ch’io ti chiedo
Credi, che per tuo ben noi lo chiediamo
E non per altro, e tu posto in periglio
Devi accettar sì come gran ventura
I nostro desiderio di salvarti;
Però rispondi e dimmi infra quai genti,
E qual loco è tua patria,
Nè ci tener nascoso
Il nome dei parenti.
Meg. Se risponder deggio io veracemente,
Montan, non saprei dirti
Certo dove io mi nacqui,
E men che della patria,
So de’ parenti favellar, Montano,
Non so di chi sia nato,
E men dove nascessi,
Solo mi so, ch’io vissi,
E morrò sfortunato.
Mon. Giovine, tu favelli
Per non so qual vaghezza, e ci dimostri,
Che di noi non ti caglia, io t’ammonisco,
Che sei molto vicino
A perdere la vita, o conservarla,
Pensa su te medesmo,
Ed a colui che parla.
Meg. Mia ventura è si strana
Che s’io rispondo il vero
Del modo in che son nato e son vissuto,
Rassembra ch’io vaneggi,
Montano, ed il mio dir non è creduto.
Ma tu per certo mi minacci in vano,
Minacciandomi morte,
È sì fatta mia sorte,
Ch’esser dee mio desío
Il perder questa vita.
Perchè viver deggio io?
Già fatto amando di provare indegno
Un minimo conforto,
E riserbato all’ira
Ed all’altrui disdegno?
Deh che vedrei vivendo,
Salvo una fronte oscura?
Ed un guardo per me non mai sereno?
Atti sempre feroci,
Ed accenti e parole
Da pormi dentro il cor rabbia e veneno?
Ah rompasi oggi mai
Il corso de’ miei giorni,
Sia lieta Clori di vedermi estinto,
Poi che sì mal l’amai.
È giusto che risponda
Al principio la fin del viver mio,
Appena nato al mondo
Perdei patria e parenti, e di me stesso
Non ho notizia alcuna
Dalle miserie oppresso
Io pur fui sostenuto,
Perchè crescendo io ben gustar potessi
I gravissimi affanni,
Che conosciuti non avrei morendo
In su quei teneri anni;
Montano, è gran ragione,
Ch’io m’affoghi nell’onde d’Erimanto,
Dentro a lui pargoletto
Ebbi a perder la vita,
E per gran meraviglia io ne campai,
Oggi pur mi vi tragge
La legge, ch’io sprezzai.
Tir. Un gran fascio di mali
Stringi in poche parole;
Deh fa più piano alquanto il tuo parlare,
Come è, che pargoletto
Avesti ed affogarti in Erimanto;
Meg. Come ciò fosse io non saprei narrare,
So, ch’indi fui raccolto;
E questo io so, perché mi fu narrato
Da lui, che mi raccolse;
Io di me non so nulla;
Voi vedete un disprezzo di natura,
Natoci per morir subitamente,
Campato dalla morte,
Per offerirsi a più crudel ventura.
Tir. Colui che ti raccolse
Come chiamossi? e dove
Ti trasse d’Erimanto?
Meg.Ei si chiamava, ed anco oggi si chiama
Per nome Melibeo,
Ei solea raccontarmi,
Che là, dove Erimanto
Entra nel fiume Alfeo,
Già vide correr voto un navicello,
In cui solo posava un fanciulletto,
Ch’avea forse cinque anni,
E lo trasse dal fiume in sue capanne,
Questo è quanto di me solea narrare
Quel mio padre, non padre,
E ch’io posso contare,
Tir. Dimmi, del nome tuo tieni memoria?
Ei come t’appellava?
Meg. Qual fosse veramente il nome mio
Son del tutto ignorante,
Ei mi disse Nerino,
Perché ne i pianti miei
Solea chiamar Nerina.
Tir. O pietade del ciel sempre infinita,
O fosca umana mente,
Montano, il mio pensier dove traea.
Me lasso, e me dolente?
Mon. Io certamente, o Tirsi, ho contrastato
A tue voglie severe,
Però che forza occulta
Mi conduceva a così fare, Dio
Il qual sempre è pietoso
Sia sempre anco lodato.
Tir. O carissimo, omai
Non più Nerino, omai non più Megilla,
Ma sia tuo nome Aicippo,
Non più della ventura,
Ma figliuolo di Tirsi.
Nerina era tua balia,
Ella andava a diporto
Con altre donne giù per l’Erimanto;
Fu con forza assalita
Da fiero stuolo d’uomini malvagi;
Seco ei trasser le donne,
E le solo lasciaro in sul naviglio,
Preda della ventura:
Dopo non molti giorni
Nerina liberata a me sen venne,
E narrò la sciagura: immantenente
Fei cercar d’ogn’intorno un lungo tempo,
Ne sentendo di te novella alcuna,
Io ti tenni per morto.
Ho ben pianto dieci anni,
Ne più speravo rivederti; o solo
E tardi ritrovato,
E mio vero conforto.
Meg. Tirsi, se ciò che narri, e fermamente
Ti metti nel pensiero
È da esser creduto, io proverollo
Con ben certo argomento:
Quando da Melibeo mi dipartiva,
Mi fe’ queste parole:
Tu parti, ed io son yecchio,
Ne so, s’arò ventura
Di più mai rivederti;
A molti varj casi
Esser puoi riserbato
Esempio de’ mortali,
Però da me ricevi, e ben conserva
Questi pochi segnali;
Dal collo io te gli tolsi in su quella ora,
Che ti trassi dal fiume,
Di qui forse potrai
Farti noto a’ parenti,
Quei segnali son questi, che dal collo
Pender tu mi vedrai.
Tir. Ogni dubbio è rimosso,
Certa è la verità: dunque piangendo
Non finirò mia vila,
Averò pur chi mi rinchiuda gli occhi
Su l’ultima partita.
Meg. Tirsi, però che padre
Non ti voglio chiamar, quando assai poco
Hai da goder tal nome: il troppo affetto
Ti toglie di te stesso, e non avvisi,
Che ritrovi un figliuolo,
Cui di vivere omai non è concesso,
Tre son, che fortemente
Contrastano mia vita,
La vostra legge, onde io
Omai son condannato;
Clori, che sol desio
Ha di vedermi ucciso, ed io che senza
La compagnia di lei
Non vuo’ che vada innanzi
Pur un de’ giorni miei.
Tir. Deh che si metta in bando
Un si fatto parlar: ben troverassi
Modo ad uscir di pena,
Dio, che fin qui stato è con esso noi
Non ci abbandonerà, movi Aritea,
Trova le ninfe, trova
Clori, racconta lor ciò ch’hai veduto,
Sponi miei prieghi, e teco
A noi qui le conduci,
Montano, entriamo in tanto
Dentro queste capanne, ed attendiamo
La fin d’ogni mio pianto.