Alcippo (1834)/Atto secondo

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ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Clori, e Leucippe.

Clo. Meno, ch’io non sperai
     Fatto ho soggiorno con Licasta, e meno
     Di quel, che paventai,
     Perdo di questo giorno;
     Ella annojata da la febbre amava
     Solitario riposo,
     E sì come pur suole
     Un’anima dolente,
     Malamente soffriva
     Altrui detti e parole;
     Or contra mio pensiero
     Goderò per le selve
     Parte di questo giorno,
     Che perder tutto intiero
     Fermamente io credea;
     Forse alcuna cervetta
     Fuggirà l’arco invano,
     Che per lei stenderà questa mia mano.
Leu. O meraviglia, o sdegno,
     Che nel petto di Clori io veggo acceso,
     Tosto el’ella l’intenda.
Clo. Ecco Leucippe, ed odo,
     Che di me parla; e parmi
     Turbata nel sembiante.
     Ove se vai Leucippe? e che favelli
     Teco medesma? e quale
     Cagion si ti conturba?
Leu. O carissima Clori
     Pârti credibil cosa,
     Che sotto gonne, e femminili bende
     La tua cara Megilla
     Sia trovata esser maschio?
Clo. Vaneggi tu, Leucippe?
     O pur così scherzando
     Vuoi di me prender gioco?
Leu. Nè scherzo, nè vaneggio;
     Racconto verità, che con questi occhi
     Ho veduto pur dianzi,
     In compagnia de l’altre Ninfe, cosa
     Onde esse son ripiene
     Di pensiero, e d’affanno:
     E non senza ragion; chè s’altri ardisce
     Contaminar l’onor di queste selve,
     La nobil vita, e gli onorati studi
     De l’Arcadica gente
     Dilegueran, come ombra.
Clo. Vado fuor di me stessa
     Pur ciò pensando; or dimmi
     Dove fu; come avvenne?
Leu. Aveva il Sol de la celeste via
     Corso via più che ’l mezzo, e consigliava
     Con l’ardor de’ sui raggi a riposarsi:
     E già le nostre Ninfe, altre tendendo
     Gli archi contra il fuggir de’ lupi alpini,
     Altre contra le damme, erano giunte
     Ove tra belle quercie
     In solitario campo, e puro, e queto
     Allarga l’onde il lago di Melampo.
     Sai quanto egli è sereno, e come invita
     A rinfrescarsi nel suo chiaro argento
     Gli stanchi peregrini; a pena Ninfa
     Il rimirò, che rallentando il cinto
     A spogliarsi prendea, e con l’esempio
     Confortò le compagne; Anfigenea
     Lenta non era a dislacciar la gonna;
     NèTesto grande lenta era Terilla; ogn’una in somma
     S’apprestava a lasciare
     In quella onda tranquilla
     Il sudore, e la polve; in quel bisbiglio,
     In quel vario tumulto
     Megilla fea sembiante
     Non scender volentier ne le belle onde;
     Ed avea fosco il ciglio;
     Videla Filli, e con gentile sforzo
     Le corse addosso, e similmente ogni altra
     Con dolce violenza la spogliava;
     Ed ella contrastava; e nel contrasto
     Ora accendeva di rossor le gote,
     Ed ora impallidiva: il rimirarla
     Così turbata conturbò la mente
     D’alcune Ninfe, e le pigliò sospetto
     Non forse costringesse alcuna colpa
     Megilla a non mostrare il ventre ignudo;
     E però si guataro
     Alquanto in viso: consigliolla al fine
     Nisa a spogliarsi, ed ella mosse i piedi,
     Atto facendo di partirsi; allora
     Tutte le furo intorno; e tesero archi,
     Ed abbassaro spiedi; e finalmente
     La dispogliaro; e per tal guisa apparve
     La cagion chiara onde ella fu ritrosa;
     Grande ira sorse, e fu chi da la corda
     Già spingeva lo strale a darle morte
     Ma divietollo Nisa, ella commise,
     Che fosse rivestita; indi legarle
     Fecer le braccia, ed Aritea fu scelta
     A ben cauta menarla
     A queste sue capanne,
     E molto ben guardarla; ed io men vado
     Mandata da le Ninfe a ritrovare
     Montano, e Tirsi; essi daran sentenza,
     E su lo strano ardir di quel malvagio
     Doveran giudicare.
Clo. Nova cosa ad udirsi.
     Ma rispondimi tu; non dimandaro,
     Perchè sì s’addobbasse? e sconosciuto
     Qui fra noi dimorasse.
Leu. Il dimandaro; ed ei sinceramente
     Confessò, che l’amore
     Fervido d’una Ninfa il persuase:
     Disse, che egli era amante, e non sperando
     Mirar per altri modi
     Quelle amate bellezze, ei si condusse
     A così fatte frodi.
Clo. Disse, ch’egli era amante?
     O foreste d’Arcadia, e quando mai
     Tentossi per alcun di fare oltraggio
     A la vostra onestade?
     O ardimento degno
     Di severa vendetta
     Per grande esempio altrui!

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     Ma de le Ninfe qual fu sì possente
     Ch’infiammasse costui?
Leu. Tu quella fosti, o Clori.
Clo. Mi motteggi Leucippe?
Leu. Non già per certo: ei così disse, e tutto
     Il coro l’ascoltò de le compagne:
Clo. Ah cor villano: indegno
     Di far soggiorno in questi monti: io dunque
     Son tal, che dò speranza
     A pensieri d’Amore?
     Ma s’alcun forse prende
     Di me sospetto, e pensa,
     Che ’n questo abbia peccato,
     Io farò sì, ch’ognuno
     Vedrà, ch’io son nemica
     Di questo scellerato.
Leu. Non ti dar questa pena:
     Clori, non è chi ne sospetti, e vano
     Fôra l’altrui sospetto.
Clo. E legge ferma, antica
     De le nostre foreste,
     Che s’altri guasta, o tenta
     Guastar per alcun modo
     L’onestà de le Ninfe, egli legato
     Si tragga in mezzo l’Erimanto; ed ivi
     S’abbandoni sommerso:
     Non cesserò con Tirsi,
     Ne con Montan fin che dannato a morte
     Ne i gorghi di quel fiume
     Non fia questo perverso;
     Spegnerassi l’ardore,
     Che sì l’accese malamente: giusto
     Sarà tal refrigerio
     Al foco di quel core.
Leu. Non t’accender: ben sai
     Che Montano, e che Tirsi
     Pastori son d’immenso senno: ed hanno
     Eguale esperienza
     A la lor gran bontade;
     Essi daran sentenza,
     E faran tal governo,
     Che questi monti fioriran non meno
     Per l’avvenir, che per l’addietro: io vado,
     E troverolli: e qui farò venirli;
     Tu poi con esso loro,
     Per comune salute
     Farai quelle parole,
     Che parran convenirsi a tua virtute.
Clo. Ove lasciasti, dimmi,
     Le nostre Ninfe? io voglio
     Farmi tra lor sentire;
     E che siano infiammate
     A dare esempio altrui con la vendetta
     D’un così fatto ardire.
Leu. Nel bosco de le quercie io le lasciai
     Vicino al lago di Melampo: io stimo,
     Ch’ivi le troverai.

SCENA SECONDA

Clori.

In che tempo, in che loco
     Questa finta Megilla io mi vedessi,
     Si che de l’amor mio
     Rimaner presa ella potesse, io certo
     Col pensier non ritrovo:
     E da quel dì, che ne le nostre selve
     A me si fe’ compagna
     Fino a quest’ora ritrovar non posso
     Un suo minimo detto,
     Ond’io creder potessi,
     Che d’amor foco le scaldasse il petto:
     Un segno, un atto, un guardo
     Non vidi uscir da lei,
     Il qual fosse argomento,
     Ch’ella qui si vivesse
     Vaga degli amor miei;
     Ben la vidi cortese, e di maniere
     Tutte gentili adorna
     Ed amabile molto; onde m’assalse
     Del suo rischio mortale
     Non picciola pietade:
     Non per tanto io ne sgombro
     Tutto il cor, tutto il petto,
     Per zelo d’onestade;
     Vuo’ che si vegga in prova
     Da tutta quanta Arcadia,
     Che’n me non si ritrova ombra d’amore:
     E che contra costui
     Di rabbia, e di furore
     È per esser mai sempre
     In questo sen tutto rigonfio il core;
     Ecco dove conduce
     L’amorosa ferita;
     Costui correndo appresso i suoi desiri
     È per perder la vita
     Con disonore eterno;
     E pur non si rimane in ogni parte
     Di seguir follemente
     Una cieca vaghezza,
     Che dal dritto sentier l’uomo diparte;
     O d’Amor face, e dardi,
     Miseria de’ mortali,
     Ma da lor conosciuta
     È senza frutto, e tardi;
     Fallace arciero d’invisibile arco,
     Io ti sprezzo, io ti scherno;
     In van m’attendi al varco,
     In van la face accendi;
     Per la mia libertade
     In van la rete tendi; io chiaro il dico;
     Sempre il nome di te fia mio nemico.